Importare gas dagli Stati Uniti? Un paracadute indispensabile oggi come oggi, ma anche costoso per l’Europa: chi ha comprato Gnl «made in Usa» a dicembre ha speso almeno il 50% in più rispetto a chi si è rifornito dalla Russia. Ma qualcuno ha sborsato anche il quintuplo di quanto avrebbe pagato con Gazprom, se invece di importare direttamente dagli Usa si è rivolto a un intermediario, ad esempio Shell, Vitol o Trafigura, colossi del commercio di gas liquefatto.
Il confronto emerge da un’analisi del Sole 24 Ore, che ha cercato di mettere a fuoco le dimensioni della sfida – anche economica – per ricostruire il nostro sistema di approvvigionamenti energetici evitando la dipendenza da Mosca.
Una filiera lunga e complessa.
Che il Gnl, in generale, sia più caro delle forniture via gasdotto è intuitivo: dai giacimenti il gas dev’essere trasferito a impianti speciali, dove viene liquefatto a una temperatura di 162 gradi sotto zero che ne riduce il volume di circa 600 volte, poi c’è il trasporto su navi metaniere e infine, una volta a destinazione, bisogna rigassificare il carico. Ma in tutto quanto si spende?
Non c’è una risposta univoca che possa chiudere la questione, perché ci sono troppe variabili in gioco: dipende da quando e da come si effettua l’acquisto di gas, se si compra in modo occasionale (sul mercato spot) o con un contratto pluriennale: una sorta di abbonamento, che può durare anche 20-30 anni e che a sua volta può avere condizioni molto diverse, a seconda del fornitore e del cliente.
I dettagli – soprattutto la formula di calcolo che ogni mese aggiorna i prezzi – sono coperti in modo più o meno fitto da segreto commerciale, anche se il governo italiano ha da poco ottenuto che i contratti vengano trasmessi in via riservata all'Arera. «Abbiamo cercato di avere cognizione sui contratti di importazione di gas e non siamo riusciti – si è sfogato il premier Mario Draghi – Sono comportamenti non più tollerabili».
Fermo immagine.
L’analisi del Sole 24 Ore ha cercato un rigore metodologico, impiegando solo dati ufficiali: di qui la scelta di concentrarsi su dicembre 2021, l’ultimo mese che offre elementi di comparazione sufficienti. Il risultato – occorre chiarirlo subito – non è una fotografia da mettere in cornice: piuttosto è un fotogramma che ritrae una singola scena di un film denso di azione. La realtà è molto complessa, oltre che poco trasparente. Russi e americani non sono gli unici protagonisti, né esiste solo il gas, che compete con altre fonti, rinnovabili e non.
Con queste premesse, per gli Usa abbiamo usato le cifre del dipartimento dell’Energia (Doe), che registra l’esportazione di 111 carichi di Gnl a dicembre, per un totale di 345 miliardi di piedi cubi (Bcf) a un prezzo di vendita – liquefazione inclusa specifica il Doe – di 9,26 dollari per milione di British thermal units (MMBtu).
Bisogna districarsi nella giungla delle unità di misura, sempre molto fitta quando si parla di gas (il che non aiuta a dissipare malintesi e propaganda politica). Ma si evince che un carico di Gnl Usa è stato venduto in media per 28,7 milioni di dollari. Quello però è il prezzo Fob (Free on board o franco a bordo): tutto il resto si paga a parte.
Un calcolo necessariamente approssimativo porta a stimare un conto di 35,3 milioni di dollari (32,5 milioni di euro). Sono 415,3 dollari per 1.000 metri cubi di gas immesso in rete, contro i 273 dollari che Gazprom ha dichiarato di aver ottenuto – sempre a dicembre – per il gas esportato “Far Abroad”, ossia fuori dall’area ex sovietica.
Un paio di conversioni, per chiarezza e non pedanteria: si tratta di 34,5 euro per Megawattora (11 $/MMBtu) per il gas Usa e di 22,6 €/MWh (7,2/MMBtu) per quello russo.
A dicembre, quando il gas in Europa già macinava record, il prezzo medio al Ttf è stato 116,2 €/MWh o 37 $/MMBtu, contro appena 3,75 $/MMBtu all’Henry Hub americano.
Extra profitti anche in Cina.
Comprare Gnl a stelle e strisce è stato ancora più oneroso per chi non si è rivolto direttamente ai produttori (in Italia solo Enel, attraverso Endesa, ha un contratto per rifornirsi dall’impianto texano di Corpus Christi di Cheniere Energy): da un intermediario i carichi spot si comprano a prezzi di mercato e il riferimento europeo è il Ttf, che a dicembre indicava valori cinque volte più alti dei prezzi praticati da Gazprom.
Il conto saliva a più di 120 milioni per una metaniera Usa, di cui un centinaio finivano in tasca all’intermediario: a volte anche utility giapponesi o cinesi, che ci “aiutavano” girandoci qualcuno dei loro carichi contrattuali. Aberrazioni figlie di un mercato impazzito.
«Il prezzo al Ttf è ormai completamente dissociato dai costi produttivi del gas – commenta Massimo Nicolazzi, docente di Economia delle risorse energetiche all’Università di Torino – L’attuale meccanismo di formazione dei prezzi risente del costo crescente delle coperture dei trader, che alimenta la spirale rialzista».
Strategie di vendita a confronto.
I russi hanno costi di estrazione tra i più bassi del mondo (poco più di 1 $/MMBtu) e politiche commerciali molto diverse dai produttori Usa. Gazprom vende quasi tutto via gasdotto con contratti pluriennali che prevedono un volume minimo di forniture da pagare anche se non vengono ritirate: il famoso “Take-or-Pay”, che peraltro ci farebbe violare i contratti in caso di embargo o tagli troppo rapidi dell’import da Mosca.
Il prezzo del gas russo, un tempo indicizzato al petrolio, oggi per l’80% delle vendite è agganciato almeno in parte al Ttf, ma ne riflette l’andamento con un mese di ritardo o più: il “time lag” a volte lo rende super conveniente, altre induce a comprare solo i volumi obbligati.
Il Gnl Usa è molto più flessibile, non solo perché viaggia per mare: anche quello “contrattualizzato” non ha padroni forti, perché non ci sono clausole di destinazione e basta pagare una penale, oggi di 11-12 milioni di dollari, per liberare un carico in modo da dirottarlo altrove. Così le forniture tendono a spostarsi dove vengono pagate meglio.
Oggi per il 70% il gas americano arriva in Europa, ma in futuro chissà, probabile che dovremo contenderci i carichi con l’Asia e un tetto ai prezzi del Ttf rischierebbe di renderci un mercato poco appetibile. A meno che non firmiamo qualche contratto, che ci impegni «almeno fino al 2030» specifica la Casa Bianca, promettendo forniture crescenti.
Il peso delle spese extra.
Il gas Usa non è caro quando sale a bordo di una metaniera: i contratti di vendita di solito riflettono il prezzo all’Henry Hub con un ricarico del 15% più il costo di liquefazione (che Bank of America stima tra 2 e 3,25 $/MMBtu). Ma al conto, come si diceva, bisogna aggiungere gli extra.
In Italia per scaricare il Gnl, rigassificarlo e immetterlo in rete si pagano circa 4 milioni di euro per una nave spot da 150mila metri cubi liquidi, che allo stato gassoso diventano 90 milioni (poco più di quanto importiamo in un giorno dalla Russia).
Più complesso valutare il trasporto marittimo dagli Usa. Fanno altri 2,8 milioni di euro usando la media dei noli spot degli ultimi 12 mesi moltiplicata per 29 giorni (andata e ritorno, perché la nave torna vuota, più i tempi di caricazione).
«I noli delle metaniere – spiega Enrico Paglia, analista di Banchero Costa – sono sempre molto volatili e legati alla stagionalità: salgono d’inverno e calano a primavera, seguendo i consumi di gas nell’emisfero nord, ma negli ultimi mesi ci sono state oscillazioni estreme sul mercato spot con picchi oltre 250mila dollari tra novembre e dicembre, seguiti da un crollo, addirittura brevemente su valori negativi, poi una risalita di recente verso 40mila dollari al giorno. La media degli ultimi 12 mesi è di 77mila dollari al giorno».
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