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venerdì 1 aprile 2022

Gas, inciucio sui rubli fra l’Europa e Putin. - Francesco Lenzi

 

IL MECCANISMO - Il gioco delle parti fra l’Ue (soprattutto Scholz e Draghi) e il russo, che incassa euro, ma li cambia nella sua moneta.

Ieri mattina, Mario Draghi, a domanda precisa sul pagamento in rubli del gas russo, ha risposto che “le aziende europee continueranno a pagare in euro o dollari”. Nel pomeriggio, Vladimir Putin ha firmato il decreto che da aprile modifica i termini di pagamento per le esportazioni di gas verso i Paesi cosiddetti “ostili” (tra cui tutti quelli Ue), scatenando le proteste. Chi sta bluffando? In attesa delle tecnicalità, si può dire nessuno dei due. Per capirlo occorre spiegare come il sistema finanziario russo sta evitando di collassare.

Dopo le sanzioni occidentali la Banca centrale russa non aveva più riserve valutarie per sostenere il cambio del rublo. Mosca ha replicato obbligando gli esportatori russi a convertire in rubli l’80% dei ricavi e limitando il ritiro di valuta estera, misure che stanno operando in sostituzione della Banca centrale. Così gli esportatori devono cedere valuta estera al mercato russo, rendendola disponibile per le istituzioni che devono finanziare le importazioni o il pagamento dei debiti in valuta estera. Se la valuta fosse invece conservata, rimarrebbe troppo scarsa sul mercato russo e la sua domanda ne farebbe crescere il valore, deprezzando il cambio del rublo come è avvenuto dopo le sanzioni. La valuta russa non è più convertibile liberamente, il suo mercato è confinato alla Russia, ma il crollo dei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina è stato ormai riassorbito: il suo valore è tornato al livello pre-guerra. Questo recupero era essenziale per la Banca centrale, che da settimane lotta contro un’inflazione al 2% settimanale. Solo stabilizzando il cambio può sperare di evitare un devastante scenario iperinflattivo. Questo impianto opera negli spazi lasciati liberi dalle sanzioni ma può reggere solo se la valuta estera ottenuta con le esportazioni rimane libera, cioè accessibile al mercato russo. Se non fosse più trasferibile una volta che l’esportatore russo ha ricevuto il pagamento, si blocca tutto. Questo è lo scenario che Putin vuole evitare con la decisione di far pagare il suo gas in rubli.

Lo scenario potrebbe presto materializzarsi. Le banche russe non sono escluse dalle transazioni in euro. Solo sette, tra cui non compare GazpromBank, sono fuori dal sistema Swift. Gli Stati Uniti però, con l’entrata in vigore delle sanzioni sui regolamenti in dollari, hanno escluso varie banche russe tra cui la Sberbank, la più grande della Russia, dal poter trasferire i dollari se non per operazioni consentite dalle licenze. In sostanza, da sabato scorso, un esportatore di gas russo può ricevere dollari sul conto della Sberbank, ma poi quei dollari non sono più trasferibili. Non possono cioè essere riportati in Russia per convertirli in rubli e aiutare il sistema finanziario russo. Ieri, Putin, illustrando il decreto, si è infatti giustificato spiegando che “loro stanno ricevendo gas, pagano in euro e poi congelano questo pagamento”. A questo serve il provvedimento, che nella sostanza sposta l’onere di convertire euro e dollari in rubli e rende molto più complicato scindere il legame tra l’approvvigionamento di gas e il libero uso della valuta estera ottenuta come corrispettivo. Euro e dollaro non saranno più convertiti in rubli dall’esportatore, ma indirettamente da chi acquista il gas russo. Questo però non significa che il pagamento debba avvenire in rubli. È una sottigliezza che però conferma la linea di Draghi e Putin.

Nel decreto si legge che l’importatore “ostile”, per esempio Eni, deve aprire un conto in valuta estera presso la GazpromBank, alimentandolo con la valuta estera usata per pagare la fornitura e che viene poi utilizzata da GazpromBank per essere convertita in rubli sul mercato russo. Una volta realizzata la conversione, il corrispondente valore in rubli è accreditato su un altro conto in Gazprombank, questa volta denominato in valuta russa, e quindi trasferito all’esportatore di gas russo. Il pagamento è in euro o dollari, ma viene eseguito in rubli e solo quando questi vengono depositati sul conto dell’esportatore di gas l’operazione è completata e la fornitura può aver luogo. Lo schema regge a una condizione essenziale: GazpromBank non può esser oggetto di sanzioni che ne limitino la capacità di scambiare la valuta estera degli importatori di gas con i rubli delle istituzioni presenti sul mercato russo. A questo punto la decisione di colpire queste transazioni equivarrebbe alla decisione di terminare gli acquisti di gas dalla Russia, mettendo in ginocchio i Paesi Ue più esposti.

Ieri i ministri di Francia e Germania hanno detto di esser pronti a terminare l’approvvigionamento di gas russo se non potranno pagarlo in euro o dollari. Quello che pare di capire dal decreto è che questo resta così. Nella sostanza non cambia nulla, se non per il fatto, non trascurabile, che congelare i pagamenti sarebbe molto complicato. A quel punto resta solo di chiudere il gas. Ma su questo, a livello europeo, pare non esserci ancora molto accordo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/01/incassa-euro-ma-ottiene-rubli-cosi-mosca-prova-a-resistere/6544347/

giovedì 12 novembre 2020

Coronavirus, Capua: “Trump guarito dal Covid? La sua cura costata un milione di euro, non è per tutti”. -

 

La virologa, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ha spiegato su Radio Uno che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt'altro che applicabile ai pazienti malati di Covid.

Ha parlato con spavalderia del Covid e dopo avere trascorso solo tre giorni ricoverato al Walter Reed Medical Center ha ripreso i comizi e definito addirittura “una benedizione” il Sars-Cov-2. Ma quello che ha ricevuto Donald Trump per guarire è stato “un trattamento da superman, tipo criptonite”. La virologa Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center dell’università della Florida, ospite su Radio Uno a Un giorno da pecora, ha spiegato che la cura ricevuta dal presidente uscente degli Stati Uniti è tutt’altro che applicabile ai pazienti malati di Covid. In pratica, ha detto la scienziata, “gli hanno fatto una dose sostanziosa di anticorpo monoclonale, che è un missile terra-aria. Blocca il virus quando sta entrando nel sangue e quindi non riesce a provocare malattia. Solo che questa medicina non è per tutti. È costosissima. La cura di Trump sarà costata forse un milione di euro. È una cura da presidente”.

“Gli anticorpi monoclonali – spiega la virologa, secondo cui Trump per la gestione della pandemia ha dato “il peggior esempio possibile” – sono dei missili che, però, si producono in piccolissime quantità. E per funzionare devono essere super concentrati. A Trump hanno fatto una dose ‘da pecora’, per non dire da cavallo. Quindi è riuscito a fare l’ultima parte della campagna elettorale ridicolizzando il virus. Le persone che gli credono, e sono tante, hanno visto il loro presidente così spavaldo. Ma non vale! Perché a lui hanno fatto la criptonite“, ironizza Capua. Che ricorda come gli anticorpi monoclonali “sono terapie super speciali. È illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”, conclude.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/12/coronavirus-capua-trump-guarito-dal-covid-la-sua-cura-costata-un-milione-di-euro-non-e-per-tutti/6001276/

lunedì 8 aprile 2019

Le 4 balle che ci raccontano sulla crisi dell’economia italiana. - Paolo Becchi e Giovanni Zibordi



Ci sono una serie di balle che continuano a circolare su un giornalone di cui non vogliamo fare il nome, perché non è certo nostra intenzione fargli pubblicità. Con tanto di grafici vorremmo smontare tutte queste balle una vota per tutte.

1 balla. Il primo, e forse il più micidiale di questi luoghi comuni riguarda la nostra moneta unica. Il M5Stelle e la Lega hanno vinto le elezioni con una piattaforma “no euro”. La realtà delle cose e il buon senso degli italiani, primo fra tutti il presidente della Repubblica, si sono poi fatti carico di smorzare i loro entusiasmi isolazionisti. Ma questo governo continua a comportarsi come se l’euro fosse una gabbia dalla quale non si può liberare.
Trascuriamo le cosiderazioni politiche. Sono irrilevanti. Ognuno è libero di scrivere le cazzate che vuole. Passiamo però ai fatti. La produzione industriale, che in un paese senza materie prime è quello che da da mangiare, prima dell’euro cresceva in linea con quella degli altri maggiori paesi. Dall’introduzione dell’euro è collassata.
Difficile che sia una mera coincidenza perché la stessa cosa, anche se in misura minore, è accaduta per la produzione industriale della Francia.
Ancora oggi in Italia è del -22% sotto il livello del 2008 e neanche negli anni ‘30 della Grande Depressione è successo, perchè nel giro di tre anni la produzione tornò sopra i livelli del 1930. L’unico crollo di oltre il -20% della produzione mai verificatosi è tra il 1942 e il 1946 causa una guerra persa.
A cosa è dovuto il crollo, avvenuto soprattutto tra il 2008 e il 2013 ?
In Italia, la domanda interna, cioè la spesa dei cittadini è sprofondata del -12% in questi cinque anni e quindi nonostante un ottimo andamento dell’export, dato che la domanda interna è ¾ del totale della domanda, la spesa totale si è ridotta di colpo. In Germania e Francia ad esempio la domanda interna non si è ridotta.
GOVERNO MONTI
Il motivo? L’austerità ovviamente, il blocco della spesa pubblica e l’aumento delle tasse, soprattutto sotto il governo Monti. L’Italia è stato l’unico paese a ridurre i deficit pubblici dopo il 2009, per cui mentre tutti facevano deficit tra il 5 e l’8% del PIL noi siamo stati gli unici a riportarli sotto al 3%. Abbiamo dovuto causa lo “spread” ? Come mai prima dell’Euro non si sentiva mai parlare dello “spread” ? Perchè Bot, CCT e BTP erano in mano a famiglie italiane le quali se il rendimento cresceva non vendevano i titoli solo perchè il prezzo oscillava in basso. Solo le banche e i fondi esteri liquidano di colpo i BTP e però lo facevano per motivi loro, nel 2008 liquidavano titoli di ogni genere perchè stavano fallendo causa derivati su mutui in altre parti del mondo. Le Banche estere con l’euro erano arrivate a detenere 1,300 mld di titoli italiani e li hanno liquidati di colpo.
Con la crisi globale del 2008, dovuta ad una “bolla” dei mutui e dei derivati sul debito immobiliare in USA, Spagna, Irlanda ecc.. le banche in tutto il mondo sono andate in crisi, molte hanno dovuto essere salvate dai loro Stati e di conseguenza si è creato panico sui mercati del debito e le banche maggiori hanno venduto di colpo titoli di ogni genere, tra cui anche i nostri BTP di cui con l’euro si erano riempite arrivano ad averne per 1,300 miliardi.
L’effetto dell’euro è stato di far uscire le famiglie italiane e far entrare al loro posto massicciamente le banche estere come acquirenti di BTP, con i danni che sono ben noti a tutti.
2 balla. Bisognerebbe allora ricordare che solo grazie alla moneta unica l’Italia ha potuto in questi anni sostenere il peso di un debito pubblico che avrebbe schiantato qualsiasi altra valuta. Nel 2001, quando c’era ancora la lira, gli interessi sul debito pubblico ci sono costati l’equivalente di 79 miliardi di euro. Nel 2018, nonostante il debito sia passato da 1.400 a 2.300 miliardi, gli interessi sono scesi a 65 miliardi.
L’Italia come Stato ha pagato dal 1980 quasi 4 mila miliardi di interessi sui titoli di stato (in euro di oggi), cioè due volte e mezzo il PIL attuale che è di 1,700 miliardi e quasi il doppio del debito pubblico che 2,340 miliardi. Il debito pubblico è dovuto all’accumulo degli interessi che si sono cumulati su debiti contratti in molti anni.
Nessuno ha pagato quanto lo stato e quindi i contribuenti italiani di interessi, più di qualunque altra nazione al mondo dopo gli Stati Uniti. E in percentuale del reddito nazionale più di chiunque. Abbiamo arricchito le banche e i fondi esteri che si sono riempiti di BTP quando grazie all’euro sono stati garantiti che il tasso di cambio non sarebbe sceso. Per un cittadino italiano con in tasca le lire se il tasso di cambio della lira scendeva non importava, comprava lo stesso BTP o CCT se rendevano più dell’inflazione. Ma per gli stranieri era importante non perdere sul cambio e con l’euro hanno potuto garantirsi da quel rischio. Il risultato è stato che gli interessi che prima rimanevano in Italia sono finiti all’estero. Non importa pagare 65 miliardi invece di 79 se questi soldi poi vanno a banche francesi, fondi del Qatar o fondi pensione giapponesi! Sono soldi delle tasse degli italiani che con l’euro sono andati ad arricchire i ricchi di tutto il mondo (azionisti e proprietari di banche e fondi).
L’EXPORT
3 balla. Lo stesso discorso vale per le esportazioni: nonostante l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, l’Italia registra da anni un forte attivo della bilancia commerciale.
Il saldo delle bilancia commerciale è fatto di esportazioni meno importazioni. Con l’euro il cambio era forte, le importazioni erano meno care e il risultato è che l’Italia è andata in deficit con l’estero fino al 2011, grazie al boom delle importazioni.
Come di vede dal grafico però l’austerità imposta dall’euro ha fermato le importazioni per cui il saldo con l’estero è migliorato, ma grazie alla perdita di reddito e quindi di spesa e poi anche di importazioni. Se deprimi l’economia, spendi meno e importi di meno certamente migliora il saldo della bilancia commerciale. Ma hai mandato in rovina il paese.
4 balla. Se tutto questo non si è tradotto in crescita economica, come è avvenuto in tutti gli altri Paesi della Ue, la colpa non è dell’euro, ma dei governi che hanno lasciato declinare la produttività e la competitività del Paese. Fino ad arrivare all’attuale governo anti-europeo: il primo che sia riuscito ad imporre all’Italia, unica in Europa, una recessione le cui cause sono essenzialmente politiche e non economiche.
La produttività in Giappone e Corea è più bassa che in Italia (se si cercano le statistiche del PIL diviso ore lavorate, si scopre che siamo meglio noi). Nel Regno Unito la produttività negli ultimi dieci anni è piatta, non cresce, come in Italia. Ma in Giappone, Corea e nel Regno Unito il reddito ha continuato a crescere e la disoccupazione è tra il 3 e il 4% mentre in italia è l’11%. Quello che invece differenzia l’Italia da tutti gli altri è il crollo della domanda interna, della spesa, dovuto al taglio indiscriminato del credito da parte delle banche italiane nei confronti delle imprese e all’austerità con l’aumento continuo delle tasse.
Come si vede dal grafico la forza della Germania è che ha continuato a spendere, la “domanda aggregata” tedesca (il termine che si usa per indicare la spesa totale all’interno di un economia di beni e servizi) ha continuato a salire. La differenza l’ha fatta la spesa, che in Italia è collassata. Noi abbiamo avuto meno soldi da spendere, perchè sono state aumentate le tasse di circa 40 miliardi e perchè le banche hanno tagliato il credito alle imprese di oltre 200 miliardi. Se avessimo avuto la nostra Banca Centrale al posto della BCE questa avrebbe garantito le banche per non spingerle a tagliare il credito e avrebbe finanziato i deficit pubblici per non far aumentare le tasse.

lunedì 12 novembre 2018

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia). - L. Luccarini

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia) di L. Luccarini
L’Euro Currency Index rappresenta il rapporto di quattro valute principali rispetto all’euro: dollaro USA, sterlina britannica, yen giapponese e franco svizzero ed è quindi è una specie di unità di misura della sua forza relativa.
All’apice, o quasi, della crisi del 2008/2009, con l’economia americana quasi in ginocchio dopo il fallimento di Lehman Brothers, raggiungeva il suo massimo con un valore di 112,50.
La valuta continentale si segnalava, in quel frangente, come una sorta di  “bene rifugio”.
Dieci anni dopo tuttavia la situazione appare del tutto rovesciata.
Da quei massimi infatti l’Euro Currency Index ha iniziato una discesa fino all’attuale valore, poco sopra 93. Che segnala un deprezzamento complessivo della moneta di circa il 20%. Che vuol dire che il denaro di cui disponiamo ha perso 1/5 del suo potere acquisto nel mercato globale.
E tutto questo è avvenuto nonostante il rapporto dell’Euro con il Dollaro, pur nell’ambito di una tendenza ribassista di fondo, si sta cercando in qualche modo di “stabilizzare” per effetto delle politiche dell’amministrazione Trump, rivolte ad una sorta di “svalutazione competitiva” della divisa americana (figura. 1.1).
Ma che evidentemente non sono bastate fino ad ora a compensare i motivi che determinano l’attuale debolezza della nostra moneta.
Capire cosa abbia determinato questa dinamica può servire anche per far comprendere che la crisi di credibilità in cui versano tutte le istituzioni europee, BCE compresa, impone che il ricambio ai loro vertici, previsto per tutto l’arco del 2019, sia accompagnato da un deciso mutamento di rotta nelle politiche economiche e finanziarie.
Altrimenti i cosiddetti “piani B”, più che remote eventualità, potrebbero diventare ineluttabili per diversi Stati, non solo il nostro. Certo, il valore dell’Euro è depresso perchè, come vogliono la logica e la dottrina tradizionale, la remunerazione delle attività che vi sono rappresentate è minore rispetto a quelle di altre aree valutarie.
Ma questo fenomeno non si spiega sulla base dei soli tassi di crescita delle diverse economie, dal momento che il GDP degli Stati Uniti – ad eccezione di quanto sta avvenendo in questo 2018 – ha fatto registrare negli ultimi valori tra l’1,5% ed il 2,5%% più o meno quindi paragonabili a quelli dell’Eurozona. E neppure sulla base dei tassi di interesse, che BCE ha mantenuto per un certo periodo marginalmente positivi, rispetto al loro azzeramento che la Federal Reserve dispose già nel 2009.
Dunque, il motivo del trend discendente risiede in altro. E con ogni probabilità è rappresentato da come la Germania, paese leader nell’area, ha utilizzato gli enormi surplus che intanto stava accumulando. Praticamente non utilizzandoli.
Parliamo peraltro di grandissimi aggregati finanziari. Quello derivante dalla crescita dell’avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, che secondo certi studi a partire dal 2001 è arrivato ad una cifra pari a quasi 3.500 miliardi, corrispondente grosso modo ad un intero suo PIL. Quello che poi si è determinato in conseguenza dei trasferimenti di denaro intra-market che l’hanno portata a detenere un saldo finanziario di circa 900 miliardi, triplicato rispetto a quello di cui disponeva nel 2007, come si vede nella figura 1.2 che riflette i dati Target2.
Il motivo per cui la Germania non adopera questi attivi è oggetto di diverse interpretazioni, tutte plausibili e al tempo stesso opinabili. Perciò per il momento ne prescindiamo. Fatto sta che Berlino da tempo non persegue più economie di stimolo alla domanda interna (che risulta frenata anche dal limitato tasso di crescita dei salari reali) e neppure si sogna di aumentare gli investimenti pubblici, che non hanno mai superato la quota del 20% del PIL, ponendosi al di sotto della media degli stessi partner europei. Si limita, piuttosto, ad un regime di accumulazione, per così dire, “passiva” di risorse finanziarie.
Che in questo modo, non offrendo rendimenti di alcun genere, analogamente a quanto avviene quando un individuo lascia giacere i suoi soldi sul proprio conto corrente senza impiegarli in alcun modo, si svalutano e basta.
Il problema, alla fine, potrebbe essere tutto della Germania, se non fosse che gran parte della liquidità dell’Eurozona continua a riversarsi proprio su quel paese, impoverendo finanziariamente quasi tutti gli altri. E tra questi, come si vede chiaramente dalla figura 1.2, in particolar modo l’Italia. Il problema, dunque, diventa di tutti ed incide sulla quotazione dell’Euro. Che perciò si indebolisce.
Ora, come noto, il fatto che una moneta si svaluti può offrire a chi se ne serve un vantaggio, in termini di maggiori esportazioni dei suoi beni e servizi. Ed è ciò che la Germania è riuscita ad ottenere negli ultimi anni, alimentando così la propria posizione finanziaria positiva con l’estero, che peraltro è migliorata anche in altri paesi dell’UE, compresa l’Italia.
Questo beneficio però deve essere valutato anche in relazione alla situazione attuale dell’Unione Europea che, nata come un’associazione di Stati che dovevano favorire il reciproco sviluppo in un ambito di libera concorrenza tra loro (come erano all’origine il MEC e poi la CEE) si è sempre più trasformata in un modello quasi “Sovietico”, fondato su una serie di pianificazioni e vincoli di bilancio che sottraggono libertà economiche ai suoi membri.
Non v’è dubbio in effetti che l’Euro è sostanzialmente un sistema di “cambi fissi” tra le 19 nazioni che lo hanno adottato come moneta e perciò la ripartizione delle quote di mercato all’interno della relativa area tende ad irrigidirsi, in assenza di una “leva monetaria” che possa consentire ad un paese di guadagnare competitività nei confronti dell’altro.
Donde la necessità per ciascuno Stato di operare sulla componente “costo del lavoro”, con la conseguente compressione della dinamica salariale interna (e degli stessi diritti dei lavoratori) per alimentare la propria percentuale di “export”, nel frattempo divenuta la principale componente positiva della sua economia. Donde la (neppure troppo) strisciante deflazione che si è realizzata negli ultimi anni in Europa. Che spiega a sua volta la svalutazione della moneta.
E’ questo, peraltro, un classico “cul de sac”, in cui deflazione chiama svalutazione, che a sua volta implica ulteriore deflazione e via dicendo. E che ben si rappresenta nell’andamento del Bund decennale che con il suo rendimento stabilmente sotto lo 0,5%fornisce la proiezione ciclica di una crescita piatta (se va bene) della domanda interna di tutta l’Eurozona.
D’altra parte il Bund non può che offrire che queste miserie, dal momento che la Germania opera una modesta richiesta di denaro al mercato e così facendo sostiene i prezzi dei suoi Titoli di Stato e contiene il relativo onere per interessi molto al di sotto della media degli altri partner/concorrenti. Mentre l’opposto avviene in paesi come l’Italia, dove l’elevata offerta di obbligazioni determina un calo dei relativi prezzi (ed un conseguente aumento dei rendimenti). Ed il divario tra le nazioni dell’Unione continua così ad allargarsi.
In questo quadro di relazioni, tra i paesi dell’Eurozona e dell’UE con l’esterno, è chiaro che un qualsiasi calo congiunturale della domanda globale rischia di far saltare tutti i residui equilibri, già molto precari.
E’ bastato in fondo un accenno di protezionismo da parte degli Stati Uniti per far rotolare tutte le stime che ancora a febbraio davano per certa una crescita in Europa “robusta e al di sopra delle più rosee aspettative”, come affermato da Mario Draghi e dalla stessa Commissione.
E le politiche monetarie di BCE non hanno certo offerto adeguati strumenti per consentire a tutti i paesi dell’area di affrontare nuove possibili tensioni finanziarie e le sfide dell’economia globale. “Tassi zero” che non hanno generato alcuna forma di rilancio dell’economia, se non giusto una breve fase di rimbalzo, appiccicata come una sanguisuga alle dinamiche del resto del mondo.
Una domanda interna complessiva sempre troppo debole, anche perché scarsamente alimentata dalla spesa pubblica, oggetto di attenzione quasi ossessionante da parte delle istituzioni UE. E, per converso, nessuna significativa diminuzione del debito degli Stati in termini assoluti come effetto di questo controllo.
Persino lo stesso lieve incremento di inflazione registrato nell’ultimo anno pare dovuto più che altro alla spinta esogena del costo delle materie prime (il cui indice di riferimento è passato da un livello 160 a 200/210) e quindi rischia di produrre solo ulteriori effetti depressivi.
Infine il vero pasticcio, generato, sul piano puramente finanziario, da un sistema di acquisti in Quantitative Easing ancorato alle quote di partecipazione delle singole Banche Centrali al capitale BCE, che ha finito soltanto per fornire ulteriore benzina alle quotazioni del Bund, giunte ormai al livello di un’autentica “bolla speculativa”.
E che in ogni caso giovano soltanto ad un paese. Il più ricco, che diventa sempre più ricco nel rapporto con gli altri componenti del “club Euro”, tutti obbligati a maggiori oneri per interessi sul debito. Quello che dovrebbe perciò in qualche modo alimentare valori aggiunti in tutta l’area e che, al contrario, tiene stretti i suoi averi come Zio Paperone nel suo deposito.
Potendone tutto sommato assorbire la conseguente svalutazione senza grossi danni, anzi giovandosene per aumentare la sua quota di esportazioni e i conseguenti flussi finanziari in entrata. Anche dagli altri partner europei, tutti ormai trattati alla stregua di concorrenti da spremere, far indebitare e quindi definitivamente soggiogare alle sue politiche. In fondo la fotografia più attendibile del periodo non può che arrivare dalla stessa Germania.
Ed è (figura 1.3) l’andamento del principale indice di borsa tedesco, il Dax che, da febbraio di quest’anno, fa segnare uno scostamento di valori nei confronti dello S&P americano di circa il 16%. A cui va aggiunta una svalutazione dell’Euro rispetto al Dollaro, nello stesso periodo, di quasi il 10%.
Siamo partiti da quel mese di febbraio in cui Draghi ha dichiarato al Parlamento Europeo che la ripresa si espandeva con una crescita “più forte di quanto previsto in precedenza, distribuita più equamente tra settori e aree geografiche rispetto a qualsiasi altro momento dopo la crisi finanziaria”.
Per la cronaca, il Dax è tornato sui livelli di prezzo dell’inizio del 2017 e la sensazione è che debba scendere ancora.
E, sempre per la cronaca, ma soprattutto a beneficio di quelli che si fanno sempre 4 risate di fronte a queste evidenze, segnalo che – come può vedersi nel grafico – l’andamento del Ftse italiano è perfettamente sovrapponibile a quello della borsa tedesca. Non origina dunque da casa nostra il problema.
Non abitano qui i “cialtroni”.
Fonte: stopeuro del 9 novembre 2018

mercoledì 10 ottobre 2018

Il pericoloso gioco dell’Unione europea. - Evans-Pritchard

Risultati immagini per Juncker

(Contrariamente alla stampa mainstream italiana, Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph vede sì i rischi della situazione attuale per l’Italia – il braccio di ferro sul Def tra governo e Ue, basato più su motivazioni politiche che questioni tecniche – ma non tace i punti di forza di cui gode il nostro Paese.)

Il “chicken game”, ovvero “gioco del pollo” (o del coniglio) è, nella teoria dei giochi, un contesto così esemplificabile: due auto si dirigono a tutta velocità l’una contro l’altra; entrambi gli automobilisti contano sul fatto che sarà l’altro a spaventarsi, cedere e sterzare per primo, diventando il “pollo” – ovvero il codardo – della situazione. Se ciascuno dei due tira dritto, però, lo scontro sarà inevitabile, così come il disastro per entrambi.
Ed è proprio questo il pericoloso gioco che Juncker sta consapevolmente conducendo nei confronti del Governo italiano, per mettere sotto stress il sistema bancario. E funziona.
Le autorità dell’UE, spiega il giornalista, contano sui mercati: all’aumentare dei tassi, sperano, la paura per la tenuta del sistema bancario spingerà l’opinione pubblica italiana verso più miti consigli.
Il gioco però è rischioso. Se si va troppo oltre, infatti, l’Ue rischia di scatenare essa stessa una crisi di credito che travolgerebbe il sistema bancario italiano e la caduta in una spirale di recessione che si autoalimenta, provocando esattamente ciò che vuole evitare.
I margini del gioco sono stretti, la tattica è rischiosa, perché l’economia italiana negli ultimi mesi ha rallentato. E sgombra il campo da tecnicismi e ipocrisie: non sono certo i punti percentuali di deficit previsti nel Def italiano che sono in questione. È invece una questione tutta politica. 
Nell’Ue c’è qualcuno che punta a mettere in ginocchio l’Italia. Quando Jean-Claude Juncker questa settimana si è scagliato contro i ribelli della Lega – M5S agitando lo spettro di una ‘nuova Grecia’, ha volutamente gettato benzina sul fuoco. 
Era una strategia calcolata. Ciò che i mercati dei bond temono in questo momento è un’escalation della battaglia tra l’alleanza Lega – 5 Stelle e Bruxelles, che – se mal gestita – comporta il rischio di un’uscita italiana dall’euro e la rottura dell’unione monetaria.
Il rischio di denominazione è diverso dal normale rischio di insolvenza. Che si può isolare e misurare confrontando l’andamento dei prezzi di diverse annate di credit default swap con contratti legali diversi. La componente è in forte rialzo. Bruxelles potrebbe avere ragione nel calcolare che Roma cederà e che gli eterni ‘poteri forti’ dell’establishment italiano piegheranno i ribelli o li compreranno. Ma avverte anche che per ora non è successo: e cita le recenti affermazioni di Di Maio sul fatto che chi spera in un’inversione di rotta si illude.
Evans-Pritchard – pur definendo illusorie le promesse di Di Maio sul fatto che la maggior crescita ripianerà il deficit – mette anche in fila una serie di punti di forza italiani, abitualmente taciuti dalla nostra stampa mainstream e quindi poco noti all’opinione pubblica: che l’Italia in rapporto al bilancio UE è un contribuente netto; il nostro avanzo nelle partite correnti, ovvero nella differenza tra esportazioni e importazioni, di 2,8 punti percentuali del PIL; le dimensioni del nostro settore manifatturiero, maggiori di quello della Francia o della Gran Bretagna. 
Inoltre sottolinea come con un avanzo di bilancio primario come il nostro – a differenza della Francia, che peraltro ha ripetutamente violato il Patto di stabilità – potremmo passare tecnicamente alla lira senza temere una crisi di sostenibilità del debito.
Quanto al nostro debito pubblico, ricorda che è di 2.300 miliardi di euro, cui aggiunge un ulteriore debito di 500 miliardi di dollari alla Bce attraverso il sistema di pagamenti Target2 (che si tratti di un reale debito anche in questo caso è questione notoriamente controversa), ma sottolinea che può essere convertito unilateralmente in lire secondo le regole della Lex Monetae.
Al minimo cenno che l’Italia fosse in procinto di lasciare l’euro – e o convertire i debiti in lire o fare default – si scatenerebbe immediatamente il contagio in Portogallo, Spagna e Grecia. I creditori tedeschi rischierebbero un taglio del loro credito da un trilione di euro. Per evitarlo, la Germania e gli altri Paesi del Nord dovrebbero accettare quello che finora hanno ostinatamente rifiutato: il grande balzo in avanti verso l’unione fiscale, sostenuta da una banca centrale con pieni poteri di prestatore di ultima istanza. 
Ma Evans-Pritchard non sembra molto ottimista sul realizzarsi di questa ipotesi.
In caso di dissoluzione dell’Eurozona – messa a rischio anche dalla fine degli acquisti di obbligazioni da parte della BCE, a fine anno, che lascerà gli stati del Sud Europa esposti alle forze del mercato – Evans-Pritchard fa notare che si potrebbe parlare di “distruzione reciproca assicurata”, ma sottolinea che “l’Italia avrebbe almeno qualche effetto di compensazione: un vantaggio competitivo dovuto alla tanto necessaria svalutazione (il tasso di cambio reale è del 20% troppo alto) e una ripartenza dopo il taglio parziale del debito. È difficile invece vedere quale potrebbe essere il lato buono della medaglia per Germania, Olanda o Francia. Quindi chi ha davvero il coltello dalla parte del manico? L’Italia non assomiglia alla Grecia, dove il gruppo dirigente pro-Syriza voleva strenuamente rimanere nell’euro. La Lega e i 5 Stelle affondano le loro radici nell’euroscetticismo. Il loro piano di riserva per una valuta parallela – i “minibot” – è inserito nel contratto di governo dell’alleanza. Se gli spread delle obbligazioni salgono a livelli che soffocano il sistema bancario, il governo può in qualsiasi momento emettere carta sostitutiva come una liquidità alternativa a fini fiscali e contrattuali, sovvertendo l’unione monetaria dall’interno.
Evans-Pritchard cita diversi elementi a sostegno della posizione italiana sull’euro. Tra questi, la ormai celebre recente dichiarazione di Claudio Borghi a Radio Uno, quando disse per l’ennesima volta che tornare alla lira per l’Italia sarebbe meglio, anche se non è nel programma di governo e richiede il consenso dei cittadini. 
L’Ue sta cadendo in una trappola, ovvero sta spingendo la situazione talmente al limite che finirà col creare proprio il consenso necessario per l’uscita dall’euro. Nell’articolo sono citati inoltre i documenti sul “piano B” di Paolo Savona.
Le agenzie di rating sono pronte a muoversi. Potrebbero perdonare l’allentamento fiscale se i soldi fossero spesi per investimenti che aumentassero la velocità di crescita economica dell’Italia, ma non per invertire la riforma pensionistica e per un reddito di base universale. Il piano di abbandonare il consolidamento fiscale per i prossimi tre anni lascia il paese ancora più vulnerabile a un cambio di rotta del ciclo economico e dei tassi di interesse. L’aumento dei tassi erode il capitale delle banche italiane, che possiedono un quarto del debito pubblico negoziato e fanno affidamento sui mercati dei capitali all’ingrosso per il 21% del loro finanziamento. Siamo in un circolo vizioso. Titoli di debito pubblico e banche possono ancora abbattersi a vicenda in un effetto a spirale. Questo è il difetto fondamentale di un’unione monetaria senza un prestatore automatico d’emergenza. Difetto che l’Ue non ha mai sanato. Juncker potrebbe riuscire a terrorizzare l’Italia fino a indurla alla sottomissione nelle prossime settimane. Ma potrebbe invece appiccare l’incendio che brucerà la sua casa europea.

Fonte Vocidallestero del 8/10/2018

venerdì 8 giugno 2018

Il G7 fa soffrire le Borse. Ancora vendite sull’Italia: -2% Milano, spread a 270. - Chiara Di Cristofaro e Andrea Fontana




Le tensioni tra il presidente Usa e gli altri leader dei Paesi partecipanti al G7 in Canada si sono fatti sentire su tutti i listini europei, piegati dai timori di impatti sugli accordi commerciali esistenti ma anche dai segnali di rallentamento dell'economia europea, ma è stata ancora Piazza Affari a essere la più penalizzata sul mercato azionario confermando la freddezza degli operatori finanziari verso gli asset italiani in questa fase di estrema incertezza legata alle prossime mosse del nuovo Governo Conte. Secondo alcuni operatori comunque gli investitori si sono distanziati dalle attività più rischiose in vista dell'incrocio di decisioni delle banche centrali della prossima settimana con la Federal Reserve pronta ad alzare di nuovo i tassi di interesse americani e con la Bce invece che dovrebbe fornire indicazioni sulla fine del Quantitative Easing. Il FTSE MIB ha lasciato sul terreno l'1,89% tornando vicino ai minimi dell'anno e ai minimi da agosto 2017 piegato innanzi tutto dalle vendite sulle banche mentre il rendimento dei Btp a 10 anni è tornato sopra il 3,1% ampliando lo spread con i Bund in area 270 punti. Tra gli istituti di credito le performance peggiori sono state quelle delle ex popolari, forse sulla speculazione di un dietrofront del Governo rispetto recente riforma degli istituti: -4% Banco Bpm, -2,7% Ubi Banca, -2,7% Bper. I cali sono stati comunque trasversali ai vari settori con Cnh e Unipol giù di oltre il 3%. Male il risparmio gestito. In tenuta Salvatore Ferragamo (+0,3%) e Campari (invariata dopo i conti della concorrente Remy Cointreau).

Il lusso tiene a galla la Borsa di Parigi 
Madrid ha chiuso le contrattazioni in calo dello 0,8%, mentre Francoforte e Londra hanno ceduto lo 0,3%. Piatta invece Parigi - grazie agli acquisti sul settore lusso e in particolare su Kering (+5%) e Lvmh (+1,5%) - che conferma così di essere tra le migliori Borse in Europa da inizio anno insieme ad Amsterdam. Il tema degli accordi commerciali, e quello dei dazi, ha finito per mettere pressione alle società del settore auto che ha accusato la performance peggiore nella seduta odierna(-2,5% Fca, -2,1% Volkswagen, -1,1% Bmw, -1,1% Renault) mentre minerari e utility sono stati gli altri settori oggetto di vendite più consistenti sui listini continentali. 
Tornando a Milano, pesante soprattutto nelle ultime due ore di contrattazione Eni (-2,6%) mentre tra le utility A2a ha ceduto il 3%. Tra i big del credito, -2,5% Unicredit e -1,2% Intesa Sanpaolo. Perdita superiore al 2% per Brembo e Pirelli nel comparto auto e per Leonardo tra gli industriali. Giù del 2,1% Mediaset. Hanno limitato i danni Tenaris(-0,3%) e Saipem (-0,67%), quest'ultima grazie a una commessa da 500 milioni di dollari in Thailandia
Per Piazza Affari un calo del 3,4% in una settimana. 
Nell'intera settimana Piazza Affari ha perso il 3,4% a fronte di listini europei complessivamente fiacche (+0,3% Francoforte, -0,3% Londra e Parigi) con l'eccezione di Madrid in recupero (+1,2%) dopo l'insediamento di Pedro Sanchez alla guida del nuovo Governo in Spagna. Ubi Banca, il cui calo complessivo si è avvicinato al 9%, è stato il titolo più penalizzate del Ftse Mib a fronte di un settore bancario italiano sceso del 6,5%. Male anche Unipol e Azimut con perdite complessive del 7,5% circa nell'intera settimana.
Al via il G7 in Canada, occhi su Bce e Fed.
Oggi ha preso il via il G7 in Canada: la posizione degli Stati Uniti sui dazi appare sempre più isolata. Il presidente francese Emmanuel Macron ha avvertito che non firmerà la tradizionale dichiarazione comune al termine del vertice se non ci saranno progressi sul tema tariffe. Trump ha anche annunciato che lascerà in anticipo il vertice per incontrare martedì il leader nordcoreano Kim Jong Un. «La questione dei dazi sarà al centro della riunione del G7 che inizia oggi e terminerà domani e che vede un Trump contro tutti, con il rischio concreto che non si giunga ad un’intesa comune», commentano gli analisti di Mps Capital Services. 
Prima di lasciare gli Usa, il presidente americano Donald Trump ha promesso «di raddrizzare gli iniqui accordi commerciali con i Paesi del G7» ed e' tornato a criticare il Canada dopo uno scambio acceso via Twitter con il presidente francese Emmanuel Macron. Trump ha anche detto che alla Russia dovrebbe essere permesso di partecipare alle riunioni delle sette economie più grandi al mondo (ne fu espulsa nel 2014 per via dell'annessione alla Crimea).
Oltre che per i lavori del G7, i mercati sono in apprensione per le riunioni chiave di Fed e Bce della prossima settimana. La Banca centrale Usa, in un contesto positivo per l'occupazione e con l'inflazione vicina al target del 2%, proseguirà probabilmente con i suoi rialzi graduali dei tassi con un aumento di 25 punti base, con 3-4 rialzi in tutto nell'anno. La Bce, dal canto suo, giovedì prossimo dovrebbe discutere della data di fine del Qe, cioè il programma di acquisto di titoli avviato nel 2015.
Spread BTp/Bund tocca 280 punti base, poi ripiega. 
Ha chiuso in netto rialzo lo spread BTp/Bund nella settimana che ha visto il nuovo Governo incassare la fiducia del Parlamento e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, impegnato nella sua prima uscita internazionale al G7 in Canada. Il differenziale di rendimento tra il BTp decennale benchmark (Isin IT0005323032) e il pari scadenza tedesco, ha infatti
terminato la seduta a 269 punti base, dai 256 punti di ieri, dopo aver raggiunto in mattinata anche quota 280 punti. Dopo il recupero di inizio settimana, dunque, lo spread con i titoli tedeschi ha ripreso a correre e ha chiuso l'ottava 30 punti base sopra il livello di venerdì scorso (239 p.b.). Il rendimento dei decennali ha chiuso al 3,14%, anche in questo caso in forte crescita dal 3,05% di ieri. Sotto pressione i bond italiani anche sulle scadenze più brevi con lo spread sui titoli a due anni che ha chiuso a 236 punti, con rendimento che e' volato all'1,73 per cento.
SPREAD BTP-BUND 
Andamento da inizio anno. Fonte: Ufficio Studi Il Sole 24 Ore
Euro torna sotto 1,18 dollari dopo dati deludenti industria Germania.
Euro in calo contro le principali valute dopo gli altri dati deludenti arrivati oggi dalla Germania. La divisa unica europea è scesa nuovamente sotto la soglia di 1,18 dollari attestandosi a 1,1770 alla chiusura dei mercati continentali. A pesare, il dato della produzione industriale tedesca che, dopo l'incremento di marzo, è calato ad aprile deludendo le attese degli analisti. Rispetto al mese precedente, si è infatti registrata una flessione dell'1 per cento. Su anno, cioè nel confronto con lo stesso mese del 2017, la produzione è aumentata del 2 per cento. Inferiore alle attese anche il surplus della bilancia commerciale tedesca, in attivo per 19,4 miliardi, contro stime a 20 miliardi. 
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martedì 7 febbraio 2017

“L’euro è un disastro. Italia fuori subito.” Le frasi di sei premi Nobel dell’economia.

James Mirrless


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James Mirrless (Nobel 1996): “Non mi permetto di suggerire politiche per mutare la situazione attuale e mi sento a disagio nel fare raccomandazioni altisonanti, perché non ho avuto il tempo di valutarne le conseguenze. Però, guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso.”

Christopher Pissarides (Nobel 2010): “La situazione attuale non è sostenibile ancora per molto. E’ necessario abolire l’Euro per creare quella fiducia che i Paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro.”

Paul Krugman (Nobel 2008):”Adottando l’Euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica”

 Joseph Stiglitz (Nobel 2001): “Questa crisi, questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: l’euro”.

Amartya Sen (Nobel 1998): “L’euro è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa.”

Milton Friedman (1976): “La spinta per l’Euro è stata motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è stato quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere una possibile guerra europea impossibile, e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa. Io credo che l’adozione dell’Euro avrà l’effetto opposto. Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio in problemi politici di divisioni.”


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