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mercoledì 19 maggio 2021

Cari giudici di Strasburgo, su B. non avete capito un granché. - Gian Carlo Caselli

 

Grazie! Grazie signori giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo! Sono stato critico con voi nel caso Contrada e per l’ergastolo ostativo spalancato ai mafiosi. Ma ora no. Avete regalato alla malandata giustizia italiana una boccata d’ossigeno, provvidenziale per sopravvivere ai miasmi delle vicende Palamara e Amara. Perché se voi ci avete messo quasi otto anni per leggere un ricorso, i tempi biblici della giustizia italiana non sono più uno scandalo di cui vergognarsi.

E poi, signori della Corte, mi avete ricordato una faglia del nostro sistema, quella che – a volte inconsapevolmente – può portare ad avere più riguardo per i “galantuomini”, cioè le persone considerate perbene a prescindere, in ragione della posizione sociale ed economica che consente loro di garantirsi costose e agguerrite difese di primissimo livello. Proprio come quella dei magnifici sei (nomi che lasciano basito un povero magistrato in pensione come me) che compongono il collegio difensivo di Silvio Berlusconi. È di lui, infatti, che stiamo parlando, della sua condanna per frode fiscale di quasi otto anni fa, della quale oggi voi, signori Giudici, chiedete all’Italia conto e ragione, formulando una raffica di quesiti che al di là delle vostre intenzioni servono principalmente a seminare dubbi dove non ce ne possono più essere.

Dubbi sintetizzabili nella domanda se il ricorrente Cavaliere abbia avuto un processo equo a opera di un giudice imparziale, indipendente e costituito per legge. Complimenti! Ancora un grazie, ma questa volta a nome di tutti i condannati di questo mondo, posto che non ce n’è quasi nessuno che non sia straconvinto di essere stato vittima di un processo iniquo.

Gira e rigira, i quesiti riesumano la tesi insostenibile del complotto giudiziario contro Berlusconi, evocato per anni con lo studiato sistema di trasformare in verità – a forza di ripeterli – anche i falsi grossolani. Ma un minimo di conoscenza della realtà consente di affermare che soltanto in Italia il fondato e motivato esercizio dell’azione penale nei confronti del capo del governo ha determinato la contestazione in radice del processo, da parte dello stesso leader e della sua maggioranza; con la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici).

Questo è ciò a cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto, oltre all’attacco quotidiano a pubblici ministeri e giudici, l’approvazione di varie leggi ad personam . Tra cui la legge Cirami e il lodo Schifani, utilizzabili rispettivamente per sottrarre il processo al giudice naturale e allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento. Guarda caso, due punti oggetto dei quesiti Cedu.

A stupire, in particolare, è il quesito se l’imputato abbia potuto disporre del tempo necessario a preparare la sua difesa. Non solo perché la pattuglia di avvocati italiani che lo assisteva non era certo di livello inferiore a quella europea. Soprattutto perché di tempo ne è trascorso così tanto che tre dei reati contestati sono caduti in prescrizione!

In ogni caso, tutti i quesiti Cedu riguardano questioni già valutate e respinte da tutti i giudici italiani (di merito e di legittimità). Per cui non riesco proprio a vedere come il governo italiano (chiamato dalla Cedu a presentare la “giustificazione”, neanche fossimo a scuola…) possa affermare cose diverse. Sarebbe un oltraggio al principio della separazione dei poteri. Vero è che la maggioranza dell’attuale governo ha ripescato, anche tra i suoi componenti, il partito di Berlusconi. Ma a tutto c’è un limite…

IlFQ (18/5/2021)

sabato 15 maggio 2021

Perplessità.

 

Interessante, anzi, interessantissimo, leggere i giudizi espressi da alcuni giudici in alcune situazioni;
secondo il loro parere Salvini, ministro degli interni, non permette ad una nave di attraccare in porto, ma non viene neanche processato perchè il fatto non sussiste; se ne deduce, pertanto, che fosse la nave a non voler attraccare;
l'Appendino, sindaco di Torino, invece, viene condannata a 18 mesi per i fatti successi in piazza ad opera di alcuni scalmanati; se ne deduce, pertanto, che il compito di un sindaco è andare in giro per la città ventiquattrore su ventiquattro, spada in resta, per evitare che fatti simili non avvengano più.
Ancora più incomprensibile è il fatto che una persona inqualificabile, per arrivare alla prescrizione, prendendosi gioco di una intera nazione e di tutta la magistratura nazionale, adotti il metodo inusuale di ricovero ospedaliero ad ogni approssimarsi di udienza in tribunale, per sopravvenute o persistenti cause di salute malferma... senza che qualcuno di loro intervenga per appurarne la veridicità... lascia basiti, perplessi... 

cetta

venerdì 17 luglio 2020

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma. - Valeria Pacelli

Sull’audio pro-Berlusconi ora indagano i pm di Roma

La denuncia di Esposito - Il giudice querela Piero Sansonetti, ma la Procura farà approfondimenti sul nastro di Amedeo Franco.
La vicenda dell’audio di Amedeo Franco , il giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset, arriva in Procura a Roma. I pm capitolini faranno approfondimenti sulla registrazione in cui si sente il giudice parlare di “plotone d’esecuzione”, di “porcheria” e “condanna a priori”. Le indagini verranno disposte nell’ambito di un fascicolo che sarà aperto dopo la denuncia, depositata ieri mattina, da Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale che ha emesso quel verdetto. Il fascicolo quindi parte da altro. Il giudice ora in pensione infatti ha denunciato per diffamazione il direttore del quotidiano Il Riformista, Piero Sansonetti, per alcune affermazioni fatte durante una puntata di “Quarta Repubblica”, la trasmissione in onda su Rete 4 diretta da Nicola Porro.
Era il 6 luglio scorso. “Noi sappiamo oggi che la magistratura italiana è marcia. – ha detto Sansonetti – (…) I pubblici ministeri e i giudici spesso si mettono d’accordo. Gli imputati sono travolti. Le garanzie non ci sono. Moltissimi processi sono truccati. Tutta la magistratura italiana è sotto accusa. E purtroppo (…) i grandi giornali italiani ne parlano poco, ma è una tragedia perché lo stato di diritto è stato travolto dalle trame della magistratura italiana”. Poi aggiunge: “E quella del giudice Esposito fa parte, sta dentro questa storia”, frase questa finita nella denuncia di Esposito. Come pure quando il giornalista dice: “Il giudice Esposito è uno scandalo vivente, così come uno scandalo vivente sono decine di altri giudici”.
Per questo il magistrato ha denunciato per diffamazione Sansonetti chiedendo ai pm anche se vi siano gli estremi per contestare il reato di vilipendio dell’ordine giudiziario. E questa è la denuncia di Esposito. Per verificare però la diffamazione, si ragiona in Procura, bisogna capire anche l’antefatto, la circostanza alla quale si riferiscono le parole di Sansonetti. E quindi quell’audio che da giorni una certa stampa innalza a “prova” per riabilitare Berlusconi e che è stato depositato dalla difesa del leader di Forza Italia a sostegno del ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Come noto, in quella registrazione del 6 febbraio 2014, il giudice Amedeo Franco, deceduto un anno fa, rinnega la sentenza che lui stesso aveva firmato. “I pregiudizi per forza che ci stavano (…) Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”, dice Amedeo Franco portato al cospetto dell’ex premier da Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, in passato sottosegretario alla Giustizia del governo di Enrico Letta e ora in Italia Viva.
Perché Franco si presentò dall’ex premier? Chi avviò la registrazione? Perché le dichiarazioni del giudice sono state rese pubbliche integralmente solo un anno dopo la sua morte? C’è qualcosa ancora di ignoto dietro quelle registrazioni?
L’inchiesta penale, in futuro, potrà trovare le risposte.

mercoledì 27 maggio 2020

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/04/10/news/i-magistrati-furbetti-che-fanno-affari-con-le-aste-immobiliari-1.320423?fbclid=IwAR1jF8mN2qyMNna0NT4M5rXFhtabGIWkPSscf8HG2LACNKTUn5F0XR0f8RA

venerdì 1 maggio 2020

Ufficio collocamento giudici, citofonare Luca Palamara. - Antonio Massari

Ufficio collocamento giudici, citofonare Luca Palamara

Informativa - Terminata l’indagine a Perugia: dalle carte dei pm emerge un’impressionante rete di influenze sulla magistratura.
Luca Palamara nel marzo del 2019 sembrava “l’ufficio collocamento” della magistratura italiana. Erano in tanti a chiamarlo per chiedergli una mano in vista delle future nomine. Chi non lo chiama mai, a giudicare dagli atti depositati dalla Procura di Perugia, erano gli uomini indagati con lui di corruzione: l’ex legale esterno dell’Eni, Piero Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e lo stesso Fabrizio Centofanti – l’imprenditore tuttora indagato con Palamara per corruzione per l’esercizio della funzione – che nelle informative finora visionate dal Fatto non appare neanche tra gli intercettati. Non è un caso che le posizioni di Amara e Calafiore al termine dell’indagine non facciano più parte del fascicolo, così come è caduta l’accusa iniziale del versamento di 40mila euro a Palamara per la nomina del pm Giancarlo Longo alla Procura di Gela.
Se non v’è traccia delle telefonate con i suoi coindagati dell’epoca, c’è invece una montagna di conversazioni con magistrati. E sin da marzo gli investigatori hanno la consapevolezza che Palamara sta conducendo una strategia tutta sua per portare Marcello Viola a capo della Procura di Roma al posto di Giuseppe Pignatone ormai prossimo alla pensione. In quel momento il trojan non è stato ancora richiesto dagli investigatori del Gico della Guardia di Finanza, né dalla Procura di Perugia. In quel momento siamo in presenza delle sole intercettazioni telefoniche.
Scrive la Gdf nell’informativa di fine marzo: “Chiarificatrice in tal senso risultava tra le altre la conversazione captata il 3 marzo 2019 ore alle 17.25 tra Palamara e Luca Forciniti nel corso della quale gli interlocutori in relazione alle nomine dei Procuratori di Roma e Perugia facevano riferimento ad accordi con appartenenti all’associazione di Magistratura Indipendente.” Di lì a poco sarà intercettato anche il parlamentare del Pd e uomo forte di Mi, Cosimo Ferri. La manovra di Palamara per portare Viola a Roma sarà intercettata in diretta. A marzo gli investigatori hanno il primo segnale.
Dice Forciniti a Palamara il 3 marzo: “Anche perché Roma e Perugia a seconda di chi va l’altro deve essere cioè uno di Unicost e uno di Mi….” “Oh, allora pure li va chiu… Dobbiamo iniziare a chiuderla l’operazione…”, risponde Palamara. E Forciniti: “Ma l’operazione vedi che o… tu al di là di Viola e Primicerio (Leonida, ndr) vedi qualcun altro?” “No”, risponde Palamara “ormai no.” “Se deve essere uno dei due o su Peru…” continua Forciniti “se è Viola su Perugia mettiamo chi diciamo noi. Se è Primicerio su Perugia mettiamo quello di M I.” “Eh però su Primicerio mo dimme la verità, tu ti fidi o no? va bene o no?” domanda Palamara. “Ma” risponde Forciniti “secondo me allora che è uno di immagine che ti fa fare una bella figura di immagine… non credo proprio, ma che è uno che va là e gli si può dire quello che interessa secondo me si può fare (…) cioè proprio affidabile come uno che è molto legato cioè uno dei nostri ci vedo più Viola nel senso che faccio quello che dice Cosio (fonetico) però secondo me Leonida è un uomo di mondo e se puntiamo su di lui queste cose le capisce.” E in quei giorni, sebbene indirettamente, viene intercettato lo stesso Viola.
È il 14 marzo e Palamara viene chiamato da un altro magistrato, Nicola Clivio, mentre è fisicamente in compagnia di Viola. Palamara passa il telefono a Viola, che parla con Clivio, il quale gli dice: “Ti si vede in lizza per grandi cose.” Viola ride e glissa: “Spero di vederti presto, un abbraccio.” Il telefono torna nelle mani di Palamara al quale Clivio dice: “Marcello dove lo piazzi al posto del Pigna?” “A Ciccio”, risponde Palamara, “ammazza aoh sei il numero uno.”
Il numero di magistrati intercettati con Palamara è impressionante. C’è anche l’ex l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che chiama Palamara il 23 marzo 2019. Dal brogliaccio si legge che Albamonte parla delle nuove nomine interne all’Anm: “Magistratura Indipendente mette Grasso (Pasquale, ndr) come Presidente e che più di così non si poteva fare”. Poi aggiunge: “L’unica cosa che potete fare per gestire alla grande (…) la cosa è mettere Caputo (Giuliano, della corrente Unicost, ndr). Se già c’è Grasso e voi mettete Infante (Enrico, sempre di Unicost ma ritenuto più a destra, ndr) mi sa che non ci entriamo proprio”. Il concetto sembra essere quello di evitare che Infante diventi segretario dell’Anm e c’è l’invito a preferirgli Caputo, ritenuto più vicino alla corrente di Area. E così in effetti avverrà. Ci sono poi magistrati che chiedono a Palamara di interessarsi alla loro nomina. Per esempio Francesco Mollace che, scrivono gli investigatori, aveva “proposto la propria candidatura per una carica vacante presso il Tribunale di Frosinone” e “chiedeva un intervento a Palamara affinché venisse ascoltato dal Consiglio Giudiziario verosimilmente chiamato a esprimere un parere (…) in relazione precedenti vicende penali e disciplinari”. Nessuno dei magistrati fin qui nominati, a eccezione di Palamara, è coinvolto nell’indagine.
E non lo è neanche Giuseppe Maria Berruti, commissario Consob con un lungo passato al Csm, che parla con Palamara dell’incontro avuto il giorno prima con il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede. Berruti riferisce di una chiacchierata con il ministro sull’Anm: “Mi ha spiegato che ha a che fare con un’associazione di dementi e sono totalmente d’accordo… ha detto che sono cretini divisi tra di loro che questa cosa di un anno per ciascuno (la rotazione, ndr) è stato un disastro che sono andati a finire tutti in bocca a Davigo”. Interpellato dal Fatto, Berruti ha precisato: “Mai il ministro ha espresso critiche o posizioni irrispettose nei confronti dell’associazione. Non ricordo il colloquio con Palamara, ma sicuramente il ministro mai ha utilizzato espressioni irriguardose”.

venerdì 28 giugno 2019

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. - Luca Rinaldi




Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori.

Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari.

A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”».

Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all'atto dell'incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell'incarico, cariche rappresentative di strutture comuntiarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni.

Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l'onorevole Francesca Businarolo del Movimeneto 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l'istituzione di una apposita commissione d'inchiesta.

Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse.

Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale.

A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse.

L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm.

«Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte - spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus - per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente».

Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l'anno in tre anni per un solo minore.

Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture.

Fonte: Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza.

Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. 

Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996.

Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli - dice ancora Franceschini - nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono».

Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.»

Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto.

Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia.

Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

https://www.linkiesta.it/it/article/2015/08/03/quasi-200-giudici-hanno-interessi-nelle-strutture-a-cui-affidano-i-min/26917/?fbclid=IwAR3QDxQv8QK7_Jt5JzQW-Y8WbZRlW9jE5iNE5bN2_oMi_rO9cqyRcHVc3Jw

lunedì 11 marzo 2019

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

sabato 8 ottobre 2016

Beni sequestrati alla mafia Azione disciplinare sui giudici. - Giovanni Bianconi

Silvana Saguto (Ansa)
Silvana Saguto (ANSA)


L’iniziativa del ministro Orlando per «gravi violazioni». Per Silvana Saguto 20 capi d’incolpazione per altrettante presunte violazioni accertate in parte dalla Procura di Caltanissetta, che l’ha indagata per corruzione e altri reati, e in parte dal Guardasigilli.

Venti capi d’incolpazione per altrettante presunte violazioni accertate in parte dalla Procura di Caltanissetta, che l’ha indagata per corruzione e altri reati, e in parte dall’Ispettorato del ministero della Giustizia. Un elenco di illeciti che occupa dieci pagine sottoscritte dal Guardasigilli Andrea Orlando, che ha avviato l’azione disciplinare contro la giudice Silvana Saguto, già presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, «attualmente collocata fuori ruolo a seguito di sospensione cautelare» decisa dal Consiglio superiore della magistratura. Con la comunicazione al procuratore generale della Cassazione e al Csm, il ministro riporta d’attualità la contestata gestione dei beni sottratti ai boss mafiosi scoperchiata un anno fa dall’inchiesta, ancora in corso, degli inquirenti nisseni. In attesa delle loro conclusioni, Orlando ha tratto le sue.

L’azione disciplinare non si limita alla Saguto.

L’azione disciplinare non si limita alla Saguto. Riguarda anche due giudici che lavoravano nella sua sezione, ora trasferiti in altri uffici siciliani, anch’essi inquisiti a Caltanissetta: Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte. Inoltre il ministro ha attivato la stessa procedura nei confronti dei giudici Lorenzo Nicastro e Emilio Alparone, tuttora in servizio a Palermo, per provvedimenti considerati illeciti e adottati quando lavoravano nello stesso settore.

«Leso decoro dell’istituzione giudiziaria»

La ex presidente delle Misure di prevenzione è accusata di aver leso «la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato e dell’istituzione giudiziaria» attraverso reiterati comportamenti e omissioni ritenute «gravi». Il primo riguarda il ritardo nella definizione dei decreti, alcuni attesi dalle parti per oltre mille giorni (più di tre anni) e altri non ancora depositati quando la Saguto lasciò il servizio, dopo 900 e più giorni. Al contrario, al momento di decidere una determinata amministrazione giudiziaria, la Saguto ha impiegato appena due giorni, ma con altrettante violazioni: decreto «privo di motivazione, adottato in luogo del tribunale collegiale e senza parere del pubblico ministero». Un’altra contestazione si riferisce all’assegnazione di un incarico e all’assunzione in un esercizio commerciale sequestrato, toccati al fratello e al figlio di una cancelliera legata alla Saguto «da rapporti di amicizia». Nonostante i due fossero sospettati «di un ammanco di 26.000 euro dalla cassa dello stesso esercizio ». E ancora: l’autorizzazione alla scissione di una società immobiliare da cui sarebbe scaturito il dissequestro di un terreno con «immobile bifamiliare» successivamente acquisito da due coniugi che avrebbero sopravanzato gli altri creditori, con relativo «ingiusto vantaggio patrimoniale»; il tutto deciso senza aver informato il pubblico ministero per il necessario parere.

Gli addebiti.

La lista prosegue con mancate astensioni e liquidazioni di parcelle ingiustificate o senza la preventiva verifica, insieme ad altri fatti accertati durante l’ispezione ministeriale. I magistrati indagati a Caltanissetta e sospesi o trasferiti dal Csm hanno già rivendicato davanti all’organo di autogoverno la correttezza del proprio operato, ma il ministro della Giustizia è giunto a conclusioni opposte. Con l’obiettivo di restituire credibilità al contrasto giudiziario alla mafia, che passa anche nell’aggressione ai beni dei boss. Di qui la necessità, sostenne Orlando quando scoppiò lo scandalo, «di perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati».

lunedì 14 marzo 2016

Corruzione, tangenti in cambio di sentenze tributarie favorevoli: 4 arresti. - Ersilio Mattioni

Corruzione, tangenti in cambio di sentenze tributarie favorevoli: 4 arresti

Destinatari del provvedimento di custodia in carcere, eseguito dagli uomini delle Fiamme Gialle, sono stati Luigi Vassallo già detenuto a Opera nell’ambito della stessa inchiesta, un imprenditore, i giudici Luigi Pellini (commercialista) e Gianfranco Vignoli Rinaldi (avvocato). Per entrambi la Procura ha chiesto gli arresti domiciliari.

Inchiesta sulla giustizia tributaria, un’altra mazzetta da 60mila euro e altri quattro arresti. La procura di Milano scoperchia “un vasto sistema di corruzione che coinvolge giudici tributari, professionisti e altri soggetti disposti a risolvere le proprie vertenze pagando (…) Un sistema che è stato utilizzato per azzerare complesse indagini della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate”.
Le tangenti per addomesticare le sentenze venivano recapitate “a giudici compiacenti” attraverso “pacchi natalizi con decine di biglietti da 500 euro”. Così “si sono annullati accertamenti milionari”, scrivono i pubblici ministeri titolari dell’inchiesta ‘Dredd’, Laura Pedio ed Eugenio Fusco.
Destinatari del provvedimento di custodia in carcere, eseguito questa mattina dagli uomini delle Fiamme Gialle, sono stati Luigi Vassallo (avvocato, professore universitario a Pavia e giudice d’appello della Commissione tributaria regionale della Lombardia, già detenuto a Opera nell’ambito della stessa inchiesta: per lui si tratta del terzo mandato di arresto) e l’imprenditore Matteo Invernizzi, residente a Trescore Balneario (Bergamo), amministratore di fatto della Eurocantieri Srl, società attiva nell’edilizia e sottoposta ad accertamenti fiscali, che nel 2013 avrebbe comprato due sentenze. Una dalla Commissione tributaria regionale e l’altra dalla Commissione tributaria provinciale, secondo l’accusa con il contributo determinante dei giudici Luigi Pellini (commercialista, di Milano) e Gianfranco Vignoli Rinaldi (avvocato, anche lui di Milano). Per entrambi la Procura ha chiesto gli arresti domiciliari, “in ragione della loro età, essendo ultra 70enni”. Le richieste degli inquirenti sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari, Manuela Cannavale.
Indagato a piede libero anche un ex finanziere, Agostino Terlizzi, che ha rivestito ruoli di comando nella Fiamme Gialle, lavorando presso la tenenza di Castel San Giovanni in provincia di Piacenza, dove vive. Numerosi i contatti tra l’ex Gdf (la cui abitazione è stata perquisita) e Vassallo. In una mail Terlizzi trasmette al giudice tributario alcuni documenti che riguardano la situazione dell’imprenditore Invernizzi e la Eurocantieri Srl.
La Procura mette nero su bianco le enormi difficoltà nel condurre l’indagine, che vede in Vassallo un vero dominus. Quest’ultimo “non ha inteso chiarire alcunché rispetto alle proprie condotte”, come del resto “nessuno (fra indagati e coinvolti) ha inteso fornire un contributo spontaneo, che pure ci si poteva attendere da chi esercita funzioni giurisdizionali”. Neppure Marina Seregni (commercialista 70enne di Monza, giudice tributario di primo grado, arrestata lo scorso 28 gennaio e interrogata in carcere: ha fornito elementi utili all’inchiesta. Per i pm Pedio e Fusco, attorno al nebuloso mondo della giustizia tributaria, vige “la regola del silenzio”. Una tesi già proposta da Antonio Di Pietro a metà degli anni ‘90.
Ma la svolta nelle indagini è comunque arrivata. Fondamentale la perquisizione dello studio Vassallo, dove sono stati trovati quattro telefoni cellulari (due Blackberry e due Smartphone), sei ‘chiavette’ elettroniche, tre pc portatili e cinque fissi, oltre a vari documenti (fra cui una bozza di sentenza favorevole all’imprenditore Invernizzi) e agende per gli appuntamenti. Prezioso il contributo della segretaria di Vassallo, Mirella Orbani. È stata lei, testimone oculare e parte attiva nella preparazione delle bustarelle, a fornire alcune importanti conferme e ad aiutare la Guardia di finanza a decifrare la “contabilità riservata”.
Gli inquirenti hanno ricostruito l’incontro tra Vassallo e Invernizzi, quando l’imprenditore consegnò al giudice tributario la somma di 60mila euro in contanti: “Ricordo – riferisce Orbani – che Matteo Invernizzi (il giorno 11 dicembre 2013) è venuto in studio da noi (…) con una busta contenente 60 mila euro in contanti e la consegnò a Vassallo. Quando siamo rimasti soli, io e Vassallo, quest’ultimo ha aperto la busta in mia presenza e ha contato il denaro. Ricordo che erano tutte banconote da 500 euro”.
La tangente sarebbe poi stata suddivisa. Lo testimonierebbero alcuni appunti sulla agende e sulle buste, puntualmente interpretati dalla segretaria Orbani. Il 18 dicembre 2013 si legge: “-5 (Agostino) = 55”. Secondo i pm Pedio e Fusco, questo “lascia intendere che Vassallo abbia effettuato un prelievo di 5 mila euro da destinare verosimilmente a Terlizzi (ex Gdf, ndr)”. Due giorni dopo, il 20 dicembre, un altro prelievo dalla busta, sempre di 5 mila euro. Ricostruisce Orbani: “Vassallo aveva pronto un cesto natalizio da consegnare al dottor Luigi Pellini (giudice tributario, ndr). Mi disse che sarebbe andato all’appuntamento per consegnare la busta coi contanti e il cesto”. Il 23 dicembre, infine, è il turno del giudice Vignoli Rinaldi: altri 5 mila euro. “Come per Pellini – chiarisce la Orbani – (Vassallo) portò un cesto di Natale”.
I rimanenti 45mila euro vengono depositati in una cassetta di sicurezza presso la Banca Unicredit di piazza San Babila a Milano, dove infatti il denaro viene trovato dalla Guardia di finanza. Assieme a un’altra busta con dentro 1.400 euro. Anche questo contante proviene, secondo i pm, dall’imprenditore Invernizzi, il quale si sarebbe accordato con Vassallo per la consegna (avvenuta solo parzialmente) di ulteriori 5 mila euro in caso di sentenze favorevoli. Circostanze che si sono in effetti verificate, in un caso con qualche difficoltà. Lo scrive lo stesso giudice Vignoli Rinaldi in una mail indirizzata a Vassallo: “Ho dovuto lottare, o meglio tenere a bada (…) la testardaggine del giudice relatore (Rag. Antonio Rigoldi). Quest’ultimo sosteneva – a ragione – che nel ricorso (della Eurocantieri Srl, ndr) era stata chiesta solo la sospensione della cartella e non il suo annullamento”. Ma alla fine, chiosa il giudice soddisfatto, “ho convinto presidente e relatore ad accogliere il ricorso, anche nel merito”.

sabato 24 ottobre 2015

Il piede sull'Anm - Liliana Milella

Anm: "Contro di noi strategia di delegittimazione". Tensione fra politica e magistratura
Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli

La politica contro i giudici. 
Li vorrebbero muti, ciechi, sordi. 
Elettroencefalogramma piatto. 
Nessuna reazione. 
Nessuna disobbedienza. 
Solo e sempre "sissignore". 
Bari, Anm a congresso. 
Il presidente Sabelli, magistrato moderato di Unicost, anche caratterialmente un uomo misurato e attento agli equilibri istituzionali, ripete quello che ha sempre detto, critiche tecniche alle misure del governo (vedi corruzione, intercettazioni, prescrizione...). Aggiunge che mal vede certa "strategia dì delegittimazione" che proviene, per esempio, da chi, come Cantone, parla male delle correnti e della stessa Anm. La politica non aspettava altro. Attacca Sabelli come se avesse di fronte un giudice rosso rivoluzionario e guerrafondaio. Il Guardasigilli è velenoso e vede nelle parole di Sabelli un modo per coprire le divisioni interne dell'Anm. Il ministro dell'Interno Alfano, immemore degli scandali che hanno pesantemente coinvolto molta gente del suo partito, consiglia all'Anm di guardare in casa propria, allo scandalo della Saguto a Palermo. S'arrabbia pure il Pd renziano David Ermini, vede "critiche ingenerose". La triste impressione è che una politica arrogante voglia solo toghe prone e pronte a dire "evviva" a qualsiasi riforma, fatte anche in modo provocatorio, come fu per il taglio delle ferie.

http://milella.blogautore.repubblica.it/2015/10/24/il-piede-sullanm/

sabato 25 gennaio 2014

Anno giudiziario: Canzio, per toghe infamante gogna.



'Sempre 'risposte con imparzialità'. Pandolfi: 'giudici non molleranno impegno'

 "Agli attacchi personali, al dileggio strumentale, talora alla infamante gogna mediatica e alle minacce cui sono stati sottoposti", i giudici "hanno saputo rispondere" usando "le armi" della "imparzialità". Lo si legge nella relazione del presidente della Corte d'Appello di Milano Giovanni Canzio, per l'inaugurazione dell'anno giudiziario.
Nella relazione che verrà letta a breve, Canzio ha voluto dedicare alcuni passaggi ai giudici milanesi che sono "stati oggetto di sommarie e ingiuste accuse di parzialità e di mancata serenità di giudizio, solo perché funzionalmente investiti della definizione di taluni procedimenti a forte sovraesposizione mediatica, per lo spiccato rilievo politico e sociale che li caratterizzava".
A questi giudici il presidente ha rivolto parole "di apprezzamento e di gratitudine per il profondo senso del dovere e di appartenenza all'istituzione dimostrato" e perché "alle immotivate censure, agli attacchi personali, al dileggio strumentale, talora la infamante gogna mediatica e alle minacce cui sono stati sottoposti (...) hanno saputo rispondere con sobrietà, umiltà e riservatezza, adoperando le armi della giurisdizione e continuando a giudicare con imparzialità al solo servizio della giustizia e dello Stato". L'anno scorso a Milano tra i vari processi che sono stati celebrati si ricordano quello sul caso Ruby e quello per la vicenda Mediaset.