venerdì 24 settembre 2021

La Legge del Dipende. - Marco Travaglio

 

Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall’altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci.

Ricapitoliamo. Il boss Bagarella – a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà – si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-’93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel ’94. Il medico mafioso Cinà – a cui a questo punto va la nostra solidarietà – si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l’assassinio di Salvo Lima (marzo ’92) e soprattutto dopo Capaci (maggio ’92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull’insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Quindi il fatto – cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante “minaccia a corpo politico dello Stato” attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros – sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l’unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D’Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il “dolo”, l’intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel ’92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel ’93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel ’95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra.
Nel ’94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l’ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e ’ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell’Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell’amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell’Utri), ma soltanto “tentata”. Così anche Dell’Utri può essere assolto “per non aver commesso il fatto”: cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale.
In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell’“embè?”. Bastava aver letto Sciascia: “Lo Stato non può processare se stesso”. E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

ILFQ

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