Una colonizzazione economica. O, in termini meno tecnici, una svendita totale. Se accettasse le condizioni proposte e il contratto venisse effettivamente firmato, Kiev potrebbe dover letteralmente consegnare a Washington le chiavi del proprio comparto estrattivo. E non solo di quello. Perché non ci sono solo le terre rare nell’accordo che Donald Trump ha proposto all’Ucraina per continuare a garantirle il sostegno militare degli Stati Uniti: i “500 miliardi di dollari” che il tycoon ha chiesto a Volodymyr Zelensky comprendono altri importanti asset strategici come porti e infrastrutture di petrolio e gas. Tutto nero su bianco in una bozza del contratto preliminare pubblicata dal Telegraph.
Il documento, contrassegnato come “Privileged & Confidential” e datato “7 febbraio 2025”, afferma che gli Stati Uniti e l’Ucraina dovrebbero creare un fondo di investimento congiunto per garantire che “le parti ostili al conflitto non traggano vantaggio dalla ricostruzione dell’Ucraina”. Ma a restare fuori dal gioco non sarebbero solo quelle ostili: il fondo, si legge, “avrà il diritto esclusivo di stabilire il metodo, i criteri di selezione, i termini e le condizioni” di tutte le licenze e i progetti futuri. Washington, quindi, potrà decidere con quali paesi Kiev potrà o non potrà fare affari in futuro. L’accordo copre il “valore economico associato alle risorse dell’Ucraina”, tra cui “risorse minerarie, petrolio e gas, porti, altre infrastrutture (come concordato)” e “sarà regolato dalla legislazione di New York“. Feudo politico e finanziaro del tycoon.
Washington avrà diritto al 50% delle entrate che l’Ucraina ricaverà dall’estrazione di risorse e al 50% del valore finanziario di “tutte le nuove licenze rilasciate a terze parti”. Agli Stati Uniti sarà garantito “un privilegio su tali entrate“. “Una clausola che significa ‘pagateci prima e poi date da mangiare ai vostri figli'”, ha commentato una fonte vicina alle trattative con il quotidiano britannico. Per tutte le future licenze, inoltre, “gli Stati Uniti avranno un diritto di prelazione sull’acquisto di minerali esportabili”. Condizioni che al vertice sulla sicurezza tenuto nel fine settimana a Monaco hanno costretto i funzionari ucraini, già a conoscenza della bozza, a opporre buon viso a cattivo gioco, ufficialmente facendo professione di fiducia in vista un accordo, ma allo stesso tempo sostenendo a mezza bocca che l’intesa proposta da Washington è economicamente insostenibile e necessita di modifiche.
Era stato Zelensky a proporre agli Stati Uniti “condizioni favorevoli” per una partecipazione diretta nell’estrazione di minerali pregiati sul territorio ucraino durante una visita alla Trump Tower a settembre, con l’obiettivo di garantirsi la fornitura di armamenti anche dopo la vittoria del tycoon. L’idea del leader ucraino era di portare aziende statunitensi a stabilirsi sul territorio, creando un legame politico-economico con la prima potenza mondiale in grado di dissuadere Vladimir Putin dall’attaccare di nuovo il paese. Con la metà dei bacini minerari più preziosi che si trovano vicino al fronte di guerra nell’est o nelle aree occupate dai russi, il calcolo non dichiarato di Zelensky era quello di evitare che le riserve strategiche di titanio, tungsteno, uranio, grafite e terre rare finiscano nelle mani di Mosca. Difficilmente, tuttavia, avrebbe pensato di trovarsi di fronte a condizioni così dure, simili a quelle imposte agli stati aggressori sconfitti in guerra.
Trump aveva detto chiaramente di puntare alle ricchezze ucraine. Dall’inizio della guerra, aveva premesso, gli Stati Uniti hanno dato a Kiev tra i 300 e i 350 miliardi di dollari i aiuti. “Ho detto loro (agli ucraini, ndr) che voglio l’equivalente di 500 miliardi di dollari di terre rare – aveva detto il 10 febbraio a Fox News -, e hanno sostanzialmente accettato”. “Hanno terreni di enorme valore in termini di terre rare, in termini di petrolio e gas, in termini di altre cose”, aveva spiegato. Ora il pre-contratto quantifica la richiesta. Se la bozza venisse accettata, calcola il Telegraph, “le richieste di Trump ammonterebbero a una quota maggiore del Pil ucraino rispetto alle riparazioni imposte alla Germania dal Trattato di Versailles” che il 7 maggio 1919 pose ufficialmente fino alla Prima guerra mondiale, “in seguito ridotte alla Conferenza di Londra nel 1921 e dal Piano Dawes nel 1924”. Le condizioni “sono peggiori delle sanzioni finanziarie imposte a Germania e Giappone dopo la loro sconfitta nel 1945. Entrambi i paesi erano in definitiva beneficiari netti di fondi dagli alleati vittoriosi”.
Terrificante! Gli USA producono guerre per appropriarsi di tutto ciò che produce denaro... Visto che non sono riusciti ad ottenere ciò che volevano con la guerra provocata, usano altri sistemi per appropriarsi di ciò che interessa loro: terre rare, petrolio, gas... E non smetteranno mai, perchè la loro voglia di primeggiare in tutto e diventare padroni del mondo non cesserà mai!
Non è fantascienza. Trump vince nei podcast e in tutte le contee, cresce tra i ricchi e si proietta sui satelliti dell’amico Musk. Che partecipa ai vertici tra potenti. E non solo adesso. Per i Dem di tutto il mondo è urgente un’agenda. E una strategia per comunicarla.
La mappa per contee è più definitiva di quella degli Stati: la valanga rossa, dove per rossa s’intende trumpiana, è ancora più estesa e permeata di quanto non si sia già capito. Quanto profonda? I numeri dicono tanto, anche se bisognerà aspettare settimane per avere i dati del Census Bureau per un’accurata analisi demografica dei flussi. I numeri dicono che il muro blu non c’è stato e invece il successo di Donald Trump ha investito ogni strato sociale, ogni territorio, andando a prendersi Stati che sembravano in bilico, e non lo erano, e persino strappando consensi là dove alberga e si nutre il sentiment Dem, la città di New York. Nella Grande Mela, per esempio, Trump ha ottenuto il sostegno del 43% degli elettori sotto i 30 anni contro il 32% del 2020. E ha anche raddoppiato il suo sostegno tra gli elettori neri: dal 7% di quattro anni fa è passato al 16%. In tutto il paese la generazione Z è andata meno a votare – si stima un meno 16% – ma il 10% si è spostato su di lui. E non solo maschi. Tra le giovani donne, Harris si è distaccata da Trump di 24 punti, mentre Biden quattro anni fa era sopra di 35.
Un esito elettorale che ha ribaltato l’istituto dei sondaggi e che ora mette in crisi anche la sociologia urbana, pervasa dal dubbio che la distinzione in metropoli-aree rurali non spieghi più lo spirito che scorre nelle vene del corpo elettorale. Ci sono tanti fattori che hanno trasformato la società in una moltitudine di pixel da saper leggere: c’è la demografia dei singoli territori, il peso delle minoranze nelle grandi città come appunto New York, c’è un successo crescente dello stile trumpiano tra i ricchi come tra i poveri. Ci sono contraddizioni per cui non si trova una necessaria spiegazione. In Missouri ha vinto Trump ma è passato il referendum sull’aborto. In California ha vinto Harris ma sono stati sconfitti una serie di referendum su temi sociali come la riduzione della maggioranza necessaria per approvare interventi di edilizia popolare; l’abolizione dell’impiego non retribuito (nel testo si parlava proprio di schiavitù) dei detenuti; l’aumento del salario minimo.
Alle 5 di mattina del 6 novembre, quando lo sgomento per i dati che arrivavano sempre più netti e nitidi, Francesco Memoli, ingegnere italiano che vive a Pittsburgh da 20 anni, spiegava, nella lunga diretta di Radio Popolare, che da quelle parti – «dove ci sono ancora tanti operai» – Trump era arrivato con la promessa di detassare gli straordinari, che sono una componente importante del sistema produttivo locale e su questo si è preso lo Stato più importante (il suo intervento qui al minuto 17).
Di contro, il tema dell’aborto e quello del voto delle donne per una donna cavalcati da Harris non hanno fatto presa né sulle più giovani né sulle over 45. Tra le prime il voto per la candidata Dem è diminuito di sei punti percentuali rispetto a quattro anni fa, mentre è aumentato esattamente del 6% il consenso di Trump in quella fascia d’età; tra le più adulte invece il calo è stato solo di un punto percentuale.
Sono gli Stati Uniti un paese bigotto e misogino? Si è trattato di un errore di proposte politiche e di contenuti per Kamala Harris mentre Donald Trump li avrebbe azzeccati?
Un’auto in Pennsylvania
La campagna di Trump è stata indirizzata agli uomini, aggressiva e nerboruta, perfino volgare come quando a un comizio in North Carolina la sua reazione a una voce che dal pubblico si era alzata per insinuare che la vicepresidente e candidata fosse una prostituta, lui ha risposto sorridendo: «Questo posto è fantastico». Come hanno potuto le donne, e ancor di più le più giovani, ignorare questo e altri fatti detti, urlati, scritti, agiti?
Per forza c’è altro. La sfiducia, il risentimento, la rabbia. Roger Cohen ha scritto ieri sul NYT un editoriale che parte proprio da qui, da un avvertimento di Mikhail Gorbachev all’Ovest in giubilo per la fine della guerra fredda: «Stiamo facendo la cosa peggiore per voi: vi stiamo privando di un nemico».
Non da ultimo, su questi e su altri sentimenti c’è la strategia comunicativa. Capillare, quella di Trump e dei suoi. Martellante e pervasiva, occupando ogni canale di trasmissione di informazioni vere, false, distorte o parziali. Non solo bot dell’internet. Cartacei foraggiati da gruppi di interessi di stampo conservatore, se non proprio di destra, e scritti da algoritmi, da anni vengono adagiati con cura sullo zerbino di ogni casa. Controllo della narrativa senza lasciare spazio vuoto. Non da adesso, ma da quando è comparso sulla scena politica e forse prima, senza far passare giorno senza una qualche sparata, un qualche segno, un graffio ma anche un buffetto. Lui e i suoi sostenitori, grandi influencer e piccoli uomini, e donne, uniti in un modo di fare, e forse di essere, imprevedibile e sempre sopra le righe. Si direbbe spontaneo. Il cambio in corsa Biden-Harris lo aveva visto rallentare: per qualche settimana, Trump e il suo vice JD Vance erano fuori tempo, colpivano nel vuoto con un campionario di attacchi ormai superati e Harris appariva in vantaggio, più fresca, con un consenso crescente tra i big del partito e del jet set, sui media tradizionali. Adeguato il registro linguistico, la campagna Trump ha ripreso a sferrare i colpi sotto la cinta, usando gli stereotipi sessuali e razziali e abusando del politicamente scorretto che, come a scuola, conquista risate e spallucce. Nei discorsi di Trump l’obiettivo era attaccare Harris che invece è andata meno a testa d’ariete contro di lui e anzi lo ha nominato davvero poco. La spesa totale in spot tv, radio, digitali per i Democratici è stata di 5 miliardi di dollari, per i Repubblicani di 4,1. E lo Stato in cui si è concentrata una quota consistente è proprio la Pennsylvania: poco più di 1 miliardo di dollari in totale. Che è stata importante nel successo del Presidente, ma non da sola. Uno degli spot più diffusi in Tv da Harris provava a parlare alla classe media, promettendo interventi per abbassare i prezzi degli affitti e dei generi alimentari, ricordando la manifesta intenzione di Trump di tagliare le tasse alle imprese. La campagna del Tycoon invece ha investito la cifra maggiore per una pubblicità sui mezzi digitali in cui dice di voler eliminare le tasse sui sussidi e sulle mance della previdenza sociale.
Secondo l’analisi di AdImpact, i repubblicani hanno poi speso quasi 215 milioni di dollari in spot televisivi che diffamavano le persone transgender. Harris è stata accusata più volte di essere loro sostenitrice.
Ma il martellamento di Trump, soprattutto negli ultimi giorni, è stato minuzioso e mirato al target di elettori che voleva coinvolgere: a luglio il profilo di Trump era stato riattivato su Twitch, piattaforma di Amazon, ossia di Jeff Bezos, proprietario del Washington Post che quest’anno per la prima volta da decenni non ha fatto l’endorsement (che naturalmente sarebbe andato a Harris): era stato bannato a seguito dei fatti di Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 dopo la vittoria di Joe Biden. Ai tempi, la stessa decisione l’aveva presa Meta, che sempre a luglio ha consentito a Trump di ricomparire su Facebook e Instagram. Piccoli segnali di un consenso – o almeno di non ostilità – da parte dei proprietari delle principali piattaforme social, che così in qualche modo hanno rafforzato i mezzi di propagazione del verbo trumpiano. A parte X, quello chiaramente schierato con Trump per dichiarazione e azione del suo dominus, Elon Musk.
Mentre i Dem diffondevano i video con la candidata che andava a bussare alle porte degli americani per invitarli al voto, Trump intanto entrava nella vita degli elettori dalle cuffiette dei videogiochi e dei podcast, anche di quelli meno famosi, più locali, purché con un significativo numero di followers. Alcuni di loro – Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With The Boys – sono stati nominati a titolo di ringraziamento durante il discorso di vittoria di mercoledì mattina. L’ultimo dell’elenco era Joe Rogan, comico, il podcaster più famoso di tutti, una potenza di ascolti e visualizzazioni: una volta fervente democratico. Solo su Youtube, la sua intervista di fine ottobre a Trump ha totalizzato quasi 50 milioni di visualizzazioni. Con questi signori, seguiti prevalentemente da un pubblico maschile giovane, l’obiettivo era assicurato. Ore e ore di chiacchiere seduto davanti a un microfono, in un ecosistema amico e confortevole, riverberante, senza filtri, senza regole, senza limiti, pieno di cospirazionisti, dubbiosi, arrabbiati, soli. Come i manovali che, spiegava la radio pubblica NPR, alla fine di una giornata di polvere e fango, in autobus tornano a casa fuori dalle città, in mezzo al niente, con pochissimi soldi, tutto diventato insensatamente caro e si attaccano ai video giochi on line, dai quali spunta The Donald che promette l’America della leggenda, la terra feconda di opportunità e intanto scatena la guerra civile contro gli immigrati irregolari arrivando al cuore degli immigrati che intanto si sono regolarizzati e quindi votano per lui: semplicemente sbagliava, chi pensava che le battute sugli haitiani che mangiano i gatti o sui portoricani che sono pattumiera fossero troppo pure per i trumpiani. Una cacofonia in cui si perdono i sensi e il senso.
La strategia democratica non ha potuto nulla. Ci si interroga ora se le primarie avrebbero potuto individuare un candidato migliore di Biden e di Harris. Se il passo indietro di Biden sia arrivato troppo tardi e ormai troppo male. Ci si chiede perché gli influencer di Trump abbiano portato voti, mentre lo star system schierato con Harris no.
Fuori da un seggio elettorale il 5 novembre 2024.
Sarada Peri senior speechwriter di Barack Obama ha detto a Politico.com che «anche il modo in cui ascoltiamo e rispondiamo agli elettori è rifratto attraverso Trump […] Timorosi di alcuni elettori e sprezzanti di altri, non convinciamo quasi nessuno […] Le idee stantie su cui si è basato il partito sono state una reazione alla sua agenda». Will Stancil avvocato per i diritti civili mette in evidenza il successo della «macchina della rabbia nazionale» trumpiana e invita i democratici, di cui fa parte, a «trovare un modo per fare progressi nei media moderni e strappare un maggiore controllo dell’ambiente informativo nazionale a Trump». Perché è un errore, non attribuire il reale peso della pluralità di fonti virtuali di [mala]informazione. Donna Brazile, ex presidente del Democratic National Committee, colpita dall’esito di questa campagna ha suggerito come unica strada sia la convocazione del comitato esecutivo democratico e la condivisione di una «nuova strada da seguire». Ed è una strada che non può non passare anche da un aggiornamento di linguaggi e strumenti, una presenza sulla terra ma anche nelle reti virtuali che con i loro algoritmi segreti non sono neutrali e anzi campi di battaglia culturale su cui installare le strategie di futuro, una riconnnotazione dei confini del mondo e una redistribuzione dei pesi.
E non è fantascienza, Elon Musk e il suo Starlink che vegliano su di noi – a ottobre 2020 il segretario alla difesa, Colin Kahl, si appellò al miliardario perché le forze armate ucraine stavano perdendo la connessione internet nei territori contesi dalla Russia e ora Musk ha preso parte alla telefonata tra Trump e Zelensky – sono lì a dirlo. Forte e chiaro.
Ormai a Biden gli raccontano le filastrocche tra un pisolino e l’altro mentre alle sue spalle si decidono i destini del mondo. Sul tavolo c’è la reazione alla sventagliata di missili iraniani che potrebbe far detonare una guerra su larga scala. Se fosse per i falchi della lobby pro Israele sgancerebbero subito l’atomica su Teheran così tagliano la testa al toro, ma a Washington c’è chi frena. Una situazione complicata perché Biden non riesce più a decidere nemmeno se andare in bagno o meno mentre la Harris è l’unica cosa che riesce a decidere. Pare che i soli adulti della situazione si trovino al Pentagono dove sono stanchi di guerre a vanvera e avvertono che prendersela con l’Iran non è uno scherzo soprattutto oggi che vola di tutto. Le vulnerabili basi americane sparse nel Golfo finirebbero nel mirino missilistico dei pasdaran in un baleno. A suggerire cautela è proprio l’esito dell’ultima sventagliata, checché ne dicano i giullari di corte, i sistemi antimissili Made in Occidente hanno intercettato qualche missile giusto per sbaglio mentre quelli atterrati han fatto danni eccome. E in cantina gli iraniani conservano suppostone ancora più deleterie. Ed è questo che conta nel mondo della guerra, avere un elmetto per ogni clava. L’Iran sembra poi fare sul serio, ne hanno abbastanza d’ingoiare rospi e quello di Nasrallah non va giù. Ma c’è oltre. Iran e Russia hanno un ottimo rapporto e la passione comune per le armi. Si scambiano i pezzi preziosi delle rispettive collezioni e Putin gli sta installando un sistema antimissile nuovo di pacca. Quanto all’annosa questione del nucleare iraniano, pare che l’Ayatollah in passato abbia espresso qualche perplessità in merito ma gli sia passata di recente. L’atomica è la clava per cui non esiste nessun elmetto. Al pericoloso Iran è sempre stata negata mentre quel mite statista di Netanyahu ne possiede un centinaio. Rinomata coerenza occidentale. Ma una guerra con l’Iran seccherebbe anche la Cina, il suo immenso motore produttivo gira soprattutto grazie al petrolio iraniano e se vengono colpiti i pozzi anche il prezzo del greggio schizzerebbe alle stelle e potrebbe causare una recessione globale. E questo in un momento già delicato. L’Occidente non accetta il sorpasso tecnologico cinese e sta ricorrendo ad una meschina guerra di dazi. Falli di frustrazione che potrebbero alimentare un conflitto commerciale. A breve si riunisce poi il Brics, per la prima volta nella storia potrebbe nascere una alternativa al dollaro, vero pilastro del decrepito impero americano. Cose grosse, l’Occidente sul viale del tramonto. E se non bastasse siamo pure a tre settimane dalle elezioni statunitensi. e una guerra con l’Iran potrebbero essere la pietra tombale per una Kamala Harris già inguaiata di suo. I sondaggi la danno incredibilmente alla pari col vecchio Trump. Annunciata come una Obama in gonnella, la Harris si è rivelata una ventriloqua dell’establishment. E non c’è di peggio coi tempi che corrono. Ha ricevuto palate di endorsement di lusso, ha tutti i media a favore, ha raccolto una valanga di soldi eppure niente, anche negli Stati Uniti i cittadini vogliono cambiamento radicale e non ipocrita perbenismo lobbistico. Per dirla all’americana, la guerra all’Iran dipenderà da chi è il cane e chi la coda. Se sono cioè gli Stati Uniti a guidare la loro politica estera oppure la lobby pro Israele. Una guerra non è negli interessi americani né occidentali e servirebbe solo a coronare i deliri sionisti di Netanyahu ma il potere ha le sue dinamiche. Nell’ultimo anno Biden non ha fatto che firmare assegni in bianco e passerà ai posteri come lo sponsor del genocidio del secolo. Uno scandalo a metà tra crisi democratica e circonvenzione d’incapace, ma davanti ad una guerra di tale entità ed impatto, gli adulti del Pentagono ma anche le rare menti libere sopravvissute in quel di Washington, potrebbero trovare un compromesso intelligente o almeno pare ci stiano provando. Del resto nel mondo della guerra contano anche le tempistiche e le conseguenze strategiche e non solo chi ha la clava più letale. Quanto al mondo della pace, rimane tutto da fare.
Vedendo Trump che gridava ai brogli e non riconosceva la vittoria di Biden, a B. è venuto in mente qualcuno, ma senza ricordare chi. E, nel dubbio, ha inviato un articolo al Giornale di famiglia per dire che certe cose non si fanno: “È la fine peggiore. Noi liberali siamo un’altra cosa. Il voto va rispettato. Trump ha minato la democrazia Usa” per “non aver riconosciuto la vittoria di Biden”. Figurarsi la delusione di Trump, che ha copiato tutto da lui. Il quale, in 27 anni di malavita politica, non ha mai riconosciuto una sola vittoria avversaria, gridando regolarmente ai brogli. Se i suoi fan più pittoreschi non hanno mai invaso il Parlamento, è solo perché li stipendia lui nei suoi giornali e tv. Invece il resto della stampa se la prende con Salvini&Meloni (che hanno tanti difetti, ma non hanno mai negato la legittimità delle vittorie altrui). Nel 1994 B. vince: quindi elezioni regolari. Ma un anno dopo perde le Amministrative, ergo non vale: “La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit-poll che mi davano vincente” (26.4.95). Nel ’96 stravince l’Ulivo di Prodi e lui strilla allo scippo: “Nel ’96 ci hanno tolto 1 milione e 705 mila schede” (6.4.2000). Anzi “1 milione e 171 mila schede” (14.4.2001).
Nel 2001 rivince lui: nessun broglio. Ma a fine legislatura è sotto nei sondaggi: cambia la legge elettorale col Porcellum per ottenere almeno il pareggio e riattacca la guerra preventiva. “A sinistra ci sono dei professionisti dei brogli. Ci hanno sottratto 1 milione e 750 mila voti” (18.2.06). E invoca “gli osservatori dell’Onu per difenderci da questi signori esperti di brogli” (6.4.06). Il 10 aprile si vota: una notte di drammatica incertezza. Anziché presidiare il Viminale dove affluiscono i dati, il ministro forzista dell’Interno Beppe Pisanu fa la spola con Palazzo Grazioli, mentre Marco Minniti e altri Ds vanno e vengono dal Viminale per capire che accade. Su quella notte, si racconterà di tutto. Di certo c’è che Pisanu dice un no di troppo e rompe per sempre con B. L’11, finalmente, i risultati: l’Unione di Prodi ha vinto d’un soffio. B. chiama la piazza, poi la stampa: “Tanti brogli unidirezionali ai miei danni in tutta Italia. Ne ho parlato con Ciampi, cambieranno il risultato: schede non conformi, somme sbagliate, dati riportati male, schede trovate in giro evidentemente messe da parte. Ricontrollare i verbali di 60 mila sezioni”. Le stesse parole che 15 anni dopo userà Trump. E, come le sue, senza uno straccio di prova. Per un mese B. rimane asserragliato a Palazzo Chigi, senza sloggiare né riconoscere la sconfitta, per impedire a Ciampi di incaricare Prodi prima della scadenza del mandato e rinviare la nomina del nuovo premier al suo successore.
Eogni giorno spara cifre a caso: “1 milione di schede contestate”, “1 milione e 100 mila nulle”, “un calo del 60% nelle bianche” … Il Viminale parla di 43.028 schede contestate alla Camera e 39.822 al Senato. Cioè 82 mila schede in bilico, in grado di rovesciare la nuova maggioranza. Poi Pisanu ammette un piccolo “errore materiale”: i cervelloni del Viminale hanno sbadatamente “sommato le schede contestate alle nulle e alle bianche”. Le contestate alla Camera non erano 43 mila, ma 2.131; e al Senato non 39 mila, ma 3.135. La “svista” ha ventuplicato le contestazioni per Montecitorio e decuplicato quelle per Palazzo Madama. B. però continua imperterrito a non riconoscere la sconfitta. Nemmeno quando il 19 aprile la Cassazione mette fine alla querelle e divide le schede contestate fifty fifty tra Cdl e Unione e Prodi va al governo. B. grida all’“esecutivo illegittimo per le elezioni taroccate” e compra senatori per rovesciarlo. E per due anni invoca il “riconteggio delle schede” anche se è già stato fatto e gli ha dato torto (“ci han fregato almeno un voto per ognuno dei 60 mila seggi”). Tira anche in ballo Pisanu: “Nel 2006 fu una notte di spogli e di brogli, i nostri tecnici ci hanno dato le prove. A mezzanotte il ministro dell’Interno venne da me e mi garantì la nostra vittoria con 100 mila voti in più alla Camera e 250 mila al Senato. Poi è successo qualcosa: l’appello di Fassino ai suoi rappresentanti nei seggi e la difficoltà nel ricevere i voti da Campania e Calabria, che dopo tre ore erano diversi, la Campania segnò la vittoria della sinistra” (10.4.07). “Ci hanno fregato un milione di voti” (30.8.07). Nel 2008 cade Prodi, si rivota e B. ricomincia: “Temiamo brogli ovunque: ci giunge notizia di 150.000 schede stampate in più in Argentina” (1.4.2008). Organizza “lezioni anti-brogli” ai suoi e distribuisce milioni di “normografi anti-brogli” agli elettori. Poi vince lui, dunque tutto regolare. Ma nel 2013 riecco la pippa del 2006. Stavolta Pisanu perde la pazienza: “Non è la prima volta che il presidente Berlusconi fornisce versioni fantasiose della notte elettorale del 2006. Ora basta. Nel 2006 nessuno delle migliaia di scrutatori e rappresentanti di lista berlusconiani sollevò un solo reclamo od obiezione in tutta Italia. Quello scrutinio fu assolutamente regolare, come poi confermò con voto unanime la giunta per le elezioni del Senato” (8.1.13). Stavolta per FI è una débâcle, ma il perchè è semplice: “I brogli della sinistra ci han portato via 1,6 milioni di voti” (17.12.13), per l’esattezza “23 voti a sezione” (3.5.15). E lo ripete a ogni pie’ sospinto nel 2016 e nel ‘17. Come si permette Trump di gridare ai brogli e di non riconoscere la vittoria dell’avversario? Non è liberale né democratico, suvvia.
Non sfotterò Matteo Salvini, quello delle photo opportunity con Donald Trump (che domandava: ma questo chi è?), quello che indossava la mascherina con il logo Trump (fino a quando non è stato battuto da Joe Biden), quello che oggi scarica l’ex amico eversore (come è sempre stato) dicendo “è una follia”. Né rinfaccerò a Giorgia Meloni la sbandata per il guru sovranista Steve Bannon, uno poi accusato di frode e diventato impresentabile perfino per l’inquilino della Casa Bianca (che infatti lo cacciò). E neppure infierirò sulle vedove del presidente “sciagura” (Paul Auster), come Maria Giovanna Maglie in gramaglie, come il mesto Daniele Capezzone, perché la coerenza richiede di sbagliare oggi come si sbagliava quattro anni fa. E mi auguro che adesso non venga in mente a qualcuno di moderare Rete 4, forse l’ultima emittente orgogliosamente trumpiana. Questi sono i miei sentimenti dopo aver visto l’altra notte le sembianze dei sovversivi di Capitol Hill, una massa di esaltati certo, ma anche gli avamposti di un’America la cui disperazione è stata vigliaccamente usata e abusata da quel signore con la chioma arancione. Fu proprio Bannon a ricostruire la genealogia della crisi che ha spinto masse di operai bianchi tra le braccia di Trump. Quando hanno mandato Lehman Brothers in bancarotta, la corruzione della finanza e poi “le banche che hanno guardato da un’altra parte, gli studi legali che hanno guardato da un’altra parte, le società di revisione che hanno guardato da un’altra parte, i media finanziari che hanno distolto lo sguardo”. Questo ha acceso un fiammifero, e Trump è stato l’esplosione. Tutti hanno guardato da un’altra parte e probabilmente starebbero (staremmo) ancora guardando da un’altra parte se non fosse emersa dagli scantinati della società quella moltitudine di facce qualunque, guidate da uno sciamano a torso nudo con un peloso copricapo vichingo, con al seguito un tizio abbigliato da Batman. Tra uno sventolio di bandiere a stelle e strisce ornate con i simboli complottisti di QAnon. Agricoltori senza terra, meccanici senza officine, famiglie senza sussidi, biker con armi automatiche, che per una volta nella vita si sono presi la loro rivincita violando lo studio di Nancy Pelosi, mettendo i piedi sulla scrivania. Sapendo che, prima o poi, verranno a prenderli, uno per uno. Ecco, vorrei che Salvini, Meloni, la Maglie, insieme allo show permanente del Covid governo ladro continuassero a funzionare come promemoria. A ricordarci che i sovversivi se ne sono andati, ma che continuando a guardare da un’altra parte quel Trump, o un altro Trump, potrebbe presto ritornare e sarebbe molto, molto peggio
La virologa, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ha spiegato su Radio Uno che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt'altro che applicabile ai pazienti malati di Covid.
Ha parlato con spavalderia del Covid e dopo avere trascorso solo tre giorni ricoverato al Walter Reed Medical Center ha ripreso i comizi e definito addirittura “una benedizione” il Sars-Cov-2. Ma quello che ha ricevuto Donald Trump per guarire è stato “un trattamento da superman, tipo criptonite”. La virologa Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ospite su Radio Uno a Un giorno da pecora, ha spiegato che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt’altro che applicabile ai pazienti malati di Covid. In pratica, ha detto la scienziata, “gli hanno fatto una dose sostanziosa di anticorpo monoclonale, che è un missile terra-aria. Blocca il virus quando sta entrando nel sangue e quindi non riesce a provocare malattia. Solo che questa medicina non è per tutti. È costosissima. La cura di Trump sarà costata forse un milione di euro. È una cura da presidente”.
“Gli anticorpi monoclonali – spiega la virologa, secondo cui Trump per la gestione della pandemia ha dato “il peggior esempio possibile” – sono dei missili che, però, si producono in piccolissime quantità. E per funzionare devono essere super concentrati. A Trump hanno fatto una dose ‘da pecora’, per non dire da cavallo. Quindi è riuscito a fare l’ultima parte della campagna elettorale ridicolizzando il virus. Le persone che gli credono, e sono tante, hanno visto il loro presidente così spavaldo. Ma non vale! Perché a lui hanno fatto la criptonite“, ironizza Capua. Che ricorda come gli anticorpimonoclonali “sono terapie super speciali. È illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”, conclude.
L’esercizio di diagnosi psichiatriche a distanza è ripreso a pieno ritmo dacché Donald Trump, a urne ancora aperte, si è messo a twittare: “Ho vinto queste elezioni, e di molto”. Dichiarandosi vittima di una macchinazione pianificata addirittura con milioni di schede false, senza riscontro alcuno.
Anche in Italia non sono mancate interpretazioni di autorevoli esperti sul delirio di onnipotenza da cui sarebbe afflitto l’inquilino che si rifiuta di sloggiare dalla Casa Bianca. Lo scrittore Gianrico Carofiglio, sul Domani, chiama in causa gli specialisti di salute mentale per sostenere che Trump crederebbe sul serio di avere vinto, in quanto affetto da una sindrome che lo induce a adattare la realtà a una visione grandiosa di sé. Lo psicanalista Massimo Recalcati, su La Stampa, ricorre alla categoria classica della ferita narcisistica: Trump rincorrerebbe affannosamente l’immagine ideale di se stesso nello specchio del suo narcisismo. Ammetto di non avere competenze in merito, ma ci andrei piano. La campagna di delegittimazione del voto americano è scattata con perfetto tempismo in base a un calcolo assolutamente razionale. Trump si accinge a fronteggiare una mole tale di indagini giudiziarie e fiscali che gravano su di lui, una volta spossessato dell’immunità che la carica istituzionale gli ha garantito, da obbligarlo a predisporre una forza d’urto sufficiente a proteggerlo in futuro. La sopravvivenza del trumpismo come movimento antipolitico organizzato è l’unico salvacondotto su cui potrà contare, per non uscire stritolato dall’avventura presidenziale.
Ricordate quando Berlusconi impose ai suoi centurioni di coprirsi di ridicolo votando che la minorenne Ruby fosse nipote di Mubarak? Se avesse ammesso la propria sconfitta, Trump sarebbe politicamente già morto. Sbaglierò, ma a me pare tutt’altro che scemo. Ciò lo rende ancor più pericoloso.
“Non esiste nessuna contea degli Stati Uniti nelle quali ci siano stati più voti che votanti. L’informazione fornita da Matteo Salvini venerdì scorso, in chiusura di questa trasmissione, era una notizia falsa. Punto e basta”. Questa puntuale rettifica di Simone Spetia, conduttore di 24 Mattino su Radio 24, rappresenta una difesa efficace del diritto vitale dei cittadini alla corretta informazione, ora più che mai minacciata dalla bomba atomica delle fake news. Non è difficile immaginare, infatti, cosa potrebbe diventare avanti di questo passo la sala ovale della Casa Bianca nei settanta giorni che separano l’America e il mondo dall’ingresso di Joe Biden: una centrale di contaminazione permanente e ossessiva della realtà dei fatti. A meno che, come molti si augurano (ma pochi ci sperano) Donald Trump non ascolti chi, nel Partito Repubblicano e perfino nelle stanze accanto, starebbe cercando di convincerlo ad accettare il verdetto delle urne e a ritirarsi in buon ordine senza gettare altra benzina sul fuoco. Perché la strategia presidenziale della menzogna, oltre a fomentare le milizie dei pazzoidi che si aggirano per l’America muniti di armi automatiche, può motivare i numerosi avvelenatori di pozzi che prosperano dappertutto sul negazionismo complottista. Non desta infatti grande sorpresa che il cosiddetto leader italiano impegnato a spargere disinformazione sulla legittimità del voto negli Stati Uniti, sia il medesimo che sulla pericolosità del Covid ha detto tutto e il contrario di tutto, togliendosi e mettendosi la mascherina. Giorgia Meloni ha ragione quando sostiene che il populismo non è affatto finito, come dimostra l’accresciuto consenso ottenuto da Trump. E che la sinistra, oltre a esultare per la vittoria di Biden farebbe bene a non descrivere l’avversario come “un mostro pericoloso”, accettando invece di “confrontarsi sulle proposte” con partiti e movimenti che al di qua e al di là dell’oceano continuano a raccogliere un vasto consenso popolare. Altro discorso però è l’intossicazione delle false notizie di cui gli stregoni del populismo sovranista (e certi apprendisti nostrani) si servono per i loro scopi, e i loro spot. Si può fare un tifo sfegatato per Trump senza per questo negare la realtà, come Edward Luttwak che su La Verità dice: “Veri e propri brogli non ne vedo, al massimo qualche irregolarità qua e là”. Anche per i dottor Stranamore c’è un limite all’indecenza.
Donald Trump, un uomo ricco e senza reputazione, nelle elezioni presidenziali del 2016 si è messo alla testa dei repubblicani, con un linguaggio folle e un comportamento talmente volgare da attrarre di colpo una forte attenzione. Da allora quei repubblicani si sono rapidamente trasformati, come in una strana fiaba, da conservatori rigorosi, preoccupati della protezione della ricchezza e dunque duri con i nemici ma aperti ai buoni accordi col mondo, in un vasto corteo di gente in cerca di decisioni assolute, qui, adesso, in America, senza perdere tempo a cercare amici, portando in dono ossessioni e false credenze.
Primi sono arrivati i portatori di ossessioni che sembrano religiose (aborto, gay, gender). Ma è gente che, se necessario, uccide. Molti medici sono stati uccisi perché ginecologi laici. Arrivano subito i fondamentalisti di diversi cristianesimi che vogliono scuole senza Storia e senza Scienza, fondate su una loro interpretazione della Bibbia. Si arruolano frammenti di un oscuro e sommerso pensiero americano, come i QAnon, dediti alla invenzione di complotti, i Wolverine Watchmen, che secondo l’Fbi stavano preparando il rapimento della governatrice del Michigan, i ProudBoys, che Trump stesso ha citato, raccomandando loro di “tenersi pronti e restare in attesa” durante il primo dibattito con Biden. Intanto erano già entrate nel corteo di Trump due grandi forze delle rivolte popolari apparentemente improvvisate: il negazionismo – che è un rigetto violento della cultura e dell’informazione e adesso ha come nemico la pandemia che “non esiste” – e il vasto schieramento del razzismo.
Il ginocchio del poliziotto sul collo del cittadino George Floyd, condannato a morte perché nero su un marciapiede di Minneapolis, resterà il simbolo delle elezioni americane del 2020. Mossa atroce e ben calcolata. I neri infatti si sono ribellati (Black Lives Matter) e la televisione poteva filmare afroamericani armati nelle strade d’America. Ci sono certo state persone prudenti che hanno deciso di non votare contro Trump, che, in circostanze difficili, è uno forte e sa intervenire. Nonostante ciò i democratici forse hanno vinto, contro la violenza aggressiva e la misteriosa malattia del presidente, curato solo da medici militari e salvato da una guarigione istantanea, come se il Walter Reed Hospital di Washington fosse Lourdes. Certo, nel progressivo affermarsi del partito democratico nel corso dello spoglio elettorale, la folla di Trump ha cominciato a sentire un odore per lei disgustoso di normalità: le frontiere con il Messico non erano più per gli Usa un pericolo così grave da rendere necessario l’invio di truppe e la crudeltà di strappare i bambini alle madri che tentavano di passare il confine. Certo, fuori della bottega di Trump piena di atomiche, c’era il resto del mondo, e la possibilità di tentare di ristabilire rispettosi legami.
Pensate come cambiano i rapporti se nel grande Paese che ha sconfitto il fascismo – il Paese di Roosevelt, di Kennedy, di Martin Luther King, di Barack Obama – viene rimossa la targa “Make America great again”, che identifica un Paese avaro, isolato, circondato di dazi, amico di Putin, con il debito nelle mani dei cinesi e neppure un sospetto che esistano l’Africa e l’America Latina. O anche solo l’Unione europea.
L’invenzione di Trump è stata quella di scatenare e tenere vivo un continuo scontro con il buon senso e la normalità psichica (“Ma lei non è lo zio matto, lei è il presidente degli Stati Uniti”, gli ha gridato una intervistatrice coraggiosa), mantenendo vivo il divertimento della sua folla. L’errore dei democratici è stato di comportarsi come se Trump fosse davvero il presidente degli Stati Uniti e non una persona fuori equilibrio, chiedendo troppo tardi una verifica dello stato mentale dell’uomo che stava recando danni irreversibili all’America. Nonostante la guarigione miracolosa, il Coronavirus è stato la buccia di banana su cui è scivolato il mago asserragliato nella Casa Bianca. Ha fallito nel negare l’epidemia, i suoi malati, le sue terapie intensive, i suoi morti. Ha fallito nel tentare di passare oltre. Lo ha scosso e spaventato la perdita del controllo divertito e assoluto di cui ha goduto. I democratici hanno vinto bene (senza perdere dignità) e hanno vinto male (non erano a fianco dei neri colpiti e non hanno fatto nulla per impedire le squadre armate e ricordare l’insegnamento di Luther King: “La nonviolenza è la strada”). E per questo ci saranno ben pochi neri proprio nel Parlamento per cui hanno rischiato. Biden, quando avrà vinto, governerà un Paese di macerie morali e istituzionali. Ma lascerà un segno per i futuri bambini delle scuole americane: da uomo inerme, con un partito malconcio, con le sue brevi corse al microfono dei “rallies” ha dato lo spintone a Trump.