sabato 16 luglio 2022

Campidoglio, i consiglieri si raddoppiano lo stipendio.

 

Tutti d’accordo e pronti a votare in aula Giulio Cesare la delibera che permetterà ai consiglieri comunali di Roma di arrivare anche a raddoppiarsi lo stipendio. Appuntamento all’inizio della prossima settimana, forse martedì, per auto-moltiplicarsi l’indennità che passerà da massimo 1.800 euro a circa 3.500. Stop solo per gli assenteisti. È quanto prevede una proposta di delibera, discussa in mattinata, sulla quale i consiglieri sono tutti d’accordo. Il testo chiede di “prevedere che per i consiglieri capitolini si possa equamente commisurare una indennità di funzione al 45% dell’indennità del Sindaco che sarà a carico di Roma Capitale”. Dal Campidoglio spiegano che si tratta di un adeguamento a un decreto legislativo del 2010, approvato quando ci fu la prima legge su Roma Capitale varata dal governo Berlusconi quando il sindaco della città era Gianni Alemanno. In questa maniera – previo un successivo decreto del Ministero dell’Interno – lo stipendio lieviterà fino a 3.200 netti. L’unica condizione per percepire l’indennità piena sarà quella di garantire “un numero di presenze mensile minimo pari a venti, tra sedute di Assemblea Capitolina e Commissioni Consiliari” e “non meno del 60% delle sedute dell’Assemblea Capitolina”. I soldi? Direttamente dal bilancio del Campidoglio. Così i 48 consiglieri, i cui stipendi erano già stati adeguati negli scorsi mesi, arriveranno a percepire circa 5.175 euro lordi al mese nell’anno in corso e fino a 6.120 euro lordi l’anno prossimo.

Un atto che per la maggioranza risulta più che importante e oggi la presidente della commissione, la consigliera Pd Giulia Tempesta, ha sottolineato: “La nostra mole di lavoro non è indifferente. Nessuno ci ha puntato la pistola alla tempia ma per rispondere ai nostri ruoli abbiamo bisogno di giornate di 48 ore e per svolgere a pieno il ruolo che ci hanno dato i cittadini”. Il consigliere di Roma Futura Giovanni Caudo ha aggiunto: “L’aumento è anche poco”.

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C’è vita oltre Draghi. - Marco Travaglio

 

Unendoci al cordoglio delle prefiche inconsolabili che strillano per la prematura dipartita di Mario Antonietta, partecipiamo alle esequie con due domandine facili facili.

1. Posto che il capo dello Stato scioglie anzitempo le Camere solo quando non c’è più una maggioranza per formare un governo, in che senso “dopo Draghi c’è solo il voto”? Con l’astensione M5S, il governo Draghi ha appena avuto la fiducia dalla maggioranza assoluta di entrambi i rami del Parlamento. Ma, siccome è capriccioso, o s’è stufato, o teme i forconi, o ha pilates, il premier s’è dimesso. Mattarella ha respinto le dimissioni e l’ha rispedito alle Camere per mercoledì. E lì l’unico rischio che non corre è non avere la fiducia: avrà quella extralarge col M5S se accoglierà le 9 proposte di Conte; o quella più ridotta, ma comunque sufficiente, con tutti gli attuali alleati senza M5S. In questo caso dovrebbe fare ciò che si fa sempre: sostituire i ministri 5Stelle e continuare a governare. Ma potrebbe pure ritentare la fuga con dimissioni irrevocabili. Però la maggioranza esisterebbe comunque, salvo che un altro partitone (la Lega?) si sfilasse: nel qual caso, fine della maggioranza e della legislatura. Ma, se nessuno a parte il M5S si sfila, non si vede perché l’addio di Draghi porti alle urne. Mattarella dovrebbe proporre un altro premier alla maggioranza e lasciar decidere al Parlamento. Se i 5Stelle sono inaffidabili e infrequentabili, che aspettano gli altri a fare un governo senza di loro? Non ci pare di aver letto nella Costituzione che l’unico italiano su 59 milioni abilitato alla premiership sia Draghi: anzi, la Carta non fa proprio nomi.

2. L’indispensabilità di Draghi nasce da bizzarre leggende metropolitane sui suoi poteri taumaturgici al governo (in 17 mesi non ha combinato quasi nulla e quel poco era sbagliato, dalla giustizia al Covid, dalla guerra al riarmo al 2% del Pil stoppato da Conte) e sui mercati (lo spread è più basso ora che s’è dimesso di quando era in carica). Ma è stata smentita da lui stesso a Natale quando, per un altro capriccio, annunciò che la sua missione era compiuta e, da “nonno al servizio delle istituzioni” (o viceversa), ambiva a traslocare al Quirinale. E tutta la stampa, che fino ad allora voleva imbullonarlo al governo in saecula saeculorum, prese a bombardarci le palle per spedirlo a tagliar nastri lassù. Tanto, per Palazzo Chigi, uno valeva uno: andava bene pure tal Daniele Franco. Conte e Salvini si opposero perché un governo-ammucchiata guidato da altri era improbabile, se non impossibile. E furono lapidati. Ora, di grazia, com’è che il nonnetto che tutti volevano sloggiare da Palazzo Chigi e imbalsamare sul Colle è l’unico italiano su 59 milioni in grado di fare il presidente del Consiglio?

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