giovedì 22 ottobre 2020

La guerra dei manager allo smart working. - Domenico De Masi

 

Tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020, senza nessuna preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio e cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo a tre miliardi di colletti bianchi.

In tutta la storia delle scienze organizzative, l’unica rivoluzione paragonabile a questa è avvenuta in America all’inizio del Novecento ma, per estendersi da Detroit e da Filadelfia su tutto il pianeta, ha impiegato parecchi decenni. Quella rivoluzione riguardava i colletti blu; questa riguarda i colletti bianchi. In entrambi i casi, l’innovazione non è salita dal basso, ma è calata dall’alto ed è stata opera di ingegneri, non di sociologi o di politici: allora si trattò di ingegneri metalmeccanici; questa volta si è trattato di ingegneri elettronici.

Il grande esperimento ci ha improvvisamente esibito gli stati d’animo, il livello di professionalità, il grado di predisposizione al cambiamento degli impiegati, dei manager, delle aziende, dei sindacati, degli studiosi, degli intellettuali.

Prima che iniziasse, il mondo del lavoro italiano aveva già metabolizzato, quasi senza accorgersene, alcune certezze. Una di queste era che ormai negli uffici si lavorava sempre meno con persone vicine di scrivania, e sempre più con interlocutori che potevano essere fisicamente ovunque. Tra gli impiegati, senza che nessuno lo avesse deciso, vigeva la cosiddetta “regola dei 15 metri” per cui, se una persona lavorava a una certa distanza dal collega, finiva per comunicare con lui tramite email. piuttosto che a voce. A questo punto non vi era nessuna differenza tra lavorare entrambi in ufficio o lontano, magari ai punti opposti del pianeta.

Un’altra certezza era che, per la diffusione dello smart working, si trattava solo di una questione di tempo. Chi è nato nello stesso anno di Facebook, cioè nel 2004, fra dieci anni ne avrà 26; chi è nato con Instagram, cioè nel 2010, ne avrà 20. In altri termini, fra dieci anni tutti gli italiani in età lavorativa saranno digitali e, salvo in caso di mansioni non lavorabili a distanza, nessuno accetterà di lavorare per un’azienda che non gli assicura lo smart working.

Un’altra certezza evidente a tutti, consisteva nella constatazione che già prima del lockdown quasi tutti i colletti bianchi ormai lo praticavano a livello informale nei treni, nelle stazioni, nei bar, nei ristoranti, anche se l’azienda non lo riconosceva a livello contrattuale.

Se è vero che alla vigilia del lockdown vi erano 570.000 lavoratori in remoto e pochi giorni dopo ve ne erano tra i 6 e gli 8 milioni, se è vero che con il lavoro agile la produttività aumenta del 15-20%, se è vero che nulla impediva di introdurre lo smart working già da anni, in modo pianificato, come mai non è stato fatto? Perché la produttività delle aziende è stata così lungamente e intenzionalmente depressa? Chi porta la responsabilità di tutto questo? La struttura aziendale ha una forma piramidale che attribuisce potere, responsabilità e gratificazioni ai capi. Supponendo che nelle organizzazioni vi sia mediamente un capo ogni dieci dipendenti, ciò significa che, dietro 6-8 milioni di smart workers vi sono almeno 600-800mila capi diretti e migliaia di capi del personale. Questi, impedendo l’adozione del lavoro agile, hanno causato alle loro aziende e alle loro pubbliche amministrazioni – per mancanza di professionalità o di coraggio o di onestà intellettuale – un danno incalcolabile. Mettiamoci nell’ottica di uno studioso di organizzazioni come J. C. Flanagan e applichiamo la sua Critical incident technique al lockdown considerandolo appunto come un incidente critico rivelatore di pericolose disfunzioni. Del resto la parola greca “apocalisse” non significa soltanto distruzione, ma anche “rivelazione di cose nascoste”. Ebbene, il Coronavirus ci ha rivelato che questa inadempienza dei capi – soprattutto dei capi del personale – per cui hanno ignorato un’innovazione organizzativa di accertato vantaggio per l’azienda, per i lavoratori e per la società, rinvia a una sub-cultura che va messa a nudo e combattuta perché dannosa e contagiosa non meno del virus rivelatore.

Ma in che cosa consiste? Ripeto qui ciò che ho già scritto più volte: consiste nel primato onnivoro dell’economia, del profitto e degli affari; in un’assunzione del successo economico e dei consumi come misure dell’autorealizzazione personale; nella precedenza accordata alla dimensione pratica su quella estetica, alla dimensione razionale su quella emotiva, alla dimensione aziendale su quella soggettiva; nella propensione ad anteporre la concorrenza all’alleanza, la competitività alla solidarietà; nella preferenza per tutto ciò che è quantitativo, pianificato, specializzato, sotto controllo; nell’adesione alla struttura gerarchica, piramidale delle organizzazioni fino alla sistematica identificazione con i vertici e all’accettazione acritica degli ordini che vengono dall’alto; nell’idolatria dell’efficienza intesa come quantità e velocità; nella visione maschilista e aggressiva della vita e della professione; in una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; in una dichiarazione di intenti incline all’innovazione purché non modifichi gli assetti del potere costituito; in un modernismo tecnologico accoppiato al tradizionalismo culturale; in una marcata propensione verso il dovere inteso come negazione del piacere; nella presunzione di reputarsi artefici esclusivi del progresso e del benessere di una nazione; nella difficoltà di recepire le conquiste civili come la parità di genere; nella tendenza a sottovalutare e semplificare le dinamiche sociali, rifiutare istintivamente ogni visione di ampio respiro; nella considerazione delle norme e dei sindacati come intralci da cui affrancarsi.

Eppure oggi i manager hanno davanti a sé l’orizzonte sconfinato ed esaltante della società postindustriale agli albori. Qui, l’impresa resta una istituzione fondamentale, anche se non più egemone. Da essa e da chi la dirige dipende quasi tutta la ricchezza e buona parte della democrazia destinate alle nuove generazioni. Se i manager tradiranno la missione civile che deriva dal loro potere, insistendo nella loro cultura e imponendola ai loro collaboratori, il prezzo che pagheranno sarà altissimo perché i loro ritmi, le loro preoccupazioni, le loro visioni, si ridurranno a ritmi, preoccupazioni, visioni di un sistema insensato.

Per evitare il collasso, i manager debbono intraprendere una laboriosa palingenesi, o non potranno mai diventare un ceto e una forza sociale che, promuovendo la propria libertà, potrà promuovere la libertà di tutti. Resterà un ceto e una forza non liberatrice, ma da liberare.

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Purtroppo, la guerra dei manager al lavoro a distanza ha una sua logica, anche se alquanto discutibile.
Un manager si sente manager non solo perchè gli viene affidato un incarico di responsabilità, ma perchè quello stesso incarico lo rende possessore di un potere che esercita come meglio crede: favorendo qualche raccomandato per avanzare di ruolo; mortificando i suoi sottoposti per gratificare il suo ego; esercitando la sua posizione di capo per molestare sessualmente le collaboratrici promettendo possibili ed eventuali vantaggi... e via discorrendo.
E' il potere ciò che vuole la maggior parte della gente, per cui accetta ogni incarico di responsabilità, dimenticando, una volta ottenuto il piccolo potere, la responsabilità affidatagli, e mettendo in atto ciò che il potere gli permette... anche irresponsabilmente.
Un manager è manager quando può esercitare il potere.
E poi, come far fare carriera ai raccomandati, se con il lavoro a distanza emergesse la meritocrazia?
Cetta.


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