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venerdì 30 giugno 2023

Tentativi di negoziato: Kiev li rifiuta, la stampa li censura. - Giuseppe Salamone

 

Se la situazione fosse a parti invertite, avremmo stampa, politica e intellettuali da strapazzo indignati a reti unificate. Invece vige un silenzio tombale e la "censura democratica" occidentale continua a fare egregiamente il proprio lavoro.

C'è il cardinale Zuppi che per conto del Papa continua a fare la spola tra Kiev e Mosca. L'intento è quello di portare avanti una mediazione con lo scopo di una risoluzione diplomatica al conflitto. È un evento molto importante perché il Vaticano, non essendosi schierato, potrebbe seriamente avvicinare le due parti per raggiungere un risultato che converrebbe a tutti. La pace!

Evidentemente qualcuno da dietro le quinte continua a lavorare per sabotare ogni iniziativa che non preveda armi, esattamente come fatto per gli accordi di Istanbul stracciati senza pudore da Zelensky su ordini dei "buoni e democratici occidentali". A parte che queste visite da parte di Zuppi non ricevono la giusta attenzione e diffusione da parte della stampa, infatti sono relegate a eventi di second'ordine e nel peggiore dei casi sottoposte a censure, c'è anche da dire che le dichiarazioni delle parti in causa sono nette e non lasciano spazio a interpretazioni.

Andriy Yermak, capo ufficio presidenziale Ucraino è netto, lo dice senza giri di parole e senza un minimo di vergogna: "Non abbiamo bisogno di mediazioni". Questo succede perché si sentono forti del sostegno occidentale e quindi si arrogano il diritto di portare per le lunghe una guerra che sta sventrando l'Ucraina sia in termini materiali, economici che umani. Per loro evidentemente l'importante è che arrivino miliardi, alla fine al fronte ci mandano la carne da cannone, mica ci vanno loro. Dall'altra parte invece, Peskov che è il portavoce del Cremlino, si pronuncia dicendo che la Russia esprime "alto apprezzamento per le iniziative del Papa per la soluzione del conflitto".

Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro anche perché dovrebbe essere assai evidente chi apre al corso diplomatico e chi, nettamente, sbatte la porta. Poi ci vengono a dire che quelli che sbattono la porta vogliono la pace, mentre chi la porta la apre è a prescindere un brutto e cattivo che fa di tutto per non avviare dei seri negoziati. La situazione è abbastanza evidente; chi si ostina a voltarsi dall'altra parte e non vuole capirla o è in malafede, oppure ha veramente bisogno di un bravo medico. Che non sia Atlantista complusivo però...

T.me/GiuseppeSalamone 

www.osservatoriosullalegalita.org

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martedì 16 maggio 2023

Irritazione della Santa Sede dopo il no di Zelensky alla mediazione del Papa per la pace. Francesco: “Con le armi si continuerà a distruggere ogni speranza” - Francesco Antonio Grana

 

“Con le armi non si otterrà mai la sicurezza e la stabilità, ma al contrario si continuerà a distruggere anche ogni speranza di pace”. Il giorno dopo l’udienza in Vaticano con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, è arrivato il duro monito di Papa Francesco che, al Regina Caeli recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro, è tornato a condannare il ricorso alle armi. Parole molto eloquenti che confermano la volontà di Bergoglio di continuare sulla sua strada anche per quanto riguarda la guerra in Ucraina, nonostante la netta chiusura di Zelensky a ogni possibile mediazione, non solo vaticana, con la Russia. In particolare, due affermazioni del presidente hanno, almeno per il momento, vanificato l’offerta di mediazione che il Papa gli ha rinnovato anche nell’udienza di ieri: “Non si può fare una mediazione con Putin, nessun Paese al mondo lo può fare” e “per me è stato un onore incontrare Sua Santità, però lui conosce la mia posizione, la guerra è in Ucraina e il piano deve essere ucraino. Siamo molto interessati a coinvolgere il Vaticano nella nostra formula per la pace”. In che cosa consiste il “piano di pace” presentato da Zelensky? Si tratta di 10 punti in cui si chiede il ritiro delle truppe russe, il ripristino dei confini, la firma russa di un trattato per l’integrità territoriale di Kiev e un accordo con i paesi Occidentali affinché forniscano strumenti di difesa all’Ucraina. In pratica, non una mediazione, ma una serie di condizioni che portino alla vittoria.

Parole che non potevano non irritare la diplomazia della Santa Sede. Non a caso all’incontro con Zelensky si è notata l’assenza del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, a Fatima per presiedere le celebrazioni del giorno in cui la Chiesa ricorda la prima apparizione della Madonna, nel 1917, ai tre pastorelli. È evidente a tutti che sarebbe potuto rientrare in anticipo e partecipare all’udienza dei vertici della Segreteria di Stato con il presidente ucraino, immediatamente successiva a quella con Francesco. Udienza nella quale Parolin è stato sostituito dall’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. Uno scenario che conferma la solitudine di Bergoglio nel tentativo, tutt’altro che scontato, di arrivare a una mediazione che ha come primo obiettivo il cessate il fuoco, oltre ovviamente allo scambio dei prigionieri e al rientro a casa dei bambini portati con la forza in Russia. Trattative, queste ultime due, chieste esplicitamente dall’Ucraina al Papa.

“In questi giorni – ha affermato Francesco al Regina Caeli – abbiamo assistito di nuovo a scontri armati tra israeliani e palestinesi, nei quali hanno perso la vita persone innocenti, anche donne e bambini. Auspico che la tregua appena raggiunta diventi stabile, che le armi tacciano, perché con le armi non si otterrà mai la sicurezza e la stabilità, ma al contrario si continuerà a distruggere anche ogni speranza di pace”. Con l’immancabile preghiera per la fine dei conflitti: “A lei (Maria, ndr) ci rivolgiamo chiedendo di alleviare le sofferenze della martoriata Ucraina e di tutte le nazioni ferite da guerre e violenze”. Nella meditazione sul Vangelo domenicale, il Papa ha ricordato che lo Spirito Santo “non ci lascia soli mai, sta vicino a noi, come un avvocato che assiste l’imputato stando al suo fianco. E ci suggerisce come difenderci di fronte a chi ci accusa. Ricordiamo che il grande accusatore è sempre il diavolo, che ti mette dentro i peccati, la voglia di peccato, la malvagità. Riflettiamo su questi due aspetti: la sua vicinanza a noi e il suo aiuto contro chi ci accusa”.

Francesco ha aggiunto: “Lo Spirito Santo vuole stare con noi: non è un ospite di passaggio che viene a farci una visita di cortesia. È un compagno di vita, una presenza stabile, è Spirito e desidera dimorare nel nostro spirito. È paziente e sta con noi anche quando cadiamo. Rimane perché ci ama davvero: non fa finta di volerci bene per poi lasciarci soli nelle difficoltà. No, è leale, è trasparente, è autentico. Anzi, se ci troviamo nella prova, lo Spirito Santo ci consola, portandoci il perdono e la forza di Dio. E quando ci mette di fronte ai nostri sbagli e ci corregge, lo fa con gentilezza: nella sua voce che parla al cuore ci sono sempre il timbro della tenerezza e il calore dell’amore”. Quindi, ha concluso il Papa, “se invochiamo lo Spirito, impariamo ad accogliere e ricordare la realtà più importante della vita, che ci protegge dalle accuse del male”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/14/irritazione-della-santa-sede-dopo-il-no-di-zelensky-alla-mediazione/7160933/.

venerdì 7 maggio 2021

Bertolaso e Albertini mollano Salvini e lui se la prende con FdI: “Troppi no”. - Lorenzo Giarelli

 

Leghista suonato - Matteo scaricato dai suoi candidati a Roma e a Milano: destra spaccata.

La campagna elettorale deve ancora iniziare, ma per Matteo Salvini le Amministrative di ottobre sono già un grosso problema. In barba al solito ottimismo sbandierato a favor di telecamera, il leghista ha impiegato sei mesi per trovare i candidati per Roma e Milano, li ha strombazzati come cavalli vincenti e poi è finito per essere sbugiardato da entrambi.

È successo con Guido Bertolaso per la Capitale ed è successo ieri a Milano con Gabriele Albertini, il cui no alla corsa per sfidare Beppe Sala ha aperto l’ennesima frattura pubblica nel centrodestra. Con tanto di smacco personale a Matteo, che ora se la prende con gli alleati per aver “fatto perdere la pazienza” ai suoi candidati, provocandone la fuga.

Ufficialmente, Albertini decide di farsi da parte per motivi familiari. Scrive una lettera a Libero ringraziando per i tanti messaggi di sostegno, assicura che stava “per cedere e dire sì” ma che poi si è fermato: “Non potevo infliggere un disagio a mia moglie. Preferisco sperare di trascorrere con la mia famiglia, finché ci sarà salute, l’ultimo ottavo di vita media”. E nell’uscire dal pressing, Albertini butta lì pure che se avesse vinto avrebbe chiesto a Sala “di entrare in giunta come vicesindaco”, gesto di rispetto per l’avversario ma anche ecumenico segnale per una Milano pronta “alla primavera” dopo “l’inverno della pandemia”.

Tante belle parole di cui Salvini non sa però che farsene, visto che pochi giorni fa anche Bertolaso si è sfilato da Roma lasciandolo col cerino in mano: “Ringrazio chi mi vuole sindaco nella Capitale – la versione del factotum dell’emergenza lombarda – ma cerchino qualcun altro”. E allora il leader leghista – che peraltro aveva scelto due nomi fuori dal suo partito – fiuta la disfatta e si agita, tirando in mezzo Fratelli d’Italia e Forza Italia: “Sono mesi che cerco di costruire e unire il centrodestra in vista delle amministrative. A Roma e Milano avevamo i candidati giusti, ma altri hanno detto no per settimane e mesi e loro hanno perso la pazienza”.

In effetti i passi indietro di Albertini e Bertolaso sono attribuibili solo in parte a ragioni personali, ma molto più alle crepe interne alla coalizione. Il problema è che FdI, a sua volta, scarica le responsabilità su Salvini, che da tempo rimanda il famoso “tavolo” del centrodestra in cui dovrebbero essere definite tutte le principali candidature alle Amministrative, per paura che la trattativa coinvolga vicende molto più nazionali (su tutte: la presidenza del Copasir contesa proprio da Lega e Fratelli d’Italia).

Ed è questo che Daniela Santanchè, riferimento milanese del partito di Giorgia Meloni, rinfaccia al leghista: “Il fatto che Salvini non abbia ancora convocato il tavolo del centrodestra ha determinato la decisione di Albertini. Quando non si hanno risposte e si vive senza sapere poi succede che un candidato si ritiri”.

Non basta allora il nome di Maurizio Lupi, indicato ora come il favorito per sfidare Sala, a calmare i malumori della destra. La lacerazione è molto più profonda e rischia non solo di ritardare la scelta dei candidati su Milano e Roma, ma persino di compromettere l’intesa altrove. A Napoli, per esempio, Giorgia Meloni potrebbe andare da sola sostenendo l’avvocato Sergio Rastelli (figlio di Antonio, ex governatore della Campania dal 1995 al 1999) e lasciando gli alleati al loro destino con Catello Maresca, sperando poi di arrivare al ballottaggio da una posizione di forza.

Uno sgarbo non da poco che potrebbe replicarsi in altre città dove l’accordo è ancora in alto mare, come Salerno o Bologna. Non c’è da stupirsi allora che di questo quadro fracassato, a taccuini chiusi, un big del centrodestra dia una sintesi simile a un epitaffio: “Non esiste più una coalizione”. Figurarsi se possono esistere i candidati.

ILFQ

giovedì 22 ottobre 2020

La guerra dei manager allo smart working. - Domenico De Masi

 

Tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020, senza nessuna preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio e cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo a tre miliardi di colletti bianchi.

In tutta la storia delle scienze organizzative, l’unica rivoluzione paragonabile a questa è avvenuta in America all’inizio del Novecento ma, per estendersi da Detroit e da Filadelfia su tutto il pianeta, ha impiegato parecchi decenni. Quella rivoluzione riguardava i colletti blu; questa riguarda i colletti bianchi. In entrambi i casi, l’innovazione non è salita dal basso, ma è calata dall’alto ed è stata opera di ingegneri, non di sociologi o di politici: allora si trattò di ingegneri metalmeccanici; questa volta si è trattato di ingegneri elettronici.

Il grande esperimento ci ha improvvisamente esibito gli stati d’animo, il livello di professionalità, il grado di predisposizione al cambiamento degli impiegati, dei manager, delle aziende, dei sindacati, degli studiosi, degli intellettuali.

Prima che iniziasse, il mondo del lavoro italiano aveva già metabolizzato, quasi senza accorgersene, alcune certezze. Una di queste era che ormai negli uffici si lavorava sempre meno con persone vicine di scrivania, e sempre più con interlocutori che potevano essere fisicamente ovunque. Tra gli impiegati, senza che nessuno lo avesse deciso, vigeva la cosiddetta “regola dei 15 metri” per cui, se una persona lavorava a una certa distanza dal collega, finiva per comunicare con lui tramite email. piuttosto che a voce. A questo punto non vi era nessuna differenza tra lavorare entrambi in ufficio o lontano, magari ai punti opposti del pianeta.

Un’altra certezza era che, per la diffusione dello smart working, si trattava solo di una questione di tempo. Chi è nato nello stesso anno di Facebook, cioè nel 2004, fra dieci anni ne avrà 26; chi è nato con Instagram, cioè nel 2010, ne avrà 20. In altri termini, fra dieci anni tutti gli italiani in età lavorativa saranno digitali e, salvo in caso di mansioni non lavorabili a distanza, nessuno accetterà di lavorare per un’azienda che non gli assicura lo smart working.

Un’altra certezza evidente a tutti, consisteva nella constatazione che già prima del lockdown quasi tutti i colletti bianchi ormai lo praticavano a livello informale nei treni, nelle stazioni, nei bar, nei ristoranti, anche se l’azienda non lo riconosceva a livello contrattuale.

Se è vero che alla vigilia del lockdown vi erano 570.000 lavoratori in remoto e pochi giorni dopo ve ne erano tra i 6 e gli 8 milioni, se è vero che con il lavoro agile la produttività aumenta del 15-20%, se è vero che nulla impediva di introdurre lo smart working già da anni, in modo pianificato, come mai non è stato fatto? Perché la produttività delle aziende è stata così lungamente e intenzionalmente depressa? Chi porta la responsabilità di tutto questo? La struttura aziendale ha una forma piramidale che attribuisce potere, responsabilità e gratificazioni ai capi. Supponendo che nelle organizzazioni vi sia mediamente un capo ogni dieci dipendenti, ciò significa che, dietro 6-8 milioni di smart workers vi sono almeno 600-800mila capi diretti e migliaia di capi del personale. Questi, impedendo l’adozione del lavoro agile, hanno causato alle loro aziende e alle loro pubbliche amministrazioni – per mancanza di professionalità o di coraggio o di onestà intellettuale – un danno incalcolabile. Mettiamoci nell’ottica di uno studioso di organizzazioni come J. C. Flanagan e applichiamo la sua Critical incident technique al lockdown considerandolo appunto come un incidente critico rivelatore di pericolose disfunzioni. Del resto la parola greca “apocalisse” non significa soltanto distruzione, ma anche “rivelazione di cose nascoste”. Ebbene, il Coronavirus ci ha rivelato che questa inadempienza dei capi – soprattutto dei capi del personale – per cui hanno ignorato un’innovazione organizzativa di accertato vantaggio per l’azienda, per i lavoratori e per la società, rinvia a una sub-cultura che va messa a nudo e combattuta perché dannosa e contagiosa non meno del virus rivelatore.

Ma in che cosa consiste? Ripeto qui ciò che ho già scritto più volte: consiste nel primato onnivoro dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni fino alla sistematica identificazione con i vertici e all’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita e della professione; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come negazione del piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili come la parità di genere; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.

Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale agli albori. Qui, l’impresa resta una istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipende quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni. Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.

Per evitare il collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, o non potranno mai diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resterà un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/22/la-guerra-dei-manager-allo-smart-working/5975241/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-22

Purtroppo, la guerra dei manager al lavoro a distanza ha una sua logica, anche se alquanto discutibile.
Un manager si sente manager non solo perchè gli viene affidato un incarico di responsabilità, ma perchè quello stesso incarico lo rende possessore di un potere che esercita come meglio crede: favorendo qualche raccomandato per avanzare di ruolo; mortificando i suoi sottoposti per gratificare il suo ego; esercitando la sua posizione di capo per molestare sessualmente le collaboratrici promettendo possibili ed eventuali vantaggi... e via discorrendo.
E' il potere ciò che vuole la maggior parte della gente, per cui accetta ogni incarico di responsabilità, dimenticando, una volta ottenuto il piccolo potere, la responsabilità affidatagli, e mettendo in atto ciò che il potere gli permette... anche irresponsabilmente.
Un manager è manager quando può esercitare il potere.
E poi, come far fare carriera ai raccomandati, se con il lavoro a distanza emergesse la meritocrazia?
Cetta.


lunedì 5 ottobre 2015

INDIGENI RIFIUTANO UN MILIARDO DI DOLLARI DAL GIGANTE PETROLIFERO PER UN NUOVO GASDOTTO IN CANADA. - Francesca Mancuso

gasdottoindigeni

Una storia da leggere con calma, staccandosi per un momento dagli impegni del quotidiano. Una testimonianza di amore incondizionato e di attaccamento per Madre Terra. Voliamo virtualmente al confine tra Canada e Alaska, dove vivono gli indigeni Lax Kw’alaams: nelle loro terre verrà costruito l'impianto per la produzione di gas naturale liquefatto Pacific Northwest. È stato offerto loro un mega risarcimento di un miliardo di dollari da parte della società petrolifera Petronas, ma i Lax Kw’alaams hanno rifiutato.
L'offerta comprendeva esattamente un miliardo cash in 40 anni e altri 108 milioni in terre, pari a 320mila dollari per ogni indigeno. Un NO che suona ancora più forte se si pensa che è il simbolo della Natura contro i veleni umani, dell'amore per la terra contro quello delle multinazionali per il denaro.
Bastano le parole del grande capo Stewart Phillip a far capire come il denaro sia nulla se rapportato al valore degli ecosistemi naturali, di cui gli indigeni si porgono a tutela:
I nostri anziani ci ricordano che il denaro è come la polvere che viene soffiata via velocemente dal vento, mentre la terra è per sempre” ha detto al quotidiano canadese The Globe and Mail.
Facciamo un passo indietro e ripercorriamo la storia che si snoda attorno al progetto del gruppo Pacific Northwest Lng (Pnw Lng), un piano che prevede un investimento da 11,4 miliardi di dollari per la realizzazione di una struttura dedicata alla trasformazione del gas naturale in gas naturale liquido e poi al trasporto in Asia via mare lungo un gasdotto di 950 chilometri. Non è un errore: quasi 1000 km.
La struttura partirebbe dall'isola Lelu e dal Flora Bank, un banco di sabbia che la marea a volta nasconde sull'estuario del fiume Skeena. E qui si aggancia la vicenda dei Lax Kw’alaams che rivendicano queste aree come indigene. Il fiume Skeena è l'antichissima casa di questa comunità formata da 3.600 persone, che hanno accesso esclusivo alle risorse naturali.
firstnation
Spiegano gli indigeni che il significato della foce del fiume Skeena non può essere sottovalutato e che i Kw'alaams Lax sono vincolati dalla legge tradizionale che coinvolge anche le altre comunità a proteggere le risorse naturali per le generazioni future.
In base alla legge canadese, Petronas, proprietario di maggioranza del gruppo Pacific Northwest Lng, doveva avviare le consultazioni con la comunità indigena. Così ha fatto. Ma i Lax Kw’alaams hanno rifiutato all'unanimità l'enorme risarcimento offerto, rivendicando il diritto sancito dall’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite. E in un comunicato spiegano:
“ Speriamo che il pubblico riconosca il consenso unanime della comunità (dove l'unanimità è l'eccezione) nei confronti di un progetto in cui alla comunità stessa è fatta un'offerta al di sopra di un miliardo di dollari. Non è un problema di soldi ma una questione ambientale e culturale”.
Per il progetto, gli indigeni saranno esclusi dall’isola Lelu, da cui ricavano tradizionalmente piante e medicine tradizionali. Non si tratta solo di diritti delle popolazioni indigene ma di un'intera comunità che non vuole sacrificare i propri luoghi per gli interessi delle multinazionali. La consultazione per il progetto è stata rivolta a cinque gruppi indigeni ma solo i Lax Kw’alaams hanno rifiutato ogni compromesso pur essendosi detti aperti al dialogo e al confronto.
Peccato però che intanto il governo provinciale abbia rinnovato il proprio impegno nel progetto, firmando un accordo con Pacific Northwest Lng per uno dei 19 progetti nella Columbia Britannica. L'ultima parola spetta ora alla Canadian Environmental Assessment Agency, che si pronuncerà in autunno.