Bizzarro e bizzoso, arriva da Napoli a Roma sull'auto privata e rifiuta l'assegno e l'alloggio al Quirinale. Fra 10 giorni le camere si riuniranno per eleggere il nuovo presidente della Repubblica, il 12esimo. Finora ne abbiamo avuti 11 in 67 anni. Il Fatto Quotidiano li racconta a puntate.
Il primo presidente della neonata Repubblica Italiana è un monarchico e ha 69 anni: Enrico De Nicola, napoletano, politico liberale, avvocato penalista e insigne giurista, che eccezionalmente detesta la retorica (“è il cloroformio delle Corti d’Assise”), ma bada molto alle forme. Ed è proprio per una questione di forme che, il 28 giugno 1946, viene eletto capo provvisorio dello Stato. All’indomani del referendum istituzionale del 2 giugno, che ha sancito per un soffio e tra mille polemiche di brogli la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, le massime cariche dello Stato sono occupate da due settentrionali fieramente repubblicani: il trentino Alcide De Gasperi al governo, il piemontese Giuseppe Saragat alla Costituente. Bisogna dare un contentino al Sud, che ha votato in massa per Casa Savoia e si sente più che mai estraneo alla vita politica, tutta dominata dal “vento del Nord” resistenziale. I candidati alla presidenza sono tutti “revenants” (fantasmi, come li chiamava in dialetto piemontese Vittorio Emanuele III, memore dei loro trascorsi nell’Italietta prefascista): la Dc tifa per Vittorio Emanuele Orlando, i socialisti per Benedetto Croce. Ma tra i papabili c’è pure De Nicola, ex deputato liberale e ministro giolittiano, anche se nessuno è disposto a scommettere su di lui, per via del suo pedigree non proprio antifascista.
RITARDO DI 1 ORA E MEZZA AL GIURAMENTO IL 1° LUGLIO ’46. Qualcuno lo rammenta ancora presidente della Camera nel 1922, quando non fece una piega di fronte ai pesanti insulti del cavalier Mussolini a quell’“aula sorda e grigia”, e anzi zittì bruscamente il socialista Modigliani che tentava di protestare e votò la fiducia al primo governo del Cavalier Benito. Qualcun altro giura che don Enrico rifiuterà la candidatura, essendo noto più per le sue rinunce che per le sue investiture: quattro volte ha rifiutato la presidenza del Consiglio, una la nomina a senatore, una l’elezione a deputato, una la poltrona a sindaco di Napoli. Ma alla fine è proprio il gioco dei veti incrociati a catapultarlo sul Colle più alto. La Dc impallina Croce: troppo “laico”, il filosofo partenopeo, che comunque declina l’invito “per evitare lo scandalo e il chiasso”. Fuori uno. Il Pci boccia pure Orlando: ha sponsorizzato un po’ troppo i Savoia nella recente campagna referendaria. Fuori due. Sulle prime, Togliatti pensa ad Arturo Toscanini, poi ripiega su De Nicola. Gli altri si adeguano. Don Enrico viene eletto il 27 giugno, al primo scrutinio, con il 73,7 per cento dei suffragi: 397 voti su 501. Contrari soltanto i repubblicani, il Partito d’azione e la Concentrazione democratica di Ferruccio Parri, che danno 40 voti a Cipriano Facchinetti (Pri), candidato di bandiera. Anche l’Uomo Qualunque non ci sta e sostiene bizzarramente la baronessa catanese Ottavia Penna da Caltagirone nata Buscemi, antifascista, anticomunista e monarchica, candidata apposta – spiega Guglielmo Giannini – come “condanna di un mondo politico incancrenito”, (32 voti). Orlando non lo votano che in 10. Un monarchico sfegatato scrive sulla scheda “Umberto II di Savoia”.
Ma accetterà l’incarico, don Enrico? È noto che adora farsi pregare. Manlio Lupinacci lo canzona sul Giornale d’Italia: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare”. Lui infatti, alle prime avvisaglie della sua elezione, è subito fuggito da Roma rintanandosi nella sua casa di Torre del Greco. Saragat tenta di avvertirlo che sta cominciando la votazione decisiva, ma trova il telefono staccato. Qualche ora dopo ci riprova De Gasperi, per comunicargli l’esito finale. E finalmente il bizzarro e bizzoso neoeletto risponde: “M’inchino alla volontà popolare”. Neppure un cenno di ringraziamento ai deputati che l’hanno issato alla più alta carica dello Stato. L’Alcide ci rimane male, ma prosegue con una punta di ironia: “Auguri, presidente. Se lei è d’accordo, il 1° luglio alle ore 12 dovrebbe giurare fedeltà alla Repubblica…”. “Presidente provvisorio, prego”, lo tronca scontroso l’interlocutore. E il 1° luglio, tanto per non smentirsi, si fa attendere non poco. Fa un caldo africano, quel giorno, a Roma. Davanti al palazzo di Montecitorio una folla di parlamentari, giornalisti e semplici curiosi aspetta con ansia il suo arrivo. Rintanati nell’atrio per ripararsi dalla canicola opprimente, Saragat, presidente dell’assemblea, Orlando, decano del Parlamento, e il conte Carlo Sforza, ex-presidente della Consulta (l’assemblea che dalla liberazione di Roma ha svolto funzioni di organo non elettivo dei governi del Cln) si asciugano il sudore e guardano nervosamente l’orologio. Lo stesso fanno il resto dei parlamentari, assiepati nella Sala della Lupa e, nell’attigua Sala Gialla, De Gasperi, con il governo al gran completo.
Davanti al portone, un picchetto d’onore di vigili urbani a cavallo e un duplice schieramento di carabinieri in alta uniforme si sciolgono sotto il sole che picchia. Ma don Enrico non arriva. Qualcuno, in avanscoperta in piazza Colonna, lancia falsi allarmi: “Arriva, è lui… no, non è lui”. “Doveva esser qui a mezzogiorno ed è già la mezza. La Repubblica è già in ritardo”, sghignazzano i monarchici. Ritardo imbarazzante: un’ora e mezza. Solo alle 13.30 il corteo presidenziale sbuca finalmente dall’ultima curva e avanza lentamente verso la piazza. Un corteo piuttosto scarno, formato da una sola automobile nera, quella privata di De Nicola, senza scorta: i sei poliziotti in motocicletta che l’hanno accompagnato da Napoli li ha licenziati lui personalmente alle porte diRoma. Al suo fianco, oltre all’autista, lo accompagna un nipote (il neopresidente è scapolo). Ma la valigia di cuoio, suo unico bagaglio, pretende di portarsela da solo. Quella che segue, più che una cerimonia ufficiale, è una bicchierata fra vecchi amici. Dopo il giuramento, un telegrafico discorso di presa d’atto dell’incarico. Poi tante pacche sulle spalle, abbracci e salutoni da fiera paesana. A un certo punto gli si fa incontro la democristiana Angela Maria Cingolani Guidi, una sorta di Paola Binetti ante litteram. E gli stampa un bacio sulla guancia: “A nome di tutte le donneitaliane”. Lui, imperturbabile, ringrazia. E restituisce uno smack sulla guancia della timorata signora.
I CONTRASTI CON IL DETESTATO DE GASPERI. Quando gli descrivono gli appartamenti presidenziali approntati per lui al Quirinale, non li visita neppure: essendo “provvisorio”, non può risiedere nella dimora dei Re. Dunque si fa condurre a Palazzo Giustiniani, uno dei luoghi più bassi e più bui di Roma (“ogni mattina al primo visitatore devo chiedere se fuori piove o c’è il sole…”). Nei due anni scarsi del suo mandato, farà in tempo ad apporre la sua firma sulla Carta costituzionale. Scostante, umorale e sempre più stizzoso, arriva a dimettersi “per ragioni di salute” nel maggio del 1947, terrorizzato dalle possibili conseguenze della rottura fra De Gasperi e le sinistre dopo lo storico viaggio a Washington. La Costituente, non potendo respingere le sue dimissioni, lo rielegge il giorno dopo. Un’altra volta minaccia di andarsene perché il procuratore generale della Cassazione, inaugurando l’anno giudiziario, non gli ha rivolto un saluto sufficientemente ampolloso. Epici i suoi scontri con De Gasperi, che detesta cordialmente: nel maggio del ’47, pur di non ridargli l’incarico, convoca Francesco Saverio Nitti e financo l’ottantottenne Orlando. Quattro mesi dopo l’Alcide va a fargli firmare il trattato di pace, ma lui non ne vuole sapere: monta su tutte le furie, afferra le carte diplomatiche e le scaraventa sul pavimento, tra lo sgomento di funzionari e ministri presenti. Solo dopo lunghe insistenze riusciranno a strappargli la firma di ratifica.
Per mesi, poi, De Gasperi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti tenteranno di convincerlo a firmare il decreto che gli attribuisce la “lista civile”, cioè l’appannaggio presidenziale (12,5 milioni di lire). Ma invano. De Nicola è quasi povero (ha perduto tutti i suoi risparmi professionali investendoli in buoni del Tesoro all’inizio della guerra), ma rifiuta l’appannaggio presidenziale. Celeberrimo il suo cappotto rivoltato, sempre lo stesso, con cui partecipa alle cerimonie ufficiali: un giorno, su insistenza degli imbarazzati collaboratori, lo manda al suo sarto di Napoli per la riparazione, ma quello gli fa il lavoro gratis e rifiuta i soldi, allora lui gli leva il saluto. Maniaco delle dimissioni e allergico al denaro e al potere: il più antitaliano dei presidenti. Infatti non sarà riconfermato. Due anni di De Nicola possono bastare.
(1. Continua)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04/10/enrico-de-nicola-il-monarchico-col-palto-rivoltat/557493/
Altri tempi, altri Uomini.