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domenica 25 giugno 2023

Il papà di Di Pietro salvato da Cartabia. - Luca Teolato

 

L’uomo fu condannato dalla Corte dei Conti, la consulta annullò i verdetti.

Negli ultimi giorni è balzata agli onori della cronaca la biografia di Paolo Di Pietro, papà di Matteo, lo youtuber indagato per omicidio stradale per l’incidente avvenuto alla periferia sud di Roma che mercoledì è costato la vita a Manuel Proietti, bimbo di cinque anni. 

Quasi tutte le testate nazionali, dopo la diffusione di un video in cui l’uomo, dipendente del Quirinale, partecipa a una delle challenge del figlio guidando una Ferrari senza cintura, hanno ricordato i suoi precedenti con la giustizia per un’indagine per distrazione di denaro dalle casse della Presidenza della Repubblica di oltre 4,5 milioni di euro.

Un ricordo incompleto per la maggior parte dell’informazione che ha sottolineato che il papà dello youtuber ne è uscito indenne, con le accuse a suo carico archiviate in udienza preliminare, insieme agli altri imputati (tra prescrizioni e assoluzioni), compreso Gaetano Gifuni, segretario generale della Presidenza della Repubblica per Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi.

Ma Paolo Di Pietro e un altro suo collega sono stati condannati dai giudici contabili in via definitiva per il danno erariale provocato alle casse del Quirinale (come già raccontato nell’aprile del 2021 dal Fatto, ma a questo particolare ha accennato solo Repubblica che ha citato il nostro vecchio articolo).

Inoltre Stefano Imperiali, il giudice della Corte dei Conti che ha emesso nel 2016 la condanna di secondo grado nei confronti dei due dipendenti del Quirinale, stabilendo il risarcimento dell’intero danno erariale accertato dal consulente tecnico nominato dal pm del Tribunale di Roma, durante il processo in sede penale per la medesima vicenda, ha dovuto attraversare una serie traversie – tra contestazioni, sanzioni, rarefazione delle udienze – che se non sono mobbing di sicuro segnano la fine di una carriera.

Tant’è che circa un anno dopo la sentenza ha deciso di andare in pensione anticipata: 64 anni appena quando normalmente la soglia è, al netto di proroghe eventuali, di 70 anni.

Sacrificio risultato vano perché nel giugno 2018 è arrivata la sentenza della Corte Costituzionale, redatta da Marta Cartabia, allora giudice della Consulta, che ha annullato i verdetti di primo e secondo grado sui due dipendenti, accogliendo un ricorso della Presidenza della Repubblica per conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, stabilendo che la giurisdizione spettava al Tribunale Civile anziché alla Corte de Conti.

Cartabia che in seguito diventerà presidente della Corte Costituzionale e poi ministro della Giustizia del governo guidato da Mario Draghi.

Imperiali ha presentato una denuncia alla Procura di Roma sulla vicenda per un verdetto che ha definito “incomprensibile” e che costituisce “un autorevole ‘precedente’ che certo porrà per lungo tempo tutti i dipendenti della Presidenza della Repubblica al gradito riparo da eventuali giudizi di responsabilità per danno erariale”.

Una denuncia che però è stata archiviata.

Intanto, Matteo Di Pietro ha deciso di lasciare Roma, in attesa di essere interrogato. Il giovane si è allontanato dall’abitazione dove solitamente risiede per recarsi in un appartamento di famiglia sul litorale.

F.Q. 20 giugno

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1148492862751786&id=100027732506122 

giovedì 17 febbraio 2022

Pressing per azienda vicina ai clan: salvato Giovanardi da FI&Iv. - Ilaria Proietti

 

IMPUNITÀ - Gli è stato accordato lo scudo dell’immunità contro i magistrati di Modena che lo avevano trascinato a processo per rivelazione e utilizzazione di segreti d’uffici, violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e oltraggio. La casta “assolve” anche Siri.

Lui giura di aver fatto solo il suo dovere di parlamentare. E che importa se, per ottenere che una ditta amica in odore di ’ndrangheta potesse partecipare alla ricostruzione dopo il terremoto dell’Emilia-Romagna, ha minacciato e fatto pressioni di ogni sorta spendendo il suo ruolo e le sue amicizie a Roma. L’ex senatore Carlo Giovanardi aveva ragione da vendere: strapazzare funzionari di Prefettura per ottenere ciò che si vuole, minacciarne la carriera e ottenere informazioni riservate abusando dello status di parlamentare, si può fare e impunemente. Lo ha confermato il voto di ieri del Senato dove grazie ai voti del centrodestra e Italia Viva gli è stato accordato lo scudo dell’immunità contro i magistrati di Modena che lo avevano trascinato a processo per rivelazione e utilizzazione di segreti d’uffici, violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e oltraggio.

Bum! Per l’aula del Senato non ci sono reati: le condotte di Giovanardi sono al più l’espressione di opinioni magari un po’ forti, ma pur sempre insindacabili perché espresse nel suo ruolo di parlamentare, come sostenuto dal leghista Simone Pillon nella relazione approvata a maggioranza: “Nel caso di specie, il senatore Giovanardi riteneva con tutta evidenza che l’esclusione dalla white list della ditta Bianchini fosse un’ingiustizia e che tale misura fosse del tutto infondata sulla base di una propria opinione, fortemente critica rispetto all’operato dei pubblici ufficiali coinvolti”.

E tanto deve bastare, a prescindere dal merito delle condotte tenute all’epoca dei fatti da Giovanardi, che può tirare un sospiro di sollievo, anzi di più: “È un voto importante per la democrazia perché riguarda la libertà del Parlamento in un sistema democratico” ha detto sempre più convinto che “l’unico atteggiamento di un parlamentare di fronte a macroscopici errori della Pubblica amministrazione non può essere quello di un omertoso silenzio”.

E pace se in questo caso non c’erano affatto errori macroscopici. E se qualcuno si ostina a ritenere che i reati contestati a Giovanardi restino tali e davvero poco hanno a che fare con le opinioni, come ha sottolineato Pietro Grasso di LeU, per il quale “la violazione del segreto d’ufficio o le minacce, non hanno alcun legame funzionale con l’esercizio dell’attività parlamentare”.

Per l’ex procuratore antimafia, insomma, si tratta di un precedente pericoloso attraverso il quale è stata ingiustificatamente estesa la prerogativa dell’insindacabilità. Attraverso un barbatrucco già evidenziato da Anna Rossomando del Pd quando la questione era stata trattata in Giunta. “L’aspetto più problematico della motivazione fornita dal senatore Pillon è quello che finisce per estendere la prerogativa a qualsiasi condotta purché persegua un fine in qualche modo ricollegabile ad una pregressa attività parlamentare intra moenia”. Tradotto: per ottenere lo scudo basterà presentare un’interrogazione per poi avere la licenza di compiere impunemente fuori dal Palazzo qualunque tipo di reato sul fatto oggetto di quella attività parlamentare. Ma ormai l’andazzo è questo. Ieri la stessa Giunta delle immunità ha scudato il meloniano Andrea Augello, per un post su Fb ritenuto offensivo dall’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino (che lo ha portato in Tribunale) nonostante non sia da tempo più parlamentare. Ma l’immunità gli è stata accordata lo stesso col pretesto che da senatore nel 2015 aveva presentato alcune interrogazioni sull’amministrazione capitolina.

E non è tutto. Sempre l’asse centrodestra-Italia Viva ieri ha detto no ai magistrati di Roma: non potranno usare nessuna delle intercettazioni che rischiavano di inguaiare Armando Siri, l’ex sottosegretario leghista a processo con l’accusa di essersi dato da fare, in cambio della promessa di una mazzetta, per favorire Paolo Arata, imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori di Matteo Messina Denaro.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/17/pressing-per-azienda-vicina-ai-clan-salvato-giovanardi-da-fiiv/6496820/