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lunedì 24 gennaio 2022

Alla Leopolda Renzi candida Faraone sindaco di Palermo. La mossa per lanciare l’asse con Forza Italia in Sicilia. - Manuele Modica

 

21 NOVEMBRE 2021

"Questa candidatura non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica. Noi stiamo con Davide, non con Micciché. Poi Micciché faccia lui", ha detto l'ex premier chiudendo la kermesse di Firenze. Nonostante non ci sia ancora ufficialmente l’appoggio di Forza Italia, l’annuncio di fatto si muove, secondo i ben informati, sul solco di un rafforzamento del patto coi berlusconiani.

Davide Faraone candidato sindaco a Palermo: è questa la mossa di Matteo Renzi per rinsaldare il patto con Forza Italia. A lanciare la corsa verso lo scranno più alto della quinta città d’Italia che andrà ad elezioni la prossima primavera è l’ex premier in persona nel discorso di chiusura dell’undicesima edizione della Leopolda. “Caro Davide, Palermo ha bisogno di te, noi siamo convinti che la tua candidatura a sindaco di Palermo non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica, ma sarà una candidatura che parla alla città di Palermo”, ha detto Renzi, mettendo subito le mani avanti. “A Palermo non stiamo con Miccichè, stiamo con Davide Faraone che è una cosa diversa; poi Micciché faccia lui, Provenzano faccia lui, ma noi a Palermo ci candidiamo per guidare una città che negli ultimi anni non è riuscita neanche a seppellire i propri morti”.

Insomma: non è un caso se l’alleanza tra renziani e berlusconiani parta da Palermo. D’altronde alla conferenza stampa di presentazione del neonato gruppo in Sicilia, il percorso tracciato nell’accordo era già chiaro: “Oggi inizia il laboratorio Sicilia, un accordo che porterà Forza Italia e Sicilia Futura-Italia Viva a un grande risultato alle prossime elezioni, amministrative e regionali” aveva detto il capogruppo di Fi all’Ars, Tommaso Calderone. Così, mentre gli altri leader nazionali lanciano scadenze in cui si annuncerà il candidato sindaco di Palermo (Matteo Salvini ha detto entro Natale), l’ex premier lancia il suo luotenente, capogruppo d’Italia viva al Senato. Già nel 2012 Faraone si era candidato alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco di Palermo, ma era arrivato terzo dietro Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino. Ora sembra volerci tentare di nuovo. La sua candidatura arriva presto, forse troppo presto: tanto che i ben informati in Sicilia sono pronti a sostenere si tratti di un annuncio strategico, finalizzato a spianare la strada a un altro candidato gradito a Forza Italia: si parla di Francesco Cascio, già presidente dell’Ars.

Di sicuro sono aperti i giochi elettorali sul grande laboratorio politico che la Sicilia si appresta a diventare, per l’ennesima volta, in vista delle Politiche del 2023. Le amministrative ad aprile 2020 nel capoluogo e le Regionali l’autunno successivo sono il terreno sul quale gli schieramenti stanno preparando la corsa alle prossime elezioni. Ad aprire le danze degli annuncia è stato Nello Musumeci, un attimo prima di Renzi. Sabato sera il presidente della Regione in carica ha annunciato la sua ricandidatura sul palco della kermesse del suo movimento politico, Diventerà Bellissima, alle Ciminiere di Catania: “Stasera abbiamo sciolto l’incantesimo, il presidente della regione sta lavorando a preparare le liste delle prossime regionali, vorrò vincere per me e per i partiti della mia coalizione”. Partiti che erano però i grandi assenti alla convention del presidente, i vertici – “tutti invitati”, ha sottolineato la consigliera regionale Giusi Savarino – non erano presenti nella folta platea catanese. La stessa Giorgia Meloni, il giorno prima a Palermo per la presentazione del suo libro, aveva mostrato una certa freddezza nei confronti del presidente: “Non intendo su questo fare fughe in avanti – ha detto venerdì Meloni -. Penso che la coalizione si debba muovere compatta e non voglio dare, in un momento nel quale invece ho come priorità di dimostrare la compattezza del centrodestra, alibi per eventuali discussioni ed eventuali divisioni”.

Come Renzi, anche Musumeci, pare dunque abbia voluto giocare d’anticipo, annunciando la sua candidatura in solitaria. Eppure alla kermesse del presidente mancavano i vertici dei partiti ma la giunta era quasi al completo. A mancare solo l’assessore leghista, Alberto Samonà, e i due vicini a Micciché, Marco Zambuto e Tony Scilla. E non si è fatta attendere, infatti, la reazione del forzista che ha gelato il presidente in carica subito dopo l’annuncio: “Quattro anni fa la sua fuga in avanti fu accettata da un centrodestra che non fu facile rimettere insieme – ha detto a caldo Miccichè -. Oggi insisto nel dire che il candidato sarà scelto dalla coalizione così come affermato anche dai leader nazionale”. Un laboratorio rovente quello siciliano, dove, nonostante le prese di distanza, le voci nel centrodestra danno per certa la ricandidatura di Musumeci, l’unico a potere garantire la compattezza della coalizione del centrodestra. A questo puntano i partiti da Roma, disposti pare anche a perdere la guida della Regione pur di non perdere l’unità alle Politiche. Nonostante le volate in avanti, e gli sconfinamenti nel capoluogo toscano, le candidature nel grande laboratorio siculo saranno decise nella capitale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/21/alla-leopolda-renzi-candida-faraone-sindaco-di-palermo-la-mossa-per-lanciare-lasse-con-forza-italia-in-sicilia/6400116/?fbclid=IwAR05LvbwW1BZxVtRjPUDBwevDHTD2vkBDNlL7qFcbvD4mVyzsrpDSeGXKG0#


Io non lo voterei mai!

domenica 16 gennaio 2022

Addio scheda bianca. Conte vuole un nome di “spessore morale”. - Tommaso Rodano

 

In cerca di un candidato di bandiera.

Per Giuseppe Conte è il momento più delicato da quando ha accettato di prendersi sulle spalle il Movimento 5 Stelle. La sfida Quirinale è dietro l’angolo e le difficoltà per l’ex premier nel tenere insieme le truppe di Camera e Senato sono ben note, con una settantina di parlamentari che ormai giocano una partita tutta loro, di pura sopravvivenza, pronti a ostacolare l’ascesa di Mario Draghi al Colle per scongiurare la fine anticipata della legislatura.

Conte ha bisogno di dare una direzione finalmente chiara al Movimento e anche ieri ha incontrato i suoi per aggiornare la strategia sul Quirinale. Durante la riunione si è soffermato a lungo sull’ipotesi Berlusconi, su cui pure alle prime battute aveva avuto qualche inciampo e timidezza, ma adesso pronuncia parole nette: “Una proposta irricevibile e improponibile – ha detto – che non è garanzia di unità nazionale. È fatta per dividere e spaccare il Paese proprio in un momento in cui abbiamo maggiore bisogno di coesione e del più ampio coinvolgimento”. Va da sé che ogni ipotesi di confronto con il centrodestra è destinata a cadere sul nascere, finché resta in piedi la candidatura vessillo del Caimano: “Il solo fatto di annunciarla produce l’effetto di compromettere un dialogo costruttivo con il centrodestra – il ragionamento dell’ex premier –.

Mancano pochi giorni alla prima votazione e il solo fatto di insistere su questa candidatura produce l’effetto di allontanare una soluzione di alto profilo, anche morale, ampiamente condivisa di cui c’è urgente bisogno”. Il dibattito asfittico sul Quirinale, secondo Conte, sta producendo a cascata una paralisi generale dell’attività politica e di governo: “Significa stallo sui ristori a chi è colpito dall’emergenza pandemica, stallo su interventi contro il caro bollette”. Un’immagine imbarazzante, per l’ex premier: “La gente in fila per i tamponi e la politica che si chiude per una settimana a fare di conto col telefono in una mano e il pallottoliere nell’altra? Noi non lo permetteremo”.

E invece non si esce da lì, da settimane l’opinione pubblica resta cristallizzata sul racconto della corsa al Colle dell’ex Cavaliere. Una corsa inverosimile, secondo Conte. E pure impopolare: “È un’opzione è fuori dalla realtà”, scandisce. “Fatevi un giro sui social, sulle bacheche dei quotidiani, nei commenti sotto gli articoli che facevano il punto sul vertice del centrodestra: è il Paese a respingere questa candidatura. Non solo il M5S. I cittadini dimostrano ancora una volta di essere un passo avanti rispetto alle tentazioni e rivendicazioni di Palazzo. Non mi stupisce che Berlusconi giochi legittimamente le carte a sua disposizione. Quello che stupisce, semmai, è che non sia chiaro che questa opzione è fuori dalla realtà”.

Il centrodestra però ha fatto il suo nome, almeno sulla carta. Nel centrosinistra invece la strategia non è per nulla chiara, tra fedeltà draghiane, invocazioni di Mattarella bis e minacce di Aventino. “Per noi la partita è diversa – ragiona Conte – è più complicata. La nostra scelta per il Quirinale parte da un’asticella alta: per noi un nome non vale l’altro. Il profilo che auspichiamo richiama coesione, unità ed etica pubblica. Siamo aperti al confronto per il bene dell’Italia: se fosse così anche per centrodestra il dialogo unitario delle forze politiche sarebbe oggi a uno stadio avanzato”.

L’ex premier insiste, nei suoi discorsi, sulle parole “morale” ed “etica pubblica”. L’idea che prende forma nel Movimento 5 Stelle è quella di rinunciare all’ipotesi che era stata ventilata finora, di abbandonare l’aula nelle prime tre votazioni contro l’ipotesi Berlusconi o di votare scheda bianca. Ora si pensa invece che sarebbe più efficace contrapporgli subito un altro candidato. Una figura, appunto, di alto profilo e “spessore morale”. Un nome diverso da quelli che circolano.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/16/addio-scheda-bianca-conte-vuole-un-nome-di-spessore-morale/6457555/

sabato 15 gennaio 2022

“Figura adatta”. Così lo definiscono Salvini e Meloni. - Giacomo Salvini

 

VICOLO CIECO - Vertice a casa di Silvio, il leader di Forza Italia impone a Salvini e Meloni la candidatura: “Voglio fedeltà”. I dubbi degli alleati sui numeri.

“Chi è contrario alla mia candidatura lo dica adesso o taccia per sempre”. Alle 14.30, quando Silvio Berlusconi, con tono solenne, quasi presidenziale, apre il pranzo del centrodestra nel salone di villa Grande, cade un silenzio insolito. Nessuno fiata. Nessuno, nonostante i sospetti e i dubbi, riesce a dirgli niente. E dunque il dado è tratto: i leader del centrodestra, dopo due ore e mezzo di vertice, indicano Berlusconi come candidato della coalizione per la presidenza della Repubblica. È lui, come recita il comunicato finale, “la figura adatta a ricoprire in questo frangente difficile l’alta carica con l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita e che gli italiani si attendono”. La candidatura viene proposta seppur con una postilla, non solo formale: i leader del centrodestra chiedono a Berlusconi – ormai in campo da settimane – di “sciogliere la riserva”. Una precisazione che tiene aperto uno spiraglio su cui Meloni e Salvini puntano molto e che Berlusconi invece, al momento, non prende nemmeno in considerazione: la possibilità che a 24 ore dal quarto scrutinio del 27 gennaio, il leader di Forza Italia possa fare un passo indietro per fare il kingmaker di un altro candidato nel caso dovesse capire che non ci sono i numeri per arrivare alla soglia dei 505 voti. L’ipotesi preferita da Gianni Letta – che ieri è tornato a chiedere un candidato “condiviso” – e dai tre ministri azzurri che non condividono la strategia del cerchio magico di Arcore.

A ogni modo, nei prossimi giorni la campagna di scouting di Berlusconi – aiutato dal “telefonista” Vittorio Sgarbi – andrà avanti. E la “verifica” dei numeri e dei nomi sarà fatta in un nuovo vertice di giovedì prossimo dopo la trasferta di Berlusconi a Bruxelles per ricordare David Sassoli. Tra i fedelissimi del leader azzurro gira un report secondo cui arriverebbe a quota 493 voti (a 12 dal traguardo) ma in pochi ci credono. “Ne abbiamo convinti 15, ma coi franchi tiratori si elidono” spiega Sgarbi. Dunque ne mancano almeno altri 50-60. Per questo ieri i leader del centrodestra hanno deciso che da lunedì i capigruppo dei partiti metteranno in piedi una war room per aggiornarsi sui voti: si incontreranno tutti i giorni e si aggiorneranno sul pallottoliere. Anche perché, nonostante le richieste sui numeri, né Meloni, né Salvini sono riusciti a opporsi alla candidatura dell’ex premier. “Non possiamo rompere la coalizione” dice ai suoi il leghista.

Così, all’ ora di pranzo, Berlusconi riunisce i due “giovanotti” in un mini vertice. Entrambi gli dicono: “Vogliamo eleggerti, non solo candidarti”. Un modo per metterlo in guardia da una scalata proibitiva. Ma lui va avanti. E apre il pranzo allargato ai centristi, a base di parmigiana, branzino e calamari, con un discorso istituzionale. “Io ci sono e ci tengo molto. Mi metto in gioco ma siete voi che dovete darmi garanzie sui numeri e sulla vostra fedeltà”. A quel punto, prende la parola Salvini che prova ad avanzare qualche dubbio. Si è portato da casa le schede storiche sulle elezioni di Scalfaro e Mattarella per far capire all’ex Cavaliere che servono numeri molto alti: “Il primo ha avuto 672 voti, il secondo 665. La Lega sarà compatta ma la garanzia non c’è nel voto segreto. Devi dirci chi sono e quanti sono i parlamentari che hai convinto”. Anche Meloni mette i suoi dubbi sul tavolo: “FdI ti sostiene, ma mancano ancora 50 voti”. Ma tutti e due, alla fine, lo dicono apertamente: “Sei il nostro candidato”. I centristi Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa e Luigi Brugnaro si accodano. Anche Gianni Letta concorda. Meloni vuole un impegno su una legge elettorale maggioritaria ma Brugnaro non firma. Ma questa spaccatura diventa un dettaglio. Perché alla fine conta solo un fatto: la candidatura di Berlusconi ora è realtà.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/15/e-ufficiale-le-destre-candidano-b-ce-la-war-room-per-contare-i-voti/6456796/

giovedì 17 giugno 2021

Un lumino per Fassino. - Marco Travaglio

 

I 5Stelle torinesi erano un po’ abbacchiati: per le due ridicole condanne della Appendino, per la sua decisione di non ricandidarsi, per il rifiuto del Pd locale di appoggiare insieme il rettore del Politecnico Guido Saracco e per la difficoltà di trovare un nome di bandiera che difenda l’eredità dell’ultimo quinquennio. Poi, quando ormai stavano per abbandonarsi ad atti di autolesionismo, ha parlato Fassino. L’ha fatto sul Foglio, come si conviene a chi preferisce darsi alla clandestinità. E, dall’alto del suo beneaugurante passato, ha spiegato al Pd e al M5S cosa devono fare. Il candidato del Pd, tale Stefano Lo Russo, deve stipulare “un patto con gli sfidanti alle primarie”, forti di “un consenso di cui è bene tenere conto” (li hanno votati i parenti stretti). Poi “dovrà cercare di muoversi in più direzioni” (magari a zig-zag, per seminare meglio gli elettori), “rivolgendosi a Italia Viva e Azione”. Giusto: avendo combattuto il Conte-2 e sabotato il Pd alle Regionali, sono gli alleati ideali. Tutto sta a rintracciarli in tempo per ottobre (già allertato il Ris di Parma). E poi? “Dare spazio alla parità di genere”: tipo alle primarie, dove su quattro candidati i maschi erano quattro. E i 5Stelle? “L’invito rimane aperto anche a loro”. 

Quale invito, visto che il Pd torinese – una specie di Pompei post-eruzione, pietrificata da 40 anni in mano ai soliti Fassini&Chiamparini&circoletti vari – candida Lo Russo apposta per tagliarli fuori? “Il punto di partenza è riconoscere che questi cinque anni della giunta non sono stati di buon governo. In eredità non è stato lasciato niente”. L’idea non è male: per avere il privilegio di portare voti al capogruppo Pd che la denunciò in Procura e la fece condannare per un debito contratto da Fassino (lui sì che in eredità lasciò qualcosa), la Appendino dovrebbe ammettere di essere una ciofeca. Sennò i suoi voti il Pd non li vuole. Il fatto che sia stato il suo Pd, in rotta con Letta, a rifiutare Saracco, è un dettaglio. Anzi è tutta colpa dei 5Stelle che l’hanno proposto. Ma meglio così, perché la sua idea di coalizione è la seguente: il Pd candida chi gli pare e il M5S gli porta i voti con le orecchie. Infatti “non capisco la rigidità della sindaca contro un accordo al ballottaggio: così si rischia di favorire la destra” (con cui i Fassini sono sempre andati a braccetto sul Tav e altre ideone). L’ultima volta che Fassino parlò della Appendino, fu per la leggendaria sfida “Se vuol fare il sindaco, si candidi e vediamo”. Il bis del celeberrimo “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito e vediamo”. Da allora ogni 5Stelle tiene sul comò un altarino con la sua foto rischiarata da un lumino votivo. Ora ci risiamo. Se lui assicura che o vince Lorusso o vince la destra, è matematico: se si ricandida la Appendino, rivince lei.

ILFQ

venerdì 7 maggio 2021

Bertolaso e Albertini mollano Salvini e lui se la prende con FdI: “Troppi no”. - Lorenzo Giarelli

 

Leghista suonato - Matteo scaricato dai suoi candidati a Roma e a Milano: destra spaccata.

La campagna elettorale deve ancora iniziare, ma per Matteo Salvini le Amministrative di ottobre sono già un grosso problema. In barba al solito ottimismo sbandierato a favor di telecamera, il leghista ha impiegato sei mesi per trovare i candidati per Roma e Milano, li ha strombazzati come cavalli vincenti e poi è finito per essere sbugiardato da entrambi.

È successo con Guido Bertolaso per la Capitale ed è successo ieri a Milano con Gabriele Albertini, il cui no alla corsa per sfidare Beppe Sala ha aperto l’ennesima frattura pubblica nel centrodestra. Con tanto di smacco personale a Matteo, che ora se la prende con gli alleati per aver “fatto perdere la pazienza” ai suoi candidati, provocandone la fuga.

Ufficialmente, Albertini decide di farsi da parte per motivi familiari. Scrive una lettera a Libero ringraziando per i tanti messaggi di sostegno, assicura che stava “per cedere e dire sì” ma che poi si è fermato: “Non potevo infliggere un disagio a mia moglie. Preferisco sperare di trascorrere con la mia famiglia, finché ci sarà salute, l’ultimo ottavo di vita media”. E nell’uscire dal pressing, Albertini butta lì pure che se avesse vinto avrebbe chiesto a Sala “di entrare in giunta come vicesindaco”, gesto di rispetto per l’avversario ma anche ecumenico segnale per una Milano pronta “alla primavera” dopo “l’inverno della pandemia”.

Tante belle parole di cui Salvini non sa però che farsene, visto che pochi giorni fa anche Bertolaso si è sfilato da Roma lasciandolo col cerino in mano: “Ringrazio chi mi vuole sindaco nella Capitale – la versione del factotum dell’emergenza lombarda – ma cerchino qualcun altro”. E allora il leader leghista – che peraltro aveva scelto due nomi fuori dal suo partito – fiuta la disfatta e si agita, tirando in mezzo Fratelli d’Italia e Forza Italia: “Sono mesi che cerco di costruire e unire il centrodestra in vista delle amministrative. A Roma e Milano avevamo i candidati giusti, ma altri hanno detto no per settimane e mesi e loro hanno perso la pazienza”.

In effetti i passi indietro di Albertini e Bertolaso sono attribuibili solo in parte a ragioni personali, ma molto più alle crepe interne alla coalizione. Il problema è che FdI, a sua volta, scarica le responsabilità su Salvini, che da tempo rimanda il famoso “tavolo” del centrodestra in cui dovrebbero essere definite tutte le principali candidature alle Amministrative, per paura che la trattativa coinvolga vicende molto più nazionali (su tutte: la presidenza del Copasir contesa proprio da Lega e Fratelli d’Italia).

Ed è questo che Daniela Santanchè, riferimento milanese del partito di Giorgia Meloni, rinfaccia al leghista: “Il fatto che Salvini non abbia ancora convocato il tavolo del centrodestra ha determinato la decisione di Albertini. Quando non si hanno risposte e si vive senza sapere poi succede che un candidato si ritiri”.

Non basta allora il nome di Maurizio Lupi, indicato ora come il favorito per sfidare Sala, a calmare i malumori della destra. La lacerazione è molto più profonda e rischia non solo di ritardare la scelta dei candidati su Milano e Roma, ma persino di compromettere l’intesa altrove. A Napoli, per esempio, Giorgia Meloni potrebbe andare da sola sostenendo l’avvocato Sergio Rastelli (figlio di Antonio, ex governatore della Campania dal 1995 al 1999) e lasciando gli alleati al loro destino con Catello Maresca, sperando poi di arrivare al ballottaggio da una posizione di forza.

Uno sgarbo non da poco che potrebbe replicarsi in altre città dove l’accordo è ancora in alto mare, come Salerno o Bologna. Non c’è da stupirsi allora che di questo quadro fracassato, a taccuini chiusi, un big del centrodestra dia una sintesi simile a un epitaffio: “Non esiste più una coalizione”. Figurarsi se possono esistere i candidati.

ILFQ

mercoledì 27 maggio 2015

Pd, la legge sui partiti che fa fuori il M5s. Firmata dai big, voluta da Renzi: se passa, i 5 stelle non si potranno candidare. - Pietro Salvatori

RENZI GRILLO

Se passa questa legge il Movimento 5 stelle non potrà più candidarsi alle elezioni. Non ci sono scappatoie, non ci sono questioni interpretative. E "questa legge" non è una legge qualsiasi, ma un testo presentato ufficialmente da tutta la filiera direttiva del Partito democratico.
Tre articoletti snelli, illustrati oggi a via del Nazareno da Matteo Orfini (presidente del partito), Lorenzo Guerini (vicesegretario) insieme a Nico Stumpo e Andrea Di Maria. il testo disciplina "La democrazia interna dei partiti". E spiega che, per potersi candidare alle elezioni, è necessario che qualunque movimento politico acquisisca personalità giuridica, con tanto di statuto e regolamenti che rispondano a determinati canoni.
Esattamente quello che Beppe Grillo ha sempre rifiutato di fare. Anzi, il "Non Statuto" e la forma liquida dell'organizzazione interna sono sempre stati vanto e fiore all'occhiello di tutti i 5 stelle. "Noi non siamo come tutti gli altri, noi siamo una comunità di cittadini che si auto-organizzano liberamente". Tutto questo non sarebbe possibile se la legge sui partiti passasse. In quel caso o il M5s dovrebbe rinnegare uno dei suoi cardini costitutivi, accettando di assumere una forma partito, o sarebbe irrimediabilmente fuori dalle prossime elezioni.
Il Pd fa sul serio. "Ci sono state tante proposte da parte di singoli parlamentari - ha spiegato - Ma tengo a sottolineare che questa è la proposta del Pd, di tutto il Pd". Plastica la presenza al suo fianco di Orfini, presidente e leader dei Giovani Turchi, del cuperliano De Maria e del bersaniano Stumpo. E in calce alla proposta si legge anche la firma di Gennaro Migliore, ex Sel. Il testo, depositato stamattina a Montecitorio, è stato presentato al Senato da due pezzi da novanta come Luigi Zanda e Anna Finocchiaro. "Il testo dà attuazione all'articolo 49 della Costituzione - spiega Guerini - ed è un naturale completamento all'Italicum".
L'intento è quello di rendere più trasparente e controllabile la vita democratica dei partiti. Gli estensori parlando del "rispetto di puntuali standard di democrazia interna". Quali? È presto detto: "La disciplina delle procedure di ammissione e di espulsione, l'ambito di applicazione della regola maggioritaria, gli strumenti posti a tutela delle minoranze, le modalità di selezione delle candidature alle cariche pubbliche e le procedure per la scelta del leader".
Ovvio che il respiro sia generale, che parli a tutti gli attori in campo. Così come è ovvio che con una formulazione del genere agli uomini di Grillo possano fischiare le orecchie. Orfini è secco: "La nostra è una norma a favore della trasparenza e della democrazia: se Grillo è contrario alla trasparenza e alla democrazia è un problema di Grillo, non di questa proposta di legge, né tantomeno del Pd.
"Oggi dimostriamo la capacita' del Pd di costruire unità - prosegue il presidente Dem - e sfidiamo anche le altre forze politiche a dimostrare coerenza con i loro proclami. Verificheremo in Parlamento chi ha davvero voglia di rendere il nostro sistema più trasparente e democratico".
Fine del discorso. Se il M5s ci vorrà stare, bene, altrimenti ne trarrà le conseguenze. Nessuna scappatoia possibile. Viene scritto infatti nero su bianco che "l'acquisizione della personalità giuridica costituisce condizione per la presentazione delle candidature e delle liste di candidati per l'elezione della Camera dei deputati".
Il primo tassello di un trittico che comprenderà un intervento anche sulle primarie e sulla regolamentazione delle fondazioni. In occasione dell'inchiesta che ha coinvolto quella di Massimo D'Alema, si parlò proprio della legge sui partiti come risposta alla forte richiesta di Raffaele Cantone di studiare una legge ad hoc. Non sarà così. "Ma stiamo facendo un lavoro di coordinamento per studiare una proposta specifica", spiega De Maria. "Noi condividiamo le preoccupazioni di Cantone - aggiunge Orfini - sull'utilizzo delle fondazioni come strumento parallelo alla politica. Oggi l'opacità è permessa dalla legge. Serve una maggiore trasparenza, anche e soprattutto su come vengono reperite e spese le risorse".
Si vedrà nelle prossime settimane. Intanto il Pd fa sul serio sulla legge sui partiti. Manca solo la firma di Matteo Renzi. Ma solo perché non è in Parlamento. Tutto il gotha del partito ha apposto la propria firma ed è intenzionato ad andare avanti. Che al M5s piaccia o meno.

http://www.huffingtonpost.it/2015/05/26/pd-legge-sui-partiti-che-fa-fuori-il-m5s_n_7441746.html?ir=Italy

Questo fanno Renzi e il suo PD...con metodi discutibili e niente affatto democratici.
Quindi, per il PD "l'acquisizione della personalità giuridica costituisce condizione per la presentazione delle candidature e delle liste di candidati per l'elezione della Camera dei deputati" vale più della fedina penale pulita, dell'etica personale. 
Non hanno mai fatto una legge che evitasse a Berlusconi, condannato in via definitiva per truffa allo Stato,di entrare in Parlamento a legiferare pro domo sua!
Hanno una paura fottuta del m5s che sta rendendo pubbliche tutte le loro magagne, i loro sotterfugi, per non parlare della loro corruzione.
Affermano, inoltre, che con questa legge stanno attuando l'art. 49 della Costituzione che recita: 

"Articolo 49

Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale."

Che c'entra lo statuto?

Cetta.