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domenica 23 maggio 2021

Precipita la funivia Stresa-Mottarone, sale a 9 il bilancio delle vittime.

 

Vigili del fuoco e soccorso alpino sul posto. Due bambini gravi portati a Torino. Il cedimento della fune a 300 metri dall'arrivo in montagna. La cabina è precipitata in una zona impervia e boscosa.


E' salito ad 9 il bilancio delle vittime dell'incidente alla funivia del Mottarone, a Stresa. Lo confermano il Soccorso Alpino e il 118 piemontese. Sono morte sul colpo, mentre due bambini di 9 e 5 anni, in codice rosso, sono stati trasportati a bordo di due eliambulanze in codice rosso all'ospedale Regina Margherita di Torino.

Sul luogo dell' incidente, le squadre del Soccorso Alpino e Speleologico sono ancora al lavoro insieme ai Vigili del Fuoco e ai Carabinieri.

Sulla cabina della funivia Stresa-Mottarone precipitata c'erano- secondo quando si apprende - 11 persone. Due bambini sono stati portati in codice rosso, con le eliambulanze, a Torino. L'incidente sarebbe stato causato dal cedimento di una fune, nella parte più alta del tragitto che, partendo dal lago Maggiore arriva a quota 1.491 metri. Le corse durano una ventina di minuti.

Il cedimento della fune si è verificato a 300 metri dalla vetta della montagna dove c'è la stazione di arrivo. La cabina è crollata in un tratto boscoso e impervio, dove le operazioni di soccorso non sono facili. Sul posto stanno lavorando i vigili del fuoco del comando provinciale di Verbania, quelli del distaccamento di Gravellona Toce e di Stresa, in azione anche un elicottero dei vigili del fuoco e due del 118. La funivia del Mottarone è stata aperta il 24 aprile dopo il periodo di chiusura dovuta alle restrizioni Covid. L'impianto collega il Piazzale Lido di Stresa alla vetta della montagna che divide il Lago Maggiore da quello di Orta. Un tratto panoramico della durata di 20 minuti diviso in due tronconi.

ANSA

domenica 7 febbraio 2021

Ghiacci Himalaya precipitano in un fiume, si temono 150 morti.

Himalaia - Foto ANSA


Una parte di un ghiacciaio dell'Himalaya si è staccato ed è precipitato in un fiume indiano, provocando l'innalzamento delle acque che hanno travolto ponti e strade, superando una diga.
Finora sono tre le vittime accertate e 150 dispersi, secondo quanto riferito dalla polizia indiana.

Si tratterebbe degli operai che lavorano in una centrale elettrica sommersa dall'acqua.

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2021/02/07/ghiacci-himalaya-precipitano-in-un-fiume-si-temono-vittime_d965f4b6-259b-4970-888d-de8e7859fe9e.html


Non è bastato Grillo, non basta la Greta Thumberg, non bastano gli ecologisti di tutti i tempi ad arrestare la distruzione totale della terra che ci ospita!
I capitalisti, con la loro cupa cupidigia, mangiano tutto, finiranno col mangiarsi a vicenda...


mercoledì 11 novembre 2020

GIUSTIZIA & IMPUNITÀ Autostrade, 6 misure cautelari per ex e attuali manager: ai domiciliari l’ex ad Castellucci. “Attentato a sicurezza dei trasporti e frode”.


L'indagine avviata un anno fa è un filone nato dall'inchiesta sul crollo del ponte Morandi a Genova e riguarda le barriere fonoassorbenti sulla rete autostradale. Ai domiciliari l'ex amministratore delegato insieme a Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti, rispettivamente ex responsabile manutenzioni e direttore centrale operativo dell’azienda. Per gli investigatori emerge la "consapevolezza della difettosità delle barriere e del potenziale pericolo per la sicurezza".

Sapevano che le barriere fonoassorbenti erano difettose e del potenziale pericolo per la sicurezza, ma non hanno voluto procedere alla loro sostituzione e hanno occultato la loro pericolosità. Sono queste le accuse che hanno portato a tre arresti domiciliari e tre misure interdittive per gli ex vertici e alcuni degli attuali manager di Autostrade per l’Italia. Ai domiciliari sono finiti l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci, ma anche Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti, rispettivamente ex responsabile manutenzioni e direttore centrale operativo dell’azienda. Le misure interdittive, della durata di un anno, riguardano invece Stefano Marigliani, già direttore del primo tronco di Autostrade ora trasferito a Milano, Paolo Strazzullo, che era responsabile delle ristrutturazioni pianificate sul ponte Morandi, per l’accusa mai eseguite, distaccato a Roma, e Massimo Miliani di Spea, consociata di Aspi. La Guardia di Finanza ha eseguito le sei misure cautelari: le accuse ipotizzate sono attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture. L’indagine, avviata un anno fa, è un terzo filone nato dall’inchiesta principale legata al crollo del Ponte Morandi. È relativa alle criticità – in termini di sicurezza – delle barriere fonoassorbenti montate sulla rete autostradale ed è proseguita in parallelo a quella principale sul crollo del 14 agosto 2018 che causò la morte di 43 persone. Autostrade per l’Italia comunica di aver “attivato le procedure previste dal contratto per una immediata sospensione dal servizio” dei due tecnici ancora dipendenti coinvolti nell’indagine.

L’inchiesta della Procura di Genova, procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio e pm Walter Cotugno, parte da analisi dei documenti, indagini tecniche e testimonianze che hanno portato a “raccogliere numerosi e gravi elementi indiziari e fonti di prova in capo ai soggetti colpiti da misura”, si legge nel comunicato della Guardia di Finanza. In particolare, per gli investigatori emerge la “consapevolezza della difettosità delle barriere e del potenziale pericolo per la sicurezza stradale, con rischio cedimento nelle giornate di forte vento (fatti peraltro realmente avvenuti nel corso del 2016 e 2017 sulla rete autostradale genovese)”. Si parla delle barriere integrate modello ‘Integautos’ con specifico riferimento a quelle del primo tronco autostradale, dove sono stati registrati anche alcuni parziali cedimenti dei pannelli sulla A12.

“È emersa la consapevolezza di difetti progettuali e di sottostima dell’azione del vento, nonché dell’utilizzo di alcuni materiali per l’ancoraggio a terra non conformi alle certificazioni europee e scarsamente performanti”, si legge ancora nel comunicato. Che evidenzia anche altri due elementi. Da un lato, la “volontà di non procedere a lavori di sostituzione e messa in sicurezza adeguati, eludendo tale obbligo con alcuni accorgimenti temporanei non idonei e non risolutivi”. Infine, si ipotizza anche la frode nei confronti dello Stato, “per non aver adeguato la rete da un punto di vista acustico (così come previsto dalla Convenzione tra Autostrade e lo Stato) e di gestione in sicurezza della stessa, occultando l’inidoneità e pericolosità delle barriere, senza alcuna comunicazione – obbligatoria – all’organo di vigilanza (ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti)”.

Castellucci non è più amministratore delegato di Aspi da settembre 2019, quando a un anno dal crollo del Ponte Morandi lasciò la guida della holding Atlantia concordando una buonuscita da 13 milioni di euro. Successivamente, nel dicembre dello stesso anno, il gruppo guidato dalla famiglia Benetton decise di sospendere la seconda rata del pagamento per “elementi sopravvenuti emersi dalle indagini in corso”. Quando la buonuscita fu concordata però erano già noti i tentativi di ostacolare le intercettazioni con l’utilizzo dei disturbatori di frequenze, le registrazioni dei dialoghi tra i manager addetti alle manutenzioni che strepitavano per risparmiare sui lavori e anche la circostanza secondo cui uno dei funzionari di Autostrade condannati in primo grado per la strage del bus ad Avellino non abbia raccontato tutto durante il processo. Un processo in cui l’ex ad Castellucci è stato assolto perché “nessuna norma imponeva la sostituzione delle barriere”.

La nota di Aspi – Autostrade per l’Italia “ha attivato le procedure previste dal contratto per una immediata sospensione dal servizio” dei due tecnici dipendenti coinvolti nell’indagine, si legge in una nota della società, in cui si precisa che gli altri 4 coinvolti sono già ex manager. “L’indagine della Procura di Genova, che ha portato stamane a misure cautelari nei confronti di 4 ex manager di Aspi e di due tecnici (uno del Tronco genovese e l’altro trasferito presso il Traforo del Monte Bianco), riguarda una specifica tipologia di barriere integrate anti-rumore, denominate “Integautos”, presenti su circa 60 dei 3000 km di rete di Autostrade per l’Italia”. Aspi sottolinea poi che “la totalità di queste barriere è già stata verificata e messa in sicurezza con opportuni interventi tecnici tra la fine del 2019 e gennaio 2020, nell’ambito del generale assessment delle infrastrutture messo in atto dalla società su tutta la rete autostradale”.

“La società era venuta a conoscenza delle attività di indagine lo scorso 10 dicembre 2019, a seguito di un provvedimento di sequestro di documentazione notificatole dalla Guardia di Finanza di Genova, come reso noto dalla società stessa nella successiva trimestrale”, si legge nella nota. “Per tali infrastrutture è stato parallelamente definito a inizio 2020 un piano di sostituzione – spiega ancora Aspi – di intesa con il Dicastero concedente, articolato in tre fasi: una prima fase propedeutica agli interventi, attualmente in corso. Una seconda fase, che prevede la sostituzione delle barriere nei punti maggiormente esposti a impatto acustico, pianificata dalla seconda metà del 2021. Una successiva terza fase completerà invece la sostituzione sugli altri punti”. “La spesa per la totalità degli interventi di sostituzione, pari a circa 170 milioni di euro, è già stata autorizzata dal Consiglio di amministrazione di Aspi dell’aprile 2020 e sarà a completo carico della società”, puntualizza Autostrade, aggiungendo che “tutte le procedure di controllo e di sicurezza, nonché le soluzioni progettuali per la sostituzione delle barriere, sono stati definiti con gli organi tecnici preposti del ministero delle infrastrutture e trasporti”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/11/autostrade-6-misure-cautelari-nei-confronti-di-ex-e-attuali-manager-ai-domiciliari-lex-ad-castellucci-attentato-a-sicurezza-trasporti-e-frode/5999467/

Leggi anche: 

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/11/11/autostrade-lintercettazione-dellarrestato-40-morti-di-qua-43-di-la-stiamo-tutti-sulla-stessa-barca-lex-dirigente-condannato-per-la-strage-di-avellino-sullex-ad-castellucci-se-dicev/5999647/

sabato 27 giugno 2020

Wirecard, lo schianto tedesco con il suo gioiello tecnologico. - Uski Audino

Wirecard, lo schianto tedesco con il suo gioiello tecnologico

La società dei pagamenti che sfidava i colossi del web imbarazza la Germania, tra coperture politiche ed errori della vigilanza.
“Tutte le strade portano al successo”, era scritto fino a ieri sul sito di Wirecard, la società di servizi finanziari e pagamenti elettronici finita al centro del più grande scandalo finanziario tedesco dalla Riunificazione. Ma tanto ottimismo non gli ha portato bene. Le strade ieri hanno portato il gioiello della finanza tecnologica a presentare richiesta di insolvenza al Tribunale di Monaco e l’ex ceo dell’azienda, Markus Braun, in una cella della procura con l’accusa di falso in bilancio e manipolazione di mercato. Dalle stelle del Dax alle stalle della bancarotta. Una prima assoluta nella storia tedesca. Braun è uscito dalla custodia cautelare grazie al pagamento di una cauzione da 5 milioni di euro, ma sulla sua testa pende un’accusa molto grave: truffa. Dal bilancio della società mancano all’appello 1,9 miliardi di euro (il 255 del totale) depositati in due banche delle Filippine. Sono scritti in bilancio, ma non ci sono estratti conto che ne confermino l’esistenza. Le somme sui conti fiduciari a favore di Wirecard per un totale di 1,9 miliardi di euro molto probabilmente non esistono”, ha detto la portavoce delle autorità inquirenti.
L’ipotesi è che Braun volesse “far apparire l’azienda finanziariamente più forte e più attraente per gli investitori e i clienti”, dicono dalla Procura. La scelta della società di presentare ieri “un procedimento di insolvenza per il rischio di incapacità di pagamento e sovraindebitamento” fa mormorare. Che l’ammanco sia maggiore? Due terzi delle vendite, dicono fonti vicine ai creditori, potrebbero essere state falsificate. I 15 istituti bancari che hanno prestato a Wirecard 1,85 miliardi fanno sapere di “non aver staccato la spina”. Quanto duri, non si sa. Intanto il titolo ha perso l’80% del valore in pochi giorni. Per avere un’idea del tonfo basti pensare che all’ingresso in Borsa nel settembre 2018 l’azienda valeva 24,6 miliardi e ora ne vale circa 3, mentre le azioni vendute a 190 euro, ieri erano scambiate a 9,96. Con buona pace dei piccoli azionisti.
Tutto comincia a inizio 2019 quando l’azienda, fondata nel 1999 nella periferia di Monaco dall’allora 30enne austriaco Braun, subisce una perquisizione nella sede di Singapore. In quell’occasione il Financial Times scrive che i conti sul mercato asiatico potrebbero essere stati “abbelliti”. Il risultato è che le azioni sprofondano da 160 a 99 euro. Braun grida al complotto. L’autorità di vigilanza bancaria tedesca, il Bafin, per tutta risposta vieta di scommettere contro le azioni di Wirecard per due mesi e, invece di aprire le indagini, querela i giornalisti. Nell’ottobre 2019 FT torna a scrivere dell’azienda e la scena si ripete. Questa volta la stampa finanziaria tedesca si allarma, aspetta che il Bafin intervenga, ma lo dice sottovoce per non turbare la sensibilità di chi vuole continuare ad andar fiero di quel gioiello tecnologico made in Germany in competizione con i colossi del web. Per allontanare le critiche Wirecard incarica come revisori la società Kpmg. In aprile il responso: “L’azienda non ha fornito tutti i documenti richiesti” e “non è stato possibile verificare in modo sufficientemente approfondito l’esistenza dei volumi delle transazioni nel periodo dal 2016 al 2018”. In parallelo Ernst & Young, che lavorano alla certificazione del bilancio 2019, giovedì non lo certificano. Le due banche filippine dicono di non avere tra i loro clienti Wirecard e che i documenti sono stati falsificati.
Il ministro tedesco dell’Economia, Peter Altmaier, si dice scioccato: “Ci saremmo aspettati una situazione del genere ovunque, ma non in Germania”. Il danno di immagine per il Paese è serio. Più mirata è la reazione del ministro delle Finanze, Olaf Scholz, che punta il dito contro la Vigilanza: “Dobbiamo chiarire rapidamente come modificare i nostri requisiti normativi per monitorare in modo completo, tempestivo e veloce anche le reti aziendali complesse”, “revisori e autorità di vigilanza non sono stati efficaci”. Felix Hufeld, presidente del Bafin, ammette “il completo disastro”. Ci vorrà più di un mea culpa nell’audizione in commissione Finanze il primo luglio.
La stampa tedesca ora si chiede come l’illusione Wirecard sia potuta durare tanto. “Per troppo è stata vista come una piantina fragile cresciuta in casa che doveva essere protetta”, ha detto il deputato tedesco Fabio De Masi. Era il sogno che la Germania voleva sognare: guardare i giganti Usa del web “all’altezza degli occhi”.

mercoledì 8 aprile 2020

Crolla ponte Massa Carrara ferito l'autista di un furgone.

Un ponte è crollato ad Aulla, in provincia di Massa Carrara, sulla strada provinciale 70. Il ponte si trova in località Albiano e collega la Sp70 con la Sp62.
Il ponte è al confine tra Liguria e Toscana, in località, Albiano Magra (Massa Carrara), lungo una strada provinciale che collega la bassa Val di Vara con la Val di Magra (La Spezia).
Dalle prime informazioni risulta che due veicoli in transito sono rimasti coinvolti dal crollo. Si tratta di due furgoni precipitati sul letto del fiume e rimasti sopra la carreggiata collassata.
C'è un ferito trasportato in codice giallo all'ospedale in seguito al crollo del ponte ad Albiano Magra. Sarebbe il conducente di un furgone. Un altro autista sempre di un furgone sarebbe invece rimasto praticamente illeso a parte lo choc. E' quanto si apprende da fonti sanitarie.
Il 3 novembre scorso al ponte crollato stamani ad Albiano Magra (Massa Carrara) ci fu un sopralluogo dei tecnici Anas, da cui dipende l'infrastruttura, dopo che era stata rilevata una crepa sull'asfalto, ingrandita dalle abbondanti piogge. Ma dai controlli fu dichiarato che non sussistevano "condizioni di pericolosità". A riferirlo è Gianni Lorenzetti, presidente della Provincia di Massa Carrara che alcuni anni fa ha ceduto la struttura ad Anas.
Il sopralluogo, ricorda, fu fatto alla presenza anche dell'assessore comunale di Aulla e della polizia. Lo stesso Comune rassicurò i cittadini con un post sulla pagina istituzionale informando che "il traffico non avrebbe subito limitazioni". "Il ponte - aggiunge Lorenzetti - è importantissimo per la popolazione dell'alta Lunigiana, punto di collegamento sia con i primi territori della Liguria sia con il resto della Toscana".
La ministra delle infrastrutture e dei trasporti, Paola De Micheli, sta seguendo la vicenda riguardante il crollo del ponte sul fiume Magra e - secondo una nota del Mit - ha contattato il sindaco del Comune, Roberto Valettini, per accertarsi delle condizioni di salute della persona coinvolta che, stando alle prime informazioni, sembra avere riportato lievi ferite. La ministra ha inoltre chiesto immediatamente una dettagliata relazione ad Anas, la società che nel 2018 è diventata gestore dell'ex strada provinciale 70, acquisendo la gestione dalla Provincia di Massa Carrara. Gli accertamenti sono in corso e Anas, su richiesta del ministero delle infrastrutture e dei trasporti, provvederà a fornire tutte le informazioni conseguenti sulla viabilità.
"E' collassato su stesso". Così il sindaco di Aulla Roberto Valettini descrive la situazione del ponte che stamani è crollato nella frazione di Albiano Magra, al confine tra Toscane e Liguria. Il sindaco ha effettuato un sopralluogo sul luogo del crollo. Il ponte è lungo circa 400 metri e alto 7-8 mtri circa. Passa sopra il fiume Magra che attualmente non ha una grande portata.
"Se non ci mettiamo SUBITO a lavorare sui cantieri con il piano Shock - presentato ormai da molti mesi - ogni anno andrà peggio. E se non lo facciamo in questa fase di crisi vuol dire che ci vogliamo del male. Apriamo questi benedetti cantieri, subito". Così Matteo Renzi su fb dopo che stamattina è crollato un ponte vicino a Aulla.
"Quanto tempo dovrà ancora passare, e quanti altri crolli dovremo tragicamente ancora vedere, prima che in questo Paese il tema infrastrutture dello Stato venga affrontato con la serietà, le risorse e le competenze necessarie?". E' il commento dell'assessore alle Infrastrutture della Regione Liguria Giacomo Giampedrone stamani via fb sul crollo del ponte sul fiume Magra in provincia di Massa Carrara. "Vicini alla Toscana e agli amici di Aulla. La Protezione Civile della Liguria è totalmente a disposizione per qualsiasi necessità che si dovesse verificare per la gestione di questa nuova emergenza" sottolinea.
La Regione Liguria ha offerto "tutto il supporto possibile" alla Toscana attraverso il polo della protezione civile di Santo Stefano Magra che ha pronta una colonna mobile. La Regione Liguria si attiverà anche per valutare i disagi nello spezzino conseguenti all'interruzione "di un collegamento molto importante per la mobilità in zona".

lunedì 1 luglio 2019

Ponte Morandi, le immagini inedite della tragedia: il crollo ripreso dalla videosorveglianza.



Per la prima volta da quella mattina del 14 agosto, tutto il mondo può vedere il crollo del ponte Morandi di Genova. Questa mattina la Procura ha autorizzato la diffusione del video ripreso dalle telecamere private dell"azienda "Ferrometal", che si trovava a pochi passi dal viadotto Polcevera. Il video era stato sequestrato dai militari della Guardia di Finanza, su ordine dei pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, subito dopo la tragedia. Ed è rimasto segreto fino ad oggi, perché secondo l"€™accusa la sua visione avrebbe potuto influenzare le tantissime testimonianze raccolte durante le indagini dai magistrati. Ora che l'atto è stato depositato nell'ambito del secondo incidente probatorio, la Procura ha dato l'ok alla diffusione. Il video è considerato la "prova regina" della Procura sulle cause e sulla dinamica del cedimento della pila 9: nelle immagini si vede chiaramente lo "strallo", il tirante lato sud, cedere: una frazione di secondo dopo cede l'impalcato, inghiottendo auto e camion che stavano attraversando il ponte. La società Autostrade ha subito risposto con un comunicato: "Ad oggi, sulla base del video e dei parziali risultati del primo incidente probatorio non è possibile "€" ad opinione degli esperti di Autostrade per l"€™Italia - affermare che il crollo sia stato determinato dal cedimento dell"€™attacco degli stralli. I consulenti di Aspi continueranno a collaborare affinché le cause del crollo vengano accertate, comparando anche le risultanze dei diversi filmati messi a disposizione, che hanno diversi livelli di elaborazione delle immagini rispetto all"€™originale". Quel giorno a Genova morirono 43 persone. (testo di Marco Lignana).

https://www.youtube.com/watch?v=a-LfXohbn0U

lunedì 12 novembre 2018

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia). - L. Luccarini

L’Euro va in pezzi, ma a Bruxelles e Francoforte fanno ancora finta di nulla (ed incolpano l’Italia) di L. Luccarini
L’Euro Currency Index rappresenta il rapporto di quattro valute principali rispetto all’euro: dollaro USA, sterlina britannica, yen giapponese e franco svizzero ed è quindi è una specie di unità di misura della sua forza relativa.
All’apice, o quasi, della crisi del 2008/2009, con l’economia americana quasi in ginocchio dopo il fallimento di Lehman Brothers, raggiungeva il suo massimo con un valore di 112,50.
La valuta continentale si segnalava, in quel frangente, come una sorta di  “bene rifugio”.
Dieci anni dopo tuttavia la situazione appare del tutto rovesciata.
Da quei massimi infatti l’Euro Currency Index ha iniziato una discesa fino all’attuale valore, poco sopra 93. Che segnala un deprezzamento complessivo della moneta di circa il 20%. Che vuol dire che il denaro di cui disponiamo ha perso 1/5 del suo potere acquisto nel mercato globale.
E tutto questo è avvenuto nonostante il rapporto dell’Euro con il Dollaro, pur nell’ambito di una tendenza ribassista di fondo, si sta cercando in qualche modo di “stabilizzare” per effetto delle politiche dell’amministrazione Trump, rivolte ad una sorta di “svalutazione competitiva” della divisa americana (figura. 1.1).
Ma che evidentemente non sono bastate fino ad ora a compensare i motivi che determinano l’attuale debolezza della nostra moneta.
Capire cosa abbia determinato questa dinamica può servire anche per far comprendere che la crisi di credibilità in cui versano tutte le istituzioni europee, BCE compresa, impone che il ricambio ai loro vertici, previsto per tutto l’arco del 2019, sia accompagnato da un deciso mutamento di rotta nelle politiche economiche e finanziarie.
Altrimenti i cosiddetti “piani B”, più che remote eventualità, potrebbero diventare ineluttabili per diversi Stati, non solo il nostro. Certo, il valore dell’Euro è depresso perchè, come vogliono la logica e la dottrina tradizionale, la remunerazione delle attività che vi sono rappresentate è minore rispetto a quelle di altre aree valutarie.
Ma questo fenomeno non si spiega sulla base dei soli tassi di crescita delle diverse economie, dal momento che il GDP degli Stati Uniti – ad eccezione di quanto sta avvenendo in questo 2018 – ha fatto registrare negli ultimi valori tra l’1,5% ed il 2,5%% più o meno quindi paragonabili a quelli dell’Eurozona. E neppure sulla base dei tassi di interesse, che BCE ha mantenuto per un certo periodo marginalmente positivi, rispetto al loro azzeramento che la Federal Reserve dispose già nel 2009.
Dunque, il motivo del trend discendente risiede in altro. E con ogni probabilità è rappresentato da come la Germania, paese leader nell’area, ha utilizzato gli enormi surplus che intanto stava accumulando. Praticamente non utilizzandoli.
Parliamo peraltro di grandissimi aggregati finanziari. Quello derivante dalla crescita dell’avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, che secondo certi studi a partire dal 2001 è arrivato ad una cifra pari a quasi 3.500 miliardi, corrispondente grosso modo ad un intero suo PIL. Quello che poi si è determinato in conseguenza dei trasferimenti di denaro intra-market che l’hanno portata a detenere un saldo finanziario di circa 900 miliardi, triplicato rispetto a quello di cui disponeva nel 2007, come si vede nella figura 1.2 che riflette i dati Target2.
Il motivo per cui la Germania non adopera questi attivi è oggetto di diverse interpretazioni, tutte plausibili e al tempo stesso opinabili. Perciò per il momento ne prescindiamo. Fatto sta che Berlino da tempo non persegue più economie di stimolo alla domanda interna (che risulta frenata anche dal limitato tasso di crescita dei salari reali) e neppure si sogna di aumentare gli investimenti pubblici, che non hanno mai superato la quota del 20% del PIL, ponendosi al di sotto della media degli stessi partner europei. Si limita, piuttosto, ad un regime di accumulazione, per così dire, “passiva” di risorse finanziarie.
Che in questo modo, non offrendo rendimenti di alcun genere, analogamente a quanto avviene quando un individuo lascia giacere i suoi soldi sul proprio conto corrente senza impiegarli in alcun modo, si svalutano e basta.
Il problema, alla fine, potrebbe essere tutto della Germania, se non fosse che gran parte della liquidità dell’Eurozona continua a riversarsi proprio su quel paese, impoverendo finanziariamente quasi tutti gli altri. E tra questi, come si vede chiaramente dalla figura 1.2, in particolar modo l’Italia. Il problema, dunque, diventa di tutti ed incide sulla quotazione dell’Euro. Che perciò si indebolisce.
Ora, come noto, il fatto che una moneta si svaluti può offrire a chi se ne serve un vantaggio, in termini di maggiori esportazioni dei suoi beni e servizi. Ed è ciò che la Germania è riuscita ad ottenere negli ultimi anni, alimentando così la propria posizione finanziaria positiva con l’estero, che peraltro è migliorata anche in altri paesi dell’UE, compresa l’Italia.
Questo beneficio però deve essere valutato anche in relazione alla situazione attuale dell’Unione Europea che, nata come un’associazione di Stati che dovevano favorire il reciproco sviluppo in un ambito di libera concorrenza tra loro (come erano all’origine il MEC e poi la CEE) si è sempre più trasformata in un modello quasi “Sovietico”, fondato su una serie di pianificazioni e vincoli di bilancio che sottraggono libertà economiche ai suoi membri.
Non v’è dubbio in effetti che l’Euro è sostanzialmente un sistema di “cambi fissi” tra le 19 nazioni che lo hanno adottato come moneta e perciò la ripartizione delle quote di mercato all’interno della relativa area tende ad irrigidirsi, in assenza di una “leva monetaria” che possa consentire ad un paese di guadagnare competitività nei confronti dell’altro.
Donde la necessità per ciascuno Stato di operare sulla componente “costo del lavoro”, con la conseguente compressione della dinamica salariale interna (e degli stessi diritti dei lavoratori) per alimentare la propria percentuale di “export”, nel frattempo divenuta la principale componente positiva della sua economia. Donde la (neppure troppo) strisciante deflazione che si è realizzata negli ultimi anni in Europa. Che spiega a sua volta la svalutazione della moneta.
E’ questo, peraltro, un classico “cul de sac”, in cui deflazione chiama svalutazione, che a sua volta implica ulteriore deflazione e via dicendo. E che ben si rappresenta nell’andamento del Bund decennale che con il suo rendimento stabilmente sotto lo 0,5%fornisce la proiezione ciclica di una crescita piatta (se va bene) della domanda interna di tutta l’Eurozona.
D’altra parte il Bund non può che offrire che queste miserie, dal momento che la Germania opera una modesta richiesta di denaro al mercato e così facendo sostiene i prezzi dei suoi Titoli di Stato e contiene il relativo onere per interessi molto al di sotto della media degli altri partner/concorrenti. Mentre l’opposto avviene in paesi come l’Italia, dove l’elevata offerta di obbligazioni determina un calo dei relativi prezzi (ed un conseguente aumento dei rendimenti). Ed il divario tra le nazioni dell’Unione continua così ad allargarsi.
In questo quadro di relazioni, tra i paesi dell’Eurozona e dell’UE con l’esterno, è chiaro che un qualsiasi calo congiunturale della domanda globale rischia di far saltare tutti i residui equilibri, già molto precari.
E’ bastato in fondo un accenno di protezionismo da parte degli Stati Uniti per far rotolare tutte le stime che ancora a febbraio davano per certa una crescita in Europa “robusta e al di sopra delle più rosee aspettative”, come affermato da Mario Draghi e dalla stessa Commissione.
E le politiche monetarie di BCE non hanno certo offerto adeguati strumenti per consentire a tutti i paesi dell’area di affrontare nuove possibili tensioni finanziarie e le sfide dell’economia globale. “Tassi zero” che non hanno generato alcuna forma di rilancio dell’economia, se non giusto una breve fase di rimbalzo, appiccicata come una sanguisuga alle dinamiche del resto del mondo.
Una domanda interna complessiva sempre troppo debole, anche perché scarsamente alimentata dalla spesa pubblica, oggetto di attenzione quasi ossessionante da parte delle istituzioni UE. E, per converso, nessuna significativa diminuzione del debito degli Stati in termini assoluti come effetto di questo controllo.
Persino lo stesso lieve incremento di inflazione registrato nell’ultimo anno pare dovuto più che altro alla spinta esogena del costo delle materie prime (il cui indice di riferimento è passato da un livello 160 a 200/210) e quindi rischia di produrre solo ulteriori effetti depressivi.
Infine il vero pasticcio, generato, sul piano puramente finanziario, da un sistema di acquisti in Quantitative Easing ancorato alle quote di partecipazione delle singole Banche Centrali al capitale BCE, che ha finito soltanto per fornire ulteriore benzina alle quotazioni del Bund, giunte ormai al livello di un’autentica “bolla speculativa”.
E che in ogni caso giovano soltanto ad un paese. Il più ricco, che diventa sempre più ricco nel rapporto con gli altri componenti del “club Euro”, tutti obbligati a maggiori oneri per interessi sul debito. Quello che dovrebbe perciò in qualche modo alimentare valori aggiunti in tutta l’area e che, al contrario, tiene stretti i suoi averi come Zio Paperone nel suo deposito.
Potendone tutto sommato assorbire la conseguente svalutazione senza grossi danni, anzi giovandosene per aumentare la sua quota di esportazioni e i conseguenti flussi finanziari in entrata. Anche dagli altri partner europei, tutti ormai trattati alla stregua di concorrenti da spremere, far indebitare e quindi definitivamente soggiogare alle sue politiche. In fondo la fotografia più attendibile del periodo non può che arrivare dalla stessa Germania.
Ed è (figura 1.3) l’andamento del principale indice di borsa tedesco, il Dax che, da febbraio di quest’anno, fa segnare uno scostamento di valori nei confronti dello S&P americano di circa il 16%. A cui va aggiunta una svalutazione dell’Euro rispetto al Dollaro, nello stesso periodo, di quasi il 10%.
Siamo partiti da quel mese di febbraio in cui Draghi ha dichiarato al Parlamento Europeo che la ripresa si espandeva con una crescita “più forte di quanto previsto in precedenza, distribuita più equamente tra settori e aree geografiche rispetto a qualsiasi altro momento dopo la crisi finanziaria”.
Per la cronaca, il Dax è tornato sui livelli di prezzo dell’inizio del 2017 e la sensazione è che debba scendere ancora.
E, sempre per la cronaca, ma soprattutto a beneficio di quelli che si fanno sempre 4 risate di fronte a queste evidenze, segnalo che – come può vedersi nel grafico – l’andamento del Ftse italiano è perfettamente sovrapponibile a quello della borsa tedesca. Non origina dunque da casa nostra il problema.
Non abitano qui i “cialtroni”.
Fonte: stopeuro del 9 novembre 2018

mercoledì 26 settembre 2018

Ponte Genova, il ministero: «Autostrade rinviava i lavori per far rincarare i pedaggi». - Maurizio Caprino

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Avrebbero risparmiato persino sulla manutenzione “spicciola” del Ponte Morandi, per poter poi fare tanta costosa manutenzione straordinaria. Che, contrariamente a quella ordinaria, si può far molto pesare per rincarare i pedaggi. Bisogna arrivare a pagina 84 (sulle 88 complessive di testo principale) della relazione della commissione ispettiva ministeriale sul crollo del Ponte Morandi per leggere quella che forse è l’accusa più grave mossa finora dal Governo ad Autostrade per l’Italia (Aspi) dopo la tragedia del 14 agosto.

Un’accusa alla quale la società controllata dai Benetton non pare aver replicato esplicitamente nel comunicato seguito alla pubblicazione della relazione sul sito del ministero, ma che andrebbe comunque dimostrata fino in fondo dalla Procura di Genova per essere utilizzata ai fini del processo ai responsabili del disastro. Andrebbe infatti accertato che i vertici di Aspi hanno consapevolmente scelto questa politica proprio per ottenere quella «massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali» di cui parla la relazione ministeriale.

Ma di sicuro su quest’accusa farà leva il Governo per andare avanti con la procedura di «caducazione» della concessione di Aspi, avviata già il 16 agosto. Un iter che, come quel giorno chiarì il premier Giuseppe Conte, non attenderà l’esito del processo. Ma di sicuro durerà molto e forse addirittura di più, considerato che poi probabilmente Aspi si opporrà alle decisioni governative, con ricorsi al Tar e/o al Tribunale civile.

Meno manutenzione, più corrosione.
Per argomentare la loro accusa, i commissari ministeriali parlano di «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordinaria». Come la mancata pulizia degli scarichi dell’acqua piovana, «segnalata con frequenza nelle schede di ispezione trimestrale».E già nel 1981 il progettista del viadotto, Riccardo Morandi, aveva rilevato infiltrazioni d’acqua nei «cassoni» - cioè all’interno degli impalcati (parti orizzontali di cemento sui cui si trova l’asfalto) che sono sostenuti dai piloni - che avevano innescato processi di corrosione. 

Un particolare importante, nella ricostruzione che fanno i commissari: secondo loro, le cause più probabili all’origine del crollo sarebbero proprio cedimenti negli impalcati cassonati e non negli stralli (le grandi “bacchette” di calcestruzzo che scendono oblique dall’estremità superiore delle «antenne», i tre piloni più alti del viadotto per completare il sostegno dei cassoni, che poggiano su «cavalletti» posti in corrispondenza di questi piloni), su cui invece pare si concentrino soprattutto i periti nominati dalla Procura di Genova.

La minimizzazione degli interventi è denunciata dalla relazione ministeriale anche per le condizioni di usura degli impalcati tampone (le parti orizzontali di cemento che stanno sospese, con gli estremi appoggiati sugli impalcati a cassone). Durante le normali ispezioni periodiche, era emerso che alcuni cavi metallici di armatura delle travi (le parti longitudinali che compongono la parte bassa degli impalcati tampone) erano rotti. Secondo i commissari, si sarebbe potuto ipotizzare con «alta probabilità» che la rottura dei cavi riguardasse tutti e 10 gli impalcati tampone da cui è costituito il viadotto.

Eppure «Aspi aveva effettuato interventi di rinforzo solo su tre di questi», mentre i rimanenti - quelli della parte ovest verso Savona non toccata dal crollo, dove non ci sono le pile alte con gli stralli ma i periti della Procura in effetti hanno riscontrato quasi subito un «degrado rilevante e diffuso» - non era stato ancora «previsto alcun intervento, per ragioni ignote a questa Commissione».

Sottovalutazioni e ritardi.
In generale, i commissari si soffermano molto su problemi riscontrati nelle ispezioni periodiche su varie parti del viadotto. Soprattutto per evidenziare la sottovalutazione nel classificarli (con voti) e il ritardo con cui sono stati sanati (quando lo sono stati), anche quando la gravità riconosciuta dagli stessi ispettori avrebbe comportato interventi in somma urgenza (secondo il manuale sulla manutenzione programmata predisposto proprio da Aspi).

Proprio i ritardi avrebbero contribuito a degradare il ponte sempre più. La relazione ministeriale sembra suggerire che l’intento del gestore fosse quello di arrivare alla fine a massimizzare i costi della manutenzione straordinaria da far riconoscere ai fini dei rincari del pedaggio, ma invece nel caso del Ponte Morandi l’effetto dei ritardi, unito alla sottovalutazione dei rischi potenziali, è stato il crollo.

Guerra di cifre sui costi.
In altre parole, non si sarebbe fatto in tempo a spendere i soldi che ormai erano divenuti necessari per mantenere aperto il viadotto. La relazione ministeriale vuole dimostrarlo anche evidenziando che dal 2005 a oggi (cioè dopo il primo quinquennio di gestione Aspi) per gli interventi non strutturali sul Ponte Morandi si sono spesi 8,7 milioni, per quelli strutturali appena 440mila euro (circa 23mila l’anno). Prendendo in considerazione la vita del viadotto dal 1982 in poi, appena il 2% dei costi per interventi strutturali è stato sostenuto da Aspi: il 98% era stato a carico della precedente gestione, quella statale dell’Iri.

Aspi nel suo comunicato di ieri obietta che non avrebbe dovuto spendere nulla di più: il grosso dei costi per interventi strutturali sarebbe stato dovuto alla necessità di correggere i difetti di costruzione del Ponte Morandi (su cui non a caso l’amministratore delegato Giovanni Castellucci ha battuto fin dalle sue prime dichiarazioni dopo il crollo), venuti fuori già durante la gestione Iri.

Ma i commissari scrivono che la spesa di Aspi si è mantenuta bassa «nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado». Quindi anche per il gestore privato ci sarebbe stato da spendere.

L’autodifesa del ministero.
La minimizzazione, secondo i commissari, non riguardava solo le decisioni di effettuare lavori, ma anche il modo in cui il progetto di rinforzo («retrofitting») degli stralli del viadotto che stava per essere attuato era stato presentato al ministero delle Infrastrutture. L’operazione era stata definita solo come un mero ripristino conservativo dell’opera.

Ciò avrebbe tratto in inganno gli organi ministeriali dalla cui approvazione era passato il progetto, inducendoli a non far intervenire il Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Ciò avrebbe comportato un’approvazione “meno accurata”, a causa della quale ora tra gli attuali indagati per il crollo ci sono anche membri del Comitato tecnico amministrativo dell’ufficio territoriale del ministero, il Provveditorato alle opere pubbliche.

Dunque, un’accusa pesante come la minimizzazione di interventi e problemi per massimizzare i profitti serve anche al ministero per allontanare da sé sospetti che, nelle prime settimane dell’inchiesta penale sulla vicenda, si erano fatte sempre più imbarazzanti.

Il modo di operare di Autostrade.
In ogni caso, il tono complessivo della relazione sembra suggerire che la noncuranza facesse parte del modo di Aspi di gestire la propria rete, pari a metà delle autostrade italiane: dal fatto che gli utenti sarebbero stati utilizzati come inconsapevoli cavie alla mancata preoccupazione per le incertezze dei metodi adottati per valutare il degrado del viadotto (aspetto già emerso almeno riguardo agli stralli fin dalle prime battute dell’inchiesta della Procura), fino alle risposte dei dirigenti di Aspi sentiti dai commissari.

D’altra parte, la relazione non li cita, ma gli episodi importanti emersi nella gestione della rete di Aspi che potrebbero confermare il sospetto di noncuranza si sono moltiplicati in questo decennio e sono di certo noti ai commissari. Dal degrado accertato delle barriere che avrebbe concorso a far precipitare un bus dal viadotto Acqualonga dell’A16 presso Avellino il 28 luglio 2013 (altri 40 morti, sentenza di primo grado attesa per il prossimo dicembre con imputati anche dirigenti di Aspi tra cui l’amministratore delegato, Giovanni Castellucci) alla mancata manutenzione degli impianti antincendio del delicatissimo tratto urbano bolognese dell’A14 (vi morì bruciata una ragazza a giugno 2013). Dai sequestri del 2014 sull’Autosole delle vecchie barriere del tratto appenninico dell’A1 presso Firenze (lasciate sui viadotti per anni in attesa dei lavori di ampliamento del tratto a sud della nuova Variante di valico) e a fine 2013 del cavalcavia dello svincolo di Ferentino (costruito male da un’impresa in odor di camorra che si era aggiudicata vari lavori di Aspi) al crollo di un portale segnaletico (di quella stessa impresa) a Santa Maria Capua Vetere nel 2011. Fino al crollo di un cavalcavia dell’A14 a Camerano (Ancona) il 9 marzo 2017 con due morti, nell’ambito dei lavori per la terza corsia che avrebbero richiesto massima attenzione perché si svolgevano a traffico aperto.