Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 19 ottobre 2024
Lo scorpione blu.
domenica 22 settembre 2024
Via cataratta senza operarsi, dal segreto di uno scoiattolo possibile farmaco.
Del resto la cataratta altro non è
che un'opacizzazione del cristallino dell'occhio, che si verifica comunemente
nelle persone con l'avanzare dell'età. Lo studio condotto sullo scoiattolo di
terra a 13 strisce e sui ratti potrebbe rappresentare una possibile strategia
per trattarla senza intervento chirurgico, facilitando l'attività di contrasto
contro una causa comune di perdita della vista. La chirurgia è "efficace,
ma non priva di rischi" e "gli scienziati hanno cercato a lungo
un'alternativa" al 'bisturi', spiega Xingchao Shentu, chirurgo della
cataratta e co-ricercatore principale della Zhejiang University in Cina. Anche
perché, ricorda, "in alcune parti del mondo la mancanza di accesso alla
chirurgia della cataratta è un ostacolo alle cure, e ciò fa sì che la cataratta
non trattata sia una delle principali cause di cecità in tutto il mondo".
Lo studio è stato pubblicato sul
'Journal of Clinical Investigation' e descrive questa nuova scoperta ottenuta
nell'ambito di una ricerca in corso al National Eye Institute (Nei), centro dei
Nih, realizzata coinvolgendo lo scoiattolo di terra a 13 strisce. In questo
animale le cellule fotorecettrici sensibili alla luce nella retina sono per lo
più coni, il che lo rende utile per studiare proprietà come la visione dei
colori. Inoltre, la capacità del roditore di resistere a mesi di freddo e
stress metabolico durante il letargo lo rende un modello per gli scienziati
della vista, per studiare una serie di malattie degli occhi. La capacità di
rendere l'opacità del cristallino reversibile è stata osservata negli
scoiattoli protagonisti dello studio, mentre nei ratti (specie non ibernante)
no. Questi ultimi sviluppavano cataratte a basse temperature, che non si
risolvevano con il riscaldamento.
La formazione di cataratta negli
animali in letargo esposti a basse temperature, osservano gli esperti, è
probabilmente una risposta cellulare allo stress da freddo ed è uno dei tanti
cambiamenti che subiscono i loro corpi mentre i tessuti si adattano alle
temperature gelide e allo stress metabolico. Gli esseri umani non sviluppano
cataratta quando esposti a basse temperature. "Comprendere i fattori
molecolari che determinano questo fenomeno di cataratta reversibile potrebbe
indicarci la direzione verso una potenziale strategia di trattamento",
afferma il co-ricercatore principale dello studio Wei Li, ricercatore senior
nella sezione di neurofisiologia retinica del Nei.
Con l'avanzare dell'età, la
cataratta si forma quando le proteine nel cristallino iniziano a ripiegarsi in
modo errato e a formare cluster che bloccano, disperdono e distorcono la luce
mentre passa attraverso il cristallino. Per esplorare le cataratte reversibili
dello scoiattolo di terra a livello molecolare, il team ha sviluppato in
laboratorio un modello di cristallino usando cellule staminali ingegnerizzate
da cellule di scoiattolo. Utilizzando questa piattaforma, i ricercatori sono
arrivati a scoprire che la proteina RNF114 era significativamente elevata
durante la fase di riscaldamento nello scoiattolo di terra, rispetto al ratto
non in letargo. In precedenza era stato dimostrato che RNF114 aiutava a
identificare vecchie proteine e a facilitarne la degradazione. E in effetti,
quando gli scienziati hanno pretrattato con la proteina i modelli di
cristallini, si è verificata una rapida scomparsa della cataratta al momento
del riscaldamento.
Queste scoperte, evidenziano, sono
la prova di principio che è possibile indurre la rimozione della cataratta
negli animali. In studi futuri, il processo dovrà essere perfezionato. Ma
questo meccanismo viene ritenuto promettente, e, fanno notare gli autori, è
anche un fattore importante in molte malattie neurodegenerative.
mercoledì 29 maggio 2024
L’ortaggio che previene il diabete, le malattie dei reni e l’asma.
Ha tanti nomi diversi, ed è una fonte ricchissima di benefici: l’ocra, conosciuta anche come gombo, è un ortaggio di origine tropicale molto usato nella medicina tradizionale. Contiene un alto contenuto di vitamine C, K, A e minerali, ma anche antiossidanti come catechine, rutine e quercetina.
L’ocra contiene fibra, che aiuta a favorire la digestione e a regolare i livelli di zuccheri nel sangue. Essendo ricco di beta-carotene, questo ortaggio aiuta a prevenire malattie degli occhi come glaucomi e cataratte.
La vitamina K, invece, aiuta a rinforzare le ossa e ad evitare l’osteoporosi. L’ocra è ottima anche per prevenire malattie respiratorie come asma, bronchite e polmonite.
Inoltre, contribuisce ad abbassare il colesterolo cattivo, è ricca di ferro e può combattere efficacemente la stitichezza.
Per godere dei benefici dell’ocra, taglia l’estremità dell’ortaggio ed effettua varie incisioni lungo tutta la sua superficie. Immergilo in un bicchiere pieno d’acqua e lascialo tutta la notte. Bevi il giorno dopo prima di fare colazione.
venerdì 4 agosto 2023
Gli scienziati hanno sviluppato una pillola che potrebbe eliminare tutti i tipi di tumori.
La nuova molecola - nome in codice AOH1996 - prende di mira una proteina presente nella maggior parte delle neoplasie che le aiuta a crescere e moltiplicarsi nel corpo. E significativo perché questa proteina - l'antigene nucleare cellulare proliferante (PCNA) - era precedentemente ritenuta "non controllabile".
Il farmaco è stato testato in laboratorio su 70 diverse cellule tumorali, comprese quelle derivate dal cancro al seno, alla prostata, al cervello, alle ovaie, al collo dell'utero, alla pelle e ai polmoni. Ed è risultato efficace contro tutte.
La pillola innovativa è il culmine di 20 anni di ricerca e sviluppo da parte del City of Hope Hospital di Los Angeles, uno dei più grandi centri oncologici d'America.
[#IlMessaggero] #cancro #tumore #cura
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venerdì 23 settembre 2022
Così il virus dell’herpes può sconfiggere il cancro: i risultati promettenti nello studio clinico in fase iniziale.
Nonostante i test sull’uomo siano cominciati da poco i tassi di risposta sono eccezionalmente positivi.
Arriva dal Regno Unito la notizia di nuovo tipo di terapia contro il cancro. Quest’ultima si avvarrebbe di una forma indebolita del virus dell’herpes labiale, l’herpes simplex, per infettare e distruggere le cellule dannose. Nonostante saranno necessari studi più ampi e più lunghi, la Bbc parla di risultati molto promettenti nei primi test sull’uomo: il cancro di un paziente è scomparso, mentre altri hanno visto i loro tumori ridursi. Il 39enne Krzysztof Wojkowski, a cui nel 2017 era stato diagnosticato un cancro alle ghiandole salivari, ha per esempio deciso di prendere parte allo studio di fase uno sulla sicurezza in corso, condotto dall’Institute of Cancer Research presso il Royal Marsden NHS Foundation Trust. Un breve ciclo di terapia del virus, a base di iniezioni ogni due settimane, sembra aver eliminato il suo cancro.
Risultati promettenti.
Le iniezioni, praticate direttamente nel tumore, agirebbero in due modi: invadendo le cellule cancerose e facendole scoppiare, e attivando parallelamente il sistema immunitario. Circa 40 pazienti hanno provato il trattamento come parte dello studio. Ad alcuni è stata somministrata l’iniezione del virus, chiamata RP2, da sola. Altri hanno anche ricevuto un altro farmaco antitumorale, chiamato nivolumab. I risultati mostrano che 3 pazienti su 9 trattati solo con RP2, incluso Krzysztof, hanno visto i loro tumori ridursi. Anche sette su 30 che avevano ricevuto un trattamento combinato sembravano trarne beneficio. Gli effetti collaterali, come la stanchezza, sono stati generalmente lievi. «È raro vedere tassi di risposta così buoni negli studi clinici in fase iniziale», ha dichiarato il professor Kevin Harrington, a capo della ricerca.
https://www.open.online/2022/09/23/regno-unito-studio-herpes-cancro/
domenica 29 agosto 2021
Monoclonali: La cura c’è, tutto il resto invece manca. - Thomas Mackinson
Autunno. Medicina territoriale e alti costi: perché quella che può essere una svolta stenta a partire.
La sola cura per il Covid-19 fino a oggi ufficialmente riconosciuta è finita dentro un imbuto tipicamente italiano da cui esce col contagocce.
A sette mesi dall’autorizzazione all’uso, i pazienti trattati con farmaci a base di anticorpi monoclonali sono infatti stati soltanto 7.500 sparsi tra tutte le regioni d’Italia.
Alcune come Lazio, Veneto e Toscana svettano nella classifica; altre non brillano affatto come l’Umbria, che in una settimana ha registrato 800 nuovi contagi e un solo monoclonale somministrato.
Usa e Germania corrono Noi siamo in ritardo.
Nel complesso, la via italiana ai monoclonali – unica cura autorizzata al mondo – procede tra strappi e ritardi. Si era aperta l’8 febbraio 2021 quando, superando molte resistenze, l’Agenzia italiana del farmaco ne aveva infine autorizzato l’uso, anche se soltanto in emergenza. Le aspettative però si sono presto infrante sui numeri: in questo lasso di tempo li abbiamo usati cinque volte meno che gli Stati Uniti, tre volte meno della Germania. E vai a sapere quanti pazienti si sarebbero potuti curare e salvare.
Il sottoutilizzo, va detto, non è dovuto alle risorse, perché già a febbraio il ministero della Salute aveva reperito quelle necessarie agli acquisti a valere su un fondo da 400 milioni: con una media di mille-duemila euro a fiala, a seconda del farmaco, si potevano garantire 200 mila infusioni.
La determina dell’Aifa. Si allarga la platea.
Perché in sette mesi ne sono state fatte 26 volte meno? Per quell’imbuto fatto di inerzie, burocrazia e disorganizzazione sanitaria che continua a minare l’uscita dal tunnel. Per tentare di rovesciarlo, l’Agenzia del Farmaco prova oggi ad allargare la platea dei soggetti candidabili all’infusione. Il 4 agosto ha emanato una determina che modifica i registri cui accedono i medici per le prescrizioni. I monoclonali valgono ancora per i pazienti non ospedalizzati ad “alto rischio di progressione a Covid19 severo”, ma i vincoli sui fattori di rischio sono diventati meno stringenti.
Più precisamente, la vecchia formulazione recitava: “Si definiscono ad alto rischio i pazienti che soddisfano almeno uno dei seguenti criteri”, e giù l’elenco delle patologie (immunodeficienza, malattie cardiovascolari, diabete mellito e così via).
Nella nuova, la frase lascia il posto a un più generico “alcuni dei possibili fattori di rischio sono…”, rimettendo così al medico il compito di selezionare il paziente idoneo alla cura.
Il Veneto su tutti Ma i numeri sono bassi.
Esulta per questo il presidente del Veneto Luca Zaia: “Sarà possibile somministrare gli anticorpi monoclonali a tutti, mentre prima, in base alle indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco erano destinati solo a chi aveva anche altre patologie, ora invece le cure con i monoclonali sono aperte a tutti”.
E per una ragione fondata. Zaia sa che il primato della sua regione, che vanta il 50% di tutte le somministrazioni fatte in Italia, è in realtà ben poca cosa in termini assoluti: solo 72 richieste di prescrizione a fronte di 3.873 nuovi contagi in una settimana. Per questo il leghista tiene a far sapere ai veneti di aver informato tutte le aziende ospedaliere della buona novella.
Assistenza domiciliarePunto debole del sistema.
Le somministrazioni a singhiozzo rivelano tutta la debolezza della medicina territoriale, quella che dovrebbe velocemente diagnosticare, valutare l’eleggibilità al trattamento e organizzare l’infusione endovenosa in strutture sanitarie autorizzate.
Su questo fronte, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, non si sono registrati miglioramenti, anche se l’ultimo monitoraggio disponibile attesta un aumento delle prescrizioni (389 contro 302 della settimana precedente). Il punto è che va così coi preparati di prima generazione, quelli che richiedono un’infusione di un’ora in strutture ospedaliere organizzate, figurarsi con quelli di seconda generazione, somministrabili attraverso una semplice iniezione intramuscolo direttamente a casa dei pazienti.
Non c’è un protocollo. Nuovo ritardo in vista.
Diverse multinazionali e centri di ricerca, anche italiani, stanno mettendo a punto questi farmaci che, più semplici da somministrare, potrebbero ridare slancio all’arma spuntata che riduce infezioni e ricoveri e funge anche da barriera temporanea al virus e alle sue multiformi variazioni. I primi dovrebbero arrivare in autunno. A oggi però non c’è ancora alcuna determina Aifa relativa alla formulazione intramuscolo o protocolli nazionali per l’uso allargato in via domiciliare. Il prossimo ritardo, dunque, è già dietro l’angolo.
ILFQ
domenica 18 luglio 2021
“Così hanno fatto la cresta sui soldi per curare i bimbi”. - Vincenzo Bisbiglia
Roma, Olbia, Bangui: nei verbali nuove “ombre” sul denaro destinato agli ospedali pediatrici. Dal Fondo calciatori al concerto di Baglioni.
C’è un filo rosso nelle carte dell’inchiesta sui fondi del Vaticano, quello legato ai soldi destinati agli ospedali pediatrici. Strutture spesso costrette a ricorrere a donazioni per acquistare macchinari o finanziare ricerche all’avanguardia per la cura dei bambini. Dalla Sardegna a Roma fino al Centrafrica, agli atti del Promotore di Giustizia d’Oltretevere ci sono due verbali chiave. Il primo riguarda gli interrogatori del 9 novembre e del 7 dicembre 2020 resi da Enrico Crasso, il contabile che per anni ha gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticana, imputato per corruzione e peculato nell’ambito del processo che inizierà presso la Santa Sede il 27 luglio. L’altro risale al 31 agosto 2020 e contiene le dichiarazioni spontanee di monsignor Alberto Perlasca, l’ex braccio destro e oggi principale accusatore del cardinale Angelo Becciu, ex terza carica dello Stato vaticano, anche lui a processo con le accuse di peculato e abuso d’ufficio. Perlasca, inizialmente indagato, è stato invece prosciolto proprio in seguito alla collaborazione offerta ai pm.
Centro analisi soldi al fondo calciatori a costo triplicato.
Fra le accuse a Crasso c’è la sottoscrizione nel 2020 di un preliminare di vendita con la Sport Invest 2000 per l’acquisto di un immobile in via Gregorio VII a Roma, al costo di 3,9 milioni di euro, “a fronte di un valore effettivo di 1,3 milioni”, si legge nel capo d’imputazione. La Sport Invest gestisce un fondo denominato “Fondo calciatori a fine carriera”, in quel momento in grossa difficoltà economica. Crasso a verbale dichiara che “Perlasca mi segnalò l’esigenza di acquistare un immobile da adibire come laboratorio analisi per il Bambin Gesù”, il noto ospedale pediatrico romano. Quello che rilevano gli inquirenti è che Crasso era anche il gestore esterno del Fondo, dunque in potenziale conflitto d’interessi. “Sono miei clienti dal 1995 – ha ammesso il contabile – me li presentò il marito della professoressa Severino”, intesa Paola Severino, estranea all’inchiesta e avvocato rappresentante di parte civile della Santa Sede. L’affare non si concretizzerà.
Baglioni perlasca: “ombre sull’evento in aula nervi”.
Fondamentali, a detta degli inquirenti, per cristallizzare le accuse, sarebbero state le dichiarazioni di Perlasca, prelato diretto sottoposto di Becciu all’epoca in cui era Sostituto alla Segreteria di Stato. Fra le “ombre” gettate sulla gestione del cardinale emerge il concerto di beneficenza di Claudio Baglioni (totalmente estraneo all’inchiesta) il 16 dicembre 2016, in un’aula Nervi gremitissima, con quasi 12mila persone presenti. L’incasso doveva essere destinato al restauro di un ospedale pediatrico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. “Alla Segreteria di Stato arrivarono 600 o 700.000 euro – scrive Perlasca nella memoria presentata ai pm vaticani – Non mancai di rappresentare a mons. Becciu tutta la mia delusione: tanto clangore per soli 700.000 euro!”. Ancora: “Non osai fare cattivi pensieri, ma le cose mi rimanevano ugualmente non chiare (…) I conti non tornano”. E poi: “La sig.ra Enoc (Mariella Enoc, direttrice del Bambin Gesù, ndr) continuava a insistere nel dire di darle i soldi, perché il Papa le aveva detto di aver dato alla Segreteria di Stato una certa cifra per l’ospedale. In ufficio risultavano però 2 milioni di euro di meno”. Secondo Perlasca, “sono stati rifatti i conti più e più volte” ma “non sono mai tornati e alla fine la cosa venne lasciata cadere”. Alla fine l’ospedale verrà realizzato con 3 milioni donati dal Papa, 750mila dalla Gendarmeria (l’incasso del concerto) e 1 milione da una donazione privata da Novara, città natia di Enoc.
Mater olbia “hanno lucrato sui fondi arrivati dal qatar”.
Perlasca sferra l’attacco diretto a Becciu su un altro tema, l’ospedale pediatrico Mater Olbia. Una storia travagliata, che inizia nel 2012, quando l’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, decide di investire attraverso la Qatar Foundation per replicare in Sardegna il Bambin Gesù di Roma. Dice Perlasca a verbale: “Ci volevano 40 milioni per acquistare l’immobile e 40/45 milioni per renderlo funzionale. Mi si assicura che i fratelli Becciu fecero il loro sporco guadagno su quest’ultima cifra, mediante appalti e subappalti a ditte ogni volta più scadenti e opache, con ricarichi del 10/15 per cento”. Il riferimento è alla falegnameria di Giuseppe Becciu (non indagato), fratello del cardinale Angelo, che secondo le dichiarazioni a verbale di Perlasca, avrebbe lucrato su vari appalti, dall’abbellimento della Nunziatura Apostolica a Cuba (“voleva costruire un pronao davanti alla porta per fare in modo che gli ambasciatori non si bagnassero (…), ma a Cuba piove una volta l’anno”) fino al “restauro dell’appartamento cardinalizio in cui risiede il card. Becciu”, dice Perlasca il 31 agosto 2020.
Becciu difesa: “calunnie, smonteremo le accuse”.
Le accuse rese a verbale da Perlasca non sono state tutte tradotte dagli inquirenti in capi d’imputazione. Per questo gli avvocati dell’ex prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi le reputano “completamente infondate e sganciate dalla realtà storica”, rese “da chi rilasciava dichiarazioni da imputato senza obblighi di verità”. Ovvero: “Tutte calunnie”. Non solo. L’avvocato Fabio Viglione, che difende Becciu, assicura al Fatto che “i bonifici evidenziati dall’accusa” pagati dalla Segreteria di Stato alla Diocesi di Orzinuovi e poi alla Cooperativa Spes di Antonio Becciu (fratello di Angelo, ndr) “hanno una spiegazione perfettamente lecita e addirittura meritoria, finalizzati all’aiuto di persone gravemente bisognose. Daremo piena dimostrazione in aula”.
“Sistema marcio” Il petrolio e il palazzo di Londra.
Nel 2012 la Santa Sede voleva investire circa 250 milioni in Falcon Oil, trust partner di Eni impegnato nella ricerca del petrolio in Angola. L’affare poi è saltato e i soldi sono stati destinati all’acquisto di un prestigioso edificio nel quartiere Chelsea a Londra: il valore del palazzo è crollato e la gestione è stata oggetto di una presunta truffa con ricatto ai danni del Vaticano e – ipotizzano i pm – nonostante l’intervento diretto di Papa Francesco. Da questo episodio è nata l’inchiesta che il 3 luglio scorso ha portato al rinvio a giudizio di 10 persone, accusate a vario titolo di corruzione, peculato, abuso d’ufficio, truffa e estorsione. Fra loro diversi alti prelati funzionari della Segreteria di Stato del Vaticano, fra cui il reggente dell’ufficio documentazione, Mauro Carlino e, soprattutto, l’ex Sostituto agli Affari Generali, Angelo Becciu, quest’ultimo accusato di peculato e abuso d’ufficio. Fu proprio Becciu, nel 2012, ad avviare la valutazione del maxi-investimento nel blocco 15/06 offshore in Angola, su proposta del suo contatto Antonio Mosquito. Ma dopo una prima valutazione positiva, la due diligence affidata al finanziere Raffaele Mincione diede esito negativo. Mincione spinse così la Santa Sede, nel 2014, a impegnare parte di quei fondi nell’acquisto del palazzo in Sloane Avenue, ex magazzino di Harrods, attraverso la partecipazione al fondo Athena Capital, sempre riconducibile a Mincione. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, quando l’immobile iniziò a svalutarsi e la Segreteria di Stato spinse per uscire dall’affare, entrò in gioco il broker molisano Gianluigi Torzi, che nel frattempo – sempre per i pm – aveva rifilato azioni carta straccia al Vaticano, ottenendo a inizio 2019 una buonuscita da 15 milioni, oggetto della presunta estorsione, per chiudere la partita.
ILFQ
venerdì 16 luglio 2021
Leucemia, la nuova terapia Car-t ha grandi potenzialità. Forse la cura che aspettavamo da anni. - Elisa Liberatori Finocchiaro
Si chiama “Car-T” ed è una nuova possibilità terapeutica per i pazienti colpiti da tumori del sangue, in particolare da linfomi e da leucemia acuta. L’acronimo “Car-T” deriva dall’inglese Chimeric antigen receptor T-cell e identifica una procedura di immunoterapia cellulare adottiva in cui i linfociti T vengono raccolti, geneticamente modificati per riconoscere le cellule neoplastiche e poi reinfusi per colpire selettivamente il tumore. Tanti ne parlano in questi mesi perché i risultati che sta ottenendo sono molto importanti. Una terapia che potrebbe essere somministrata, solo in Europa, a circa 8mila pazienti idonei. Persone che non hanno altri possibili trattamenti da ricevere, dato il fallimento di tutte le terapie disponibili.
È una cura complessa, estremamente personalizzata, che viene eseguita negli Stati Uniti: costa tra i 350mila e i 450mila dollari a paziente, ma le autorità europee e l’Agenzia italiana del farmaco hanno già dichiarato che nel nostro Paese i prezzi saranno più bassi.
È opinione condivisa che si sia di fronte a un trattamento con grandi potenzialità – qui ne parla un ricercatore della Fondazione Gimema, finanziata dall’Ail, Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma -, forse la cura che da anni tanti malati attendevano. Ma è ancora difficile determinare come e con quali tempi questa strategia terapeutica potrà essere applicata a tutti i pazienti che ne avrebbero necessità.
In queste settimane tante persone stanno creando delle raccolte fondi sul sito GoFundMe per poter avere il denaro utile per accedere alla terapia. Due in particolare le storie emblematiche arrivate sulla piattaforma di crowdfunding: Soraya e Calogero.
1. Soraya è una giovane donna di 33 anni nata in Andalusia. Soffre di leucemia linfoblastica acuta, un tipo di cancro molto resistente. La sua salute adesso è così fragile che l’unica opzione presa in considerazione dai medici è di sottoporla proprio alla Car-T. Per questo motivo ha lanciato una raccolta fondi che in pochi giorni è diventata virale sui social in Spagna.
2. Calogero è un 27enne studente di Economia di Nissoria, in provincia di Enna. Due anni fa ha scoperto di avere un linfoma aggressivo, resistente a più linee di terapia: nemmeno la chemio ha avuto un effetto rilevante. Per lui l’ultima possibilità di cura risiede nella “Car-T”, terapia economicamente fuori dalla portata della sua famiglia. Le sorelle di Calogero hanno attivato una raccolta fondi sociale che in tre giorni è arrivata a 100mila euro grazie alle donazioni di quasi 6mila persone.
ILFQ
giovedì 28 gennaio 2021
Scoperto il 'tallone d'Achille' delle cellule tumorali.
Cellule metastatiche di melanoma (fonte: Julio C. Valencia, NCI Center for Cancer Research, National Cancer Institute, NIH) |
E' in una modifica a livello genetico, può essere usata come bersaglio per colpire il cancro.
Individuato il tallone d'Achille del cancro: si tratta di una modifica che subiscono a livello genetico le cellule tumorali, detta aneuploidia, che può essere usata come bersaglio per colpire il tumore attraverso alcune molecole.
La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, si deve ad un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'università di Tel Aviv, a cui hanno partecipato anche l'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e l'Università Statale di Milano.
L'aneuploidia è un cambiamento nel numero delle copie di cromosomi: tutte le cellule umane hanno 46 cromosomi, mentre quelle tumorali ne hanno spesso di più o di meno. Finora però questo segno distintivo del cancro non era mai stato sfruttato come bersaglio di cura, perché mancavano gli strumenti per creare dei modelli in vitro di cellule aneuploidi.
"Abbiamo dimostrato che l'aneuploidia, che si trova nel 90% dei tumori solidi e nel 75% di quelli ematologici, può essere di per sé un bersaglio - chiarisce Stefano Santaguida, uno dei ricercatori - Non solo: abbiamo trovato delle molecole, gli inibitori del cosiddetto Sac (spindle assembly checkpoint), capaci di interferire con l'aneuploidia e sfruttarla per mirare e colpire le cellule cancerose".
I ricercatori dello Ieo hanno creato "delle librerie di linee cellulari aneuploidi - spiega Marica Ippolito, del gruppo di ricerca- e dimostrato un'alta dipendenza delle cellule aneuploidi dai geni coinvolti nel corretto funzionamento del Sac, il macchinario cellulare deputato alla divisione cellulare, attraverso cui ogni cellula genera due cellule figlie.
Inibendo il Sac, le cellule aneuploidi muoiono.
Si apre quindi la prospettiva di usare questi inibitori come terapia anticancro". I ricercatori stanno anche cercando di capire se l'aneuploidia c'entri in qualche modo con lo sviluppo di resistenze alla chemioterapia.
giovedì 17 dicembre 2020
Il salvavita “italiano” che noi non usiamo. - Thomas Mackinson
Il monocolonale Usa prodotto a Latina.
Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina escono furgoni carichi di questi farmaci, destinati però a salvare pazienti americani, non gli italiani. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. “Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: “Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”. Il tutto a 1.000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.
Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono. Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente, ma disponibile solo fra 4-6 mesi. Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove: fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”, nel quale 10 mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo gratuito. Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.
Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly. La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase 2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli Usa. I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine. Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.
Dal 9 novembre, quando l’Fda (l’Agenzia Usa del farmaco) ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa si aspetta il via libera dell’Ema (l’Agenzia europea) che non autorizza medicinali in fase di sviluppo. Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi Ue di procedere all’acquisto e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo. A breve toccherà all’Ungheria. E l’Italia? Aspetta. Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio, la società di Indianapolis ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane.
Il 29 ottobre in riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri, Gianni Rezza per il ministero della Salute; Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma; il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly. Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10 mila dosi gratuite del farmaco che negli Usa ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario: una volta che l’Fda l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.
L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto, forse per una rigida adesione alle regole di Aifa ed Ema che non hanno però fermato la rigorosa Germania. Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte. Sui monoclonali da marzo il governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena, in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli. La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo nella primavera del 2021. A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone, non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese. “Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad Aifa”, taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un possibile conflitto di interessi: “Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.
Quando Fda autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito, ma deve attenersi al prezzo della casa madre. Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto. Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del Dg dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza. Si parla di prezzo e di dosi, ma il negoziato si ferma.
L’Aifa e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono: finché non c’è l’autorizzazione Ema non si va avanti. Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati. “Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa: “Con tanti morti e ospedalizzati, valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”.
Per il professor Clementi, siamo al paradosso. “È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone. Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro. Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’Aifa”.
Certo, una soluzione al 100% italiana garantirebbe autosufficienza e prelazione nell’approvvigionamento. Da Sesto Fiorentino, però, rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio, avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina Bsp Pharmaceutical. “Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa, ma anche in Italia”, esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca. Nove mesi dopo, invece, da Latina il farmaco va solo all’estero.
domenica 6 dicembre 2020
Bimba di 6 mesi salvata con il farmaco più costoso al mondo.
Affetta da atrofia muscolare spinale (Sma). La terapia corregge il problema genetico, 1,9 milioni di euro per singolo trattamento.
L'atrofia muscolare spinale di Tipo 1 è una gravissima malattia genetica neuromuscolare, insorge subito dopo la nascita e causa una progressiva debolezza muscolare che compromette respirazione e deglutizione, causando la morte entro 2 anni.
Il farmaco somministrato al Santobono di Napoli, considerato il più costoso al mondo - 1,9 milioni di euro per singolo trattamento - corregge il problema genetico, determinando la completa regressione della malattia. Questa terapia, infatti, si basa su un vettore virale reso inoffensivo e utilizzato come navetta per veicolare il gene umano mancante nelle cellule motorie del midollo spinale, permettendo di produrre la proteina mancante in questa malattia.
Dice Anna Maria Minicucci, commissario straordinario dell'azienda Santobono Pausilipon "Ringrazio la Regione, il Servizio farmaceutico diretto da Ugo Trama e tutto il personale sanitario infermieristico ed amministrativo dell'azienda che si è impegnato per raggiungere questo importante risultato di cura ed innovazione per una grave malattia genetica. Questo traguardo si aggiunge ai molti conseguiti in questi anni dall'Aorn Santobono Pausilipon di Napoli, consolidatasi ormai a pieno titolo tra le più importanti realtà sanitarie pediatriche italiane ed europee".
Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, dichiara: "Un'altra straordinaria dimostrazione di eccellenza della Sanità campana. Un lavoro di equipe ancora più significativo, se si considera l'età della bambina e la possibilità offerta dal Santobono di poter praticare, prima volta in Italia, una terapia all'avanguardia che ha portato alle dimissioni della piccola paziente. Desidero ringraziare la direzione strategica, i medici e tutto il personale del Santobono, per questo ulteriore grande risultato ottenuto".
La bimba è già tornata a casa. Il rientro nell'abitazione coi genitori dopo che sono stati monitorati per una settimana di effetti collaterali connessi alla somministrazione del farmaco. Il rapido utilizzo di questo farmaco al Santobono è stato reso possibile, si sottolinea, "grazie ad un eccezionale lavoro di squadra che ha coinvolto il settore farmaceutico Regionale, i servizi interni all'Azienda Ospedaliera: Acquisizione Beni e Servizi, Farmacia Ospedaliera, Direzione Aziendale e Sanitaria e tutta l'equipe della UOC Neurologia diretta dal dottor Antonio Varone". "Negli ultimi anni l'introduzione di terapie innovative - rileva Varone - ha contribuito a cambiare radicalmente la storia clinica della patologia, che rimane a oggi una tra le prime cause di mortalità infantile. L'avvento di tali soluzioni terapeutiche rende quanto mai attuale la necessità di una sempre maggiore sensibilizzazione nei confronti della diagnosi precoce realizzabile attraverso l'implementazione di progetti di screening neonatale".
Luigi, papà della piccola, aggiunge: "Ringrazio il dottor Varone, che dall'inizio ha sostenuto e sostiene la nostra battaglia contro la SMA. All'inizio sembra tutto nero ... Un tunnel senza fine... Adesso grazie a questo farmaco arrivato prima dei sei mesi della piccola Sofia tutti possiamo sperare e vedere alla fine del tunnel la luce tanto attesa. Spero che la nostra piccola possa far da guida a tutti gli altri affetti da questa malattia. Un ringraziamento anche tutti gli infermieri del reparto neurologia".
giovedì 12 novembre 2020
Coronavirus, Capua: “Trump guarito dal Covid? La sua cura costata un milione di euro, non è per tutti”. -
La virologa, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ha spiegato su Radio Uno che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt'altro che applicabile ai pazienti malati di Covid.
Ha parlato con spavalderia del Covid e dopo avere trascorso solo tre giorni ricoverato al Walter Reed Medical Center ha ripreso i comizi e definito addirittura “una benedizione” il Sars-Cov-2. Ma quello che ha ricevuto Donald Trump per guarire è stato “un trattamento da superman, tipo criptonite”. La virologa Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ospite su Radio Uno a Un giorno da pecora, ha spiegato che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt’altro che applicabile ai pazienti malati di Covid. In pratica, ha detto la scienziata, “gli hanno fatto una dose sostanziosa di anticorpo monoclonale, che è un missile terra-aria. Blocca il virus quando sta entrando nel sangue e quindi non riesce a provocare malattia. Solo che questa medicina non è per tutti. È costosissima. La cura di Trump sarà costata forse un milione di euro. È una cura da presidente”.
“Gli anticorpi monoclonali – spiega la virologa, secondo cui Trump per la gestione della pandemia ha dato “il peggior esempio possibile” – sono dei missili che, però, si producono in piccolissime quantità. E per funzionare devono essere super concentrati. A Trump hanno fatto una dose ‘da pecora’, per non dire da cavallo. Quindi è riuscito a fare l’ultima parte della campagna elettorale ridicolizzando il virus. Le persone che gli credono, e sono tante, hanno visto il loro presidente così spavaldo. Ma non vale! Perché a lui hanno fatto la criptonite“, ironizza Capua. Che ricorda come gli anticorpi monoclonali “sono terapie super speciali. È illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”, conclude.