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martedì 12 aprile 2022

Colpa di Putin o errore della Nato? Il ruolo americano nella guerra in Ucraina. - Ugo Tramballi

 

Mettiamo a confronto due testi opposti, entrambi interessanti, di due esperti americani molto autorevoli: John Mearsheimer, scienziato della politica all’Università di Chicago e Robert Kagan, storico della diplomazia ed esperto alla Brookings Institution di Washington.

Se sia tutta colpa degli Stati Uniti; se Vladimir Putin sia una vittima della Nato o invece in preda a incontrollabili ambizioni imperiali da XIX secolo – dibattito che in Italia ha assunto la forma di un derby calcistico – è un confronto che esiste da anni, da molto prima della guerra.

L’aggressione russa e le distruzioni in Ucraina lo hanno solo accelerato: il comportamento Usa è stato una provocazione, forse una trappola, oppure Putin ha sbagliato tutto da solo?

Nel tentativo di dare un contributo alla conversazione metto a confronto due testi opposti, entrambi interessanti, di due esperti americani molto autorevoli: John Mearsheimer, scienziato della politica all’Università di Chicago e Robert Kagan, storico della diplomazia ed esperto alla Brookings Institution di Washington.

La tesi di Mearsheimer.

Mearsheimer è sempre stato molto critico riguardo alla Nato; Kagan può essere considerato un atlantista. I due testi che prendo in esame insieme perché credo siano di grande importanza per comprendere il ruolo dell’America, non sono uno la risposta all’altro: quello di Mearsheimer è apparso su The Economist il 19 marzo ; il testo di Kagan uscirà sul numero di maggio di Foreign Affairs. «L’Occidente, e specialmente l’America, è principalmente responsabile della crisi incominciata nel febbraio 2014», afferma il professore di Chicago, riferendosi alla rivoluzione di Maidan, a Kyiv, «sostenuta dall’America». Crisi «diventata ora una guerra che non solo minaccia di distruggere l’Ucraina ma ha il potenziale di degenerare in una guerra nucleare fra Russia e Nato». Allora la strategia Usa era di «portare l’Ucraina più vicina alla Ue e farne una democrazia pro-americana», ignorando le linee rosse di Mosca.

Anche se è dal 2008, vertice di Bucharest, che l’Occidente non parla di ammissione nell’Alleanza Atlantica, Mearsheimer sostiene che l’«Ucraina stava diventando di fatto un membro della Nato». E quando l’amministrazione Trump vendette «armi difensive» a Kyiv, a fine 2017, quella decisione «sembrò certamente offensiva per Mosca e i suoi alleati nel Donbas». Dopo avere inutilmente richiesto una garanzia scritta che l’Ucraina non sarebbe mai entrata nella Nato, «Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva».

Perché “«la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato». La conclusione di Mearsheimer è che «la politica occidentale stia esacerbando» i rischi di un conflitto allargato. Per i russi l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali: un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è «una minaccia diretta al futuro della Russia».

La tesi di Kagan.

Neanche Robert Kagan nega le responsabilità americane: «Per quanto sia osceno incolpare gli Stati Uniti per il disumano attacco di Putin, insistere che l’invasione non fosse del tutto provocata, è ingannevole». La ragione è che gli eventi di oggi «stanno accadendo in un contesto storico e geopolitico nel quale gli Usa hanno giocato e continuano a giocare il ruolo principale». Come l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 1941 e l’11 Settembre: non ci sarebbero stati se l’America non fosse stata la potenza dominante allora in Asia e poi in Medio Oriente.

Dopo la fine della Guerra Fredda, sostiene Kagan, Washington non aspirava ad essere potenza dominante nell’Europa ex sovietica. George H.W. Bush aveva denunciato come «nazionalismi suicidi» lo smembramento dell’Urss; successivamente Bill Clinton creò una “Partnership for Peace” come alternativa all’allargamento della Nato. Tuttavia «gli europei dell’Est cercavano di fuggire da decenni – secoli, in qualche caso – d’imperialismo russo e sovietico, e di avvicinarsi a Washington in un momento di debolezza russa». Negli anni ’90 credevamo che anche la Russia e la Cina stessero marciando verso la democrazia e che la Nato non avesse più ragion d’essere.

Ma i paesi dell’Est «vedevano la fine della Guerra Fredda semplicemente come l’ultima fase della loro lotta centenaria. Per loro la Nato non era obsoleta». Ma il punto centrale della tesi di Kagan riguarda le strutture del potere internazionale e il futuro. Molti, sostiene, «tendono a equiparare egemonia e imperialismo». In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, «egemonia è più una condizione che un proposito». Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che «tali sfere non sono ereditate né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla “tradizione”. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare» che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha. Anche se avessero sbarrato le porte della Nato, «i polacchi e gli altri avrebbero continuato a bussare».

Perché diversamente dall’offerta americana, la Russia è debole «in tutte le forme rilevanti del potere, compreso il potere di attrazione». In conclusione, la sfida che la Russia sta ponendo a se stessa e al mondo «non è inusuale né irrazionale. L’ascesa e la caduta delle nazioni è l’ordito e la trama delle relazioni internazionali».

La deriva social.

Personalmente non mi sento completamente d’accordo con il professor Mearsheimer: ignora il libero arbitrio degli stati minori che invece vede come pedine del confronto fra grandi potenze. Come per esempio avallare in nome della pace nel mondo la pretesa russa di ottenere dall’America la garanzia che un terzo paese, l’Ucraina, non entrerà mai nella Nato. È una logica da XIX secolo decidere del futuro degli altri. Detto questo, non mi passa per l’anticamera del cervello che un’autorità come il professor Mearsheimer sia al soldo di Putin. Il clima sui cosiddetti “social” invece è molto diverso. Infine, vale la pena sottolineare che un confronto d’idee come questo nella Mosca di Vladimir Putin non sarebbe consentito. Qualcuno finirebbe in galera. Non è una differenza di poco conto.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/colpa-putin-o-errore-nato-ruolo-americano-guerra-ucraina-AEbDvJQB

lunedì 28 marzo 2022

Joe Biden scaricato da tutti. Il figlio nei guai per bio-armi. - Giampiero Gramaglia

 

FIGURACCIA - L’Occidente prende le distanze da Sleepy Joe e gli Usa fanno retromarcia: “Non vogliamo rovesciare lo zar”. Erdogan: ok negoziati in Turchia.

Non era forse mai capitato a un presidente degli Stati Uniti, neppure all’imprevedibile e vulcanico Donald Trump, di essere così coralmente “corretto” da alleati e collaboratori. Per tutta la domenica, la Casa Bianca e l’intero staff di Joe Biden hanno sostenuto che il presidente non intendeva dire quel che ha detto: che gli Usa vogliono un “cambio di regime” a Mosca, mettere cioè politicamente fuori gioco il presidente russo Vladimir Putin, a causa dell’invasione dell’Ucraina.

L’operazione coordinata di damage control vuole evitare che il Cremlino prenda sul serio le parole di Biden, che su Putin si lascia spesso scivolare la frizione lessicale: assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio sono alcuni degli epiteti già appioppati al leader russo, con cui, se vuole la pace, l’Occidente dovrebbe negoziare.

Vanno intanto avanti le trattative dirette tra Ucraina e Russia: le due delegazioni si vedranno, da oggi a mercoledì – domani e mercoledì, precisano i russi – probabilmente in Turchia, visto l’accordo raggiunto ieri tra Putin e il numero 1 di Ankara Recep Erdogan. Pare un passo avanti, almeno rispetto agli ultimi round solo virtuali.

Il segretario di Stato Antony Blinken assicura che gli Usa non hanno una strategia per un cambio di regime in Russia, nonostante Biden, sabato, a Varsavia abbia detto che Putin “non può restare al potere”. Blinken arzigogola che Biden voleva solo dire che “Putin non può avere il potere di fare una guerra o impegnarsi in aggressioni”; e ammette che il destino di Putin è “una scelta dei russi”.

Il presidente francese Emmanuel Macron, che è il più attivo fra i leader Ue e Nato a tenere i contatti con Putin, ammonisce: “Non si deve alimentare una escalation di parole o azioni, non avrei detto ‘macellaio’” – e, sicuramente, non avrebbe detto il resto –. Tra oggi e domani Macron organizzerà con Putin un’evacuazione di civili da Mariupol.

Anche Londra prende le distanze dalla sortita di Biden: esponenti del governo di Boris Johnson riconoscono che “sta ai russi decidere da chi essere governati”, pur esprimendo l’auspicio che l’invasione e i contraccolpi economici determino “la sorte di Putin e dei suoi accoliti.” Il “ministro degli Esteri” Ue Josep Borrell chiarisce che l’obiettivo è “fermare la guerra”, non rovesciare Putin.

La durezza verbale di Biden nei confronti del presidente russo ne incrina la credibilità diplomatica e non gli fa guadagnare punti in politica. Per un sondaggio della Nbc, il gradimento del presidente è al 40 per cento, come una settimana fa in un altro sondaggio, in calo dal 43 per cento di gennaio. Sette americani su 10 hanno scarsa fiducia nelle sue capacità di gestire il conflitto in Ucraina; otto su 10 ritengono che l’invasione si tradurrà in prezzi della benzina più alti – già successo – e temono che inneschi una guerra nucleare.

A soffiare sul fuoco del conflitto sono le fonti di Kiev. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky torna a chiedere armi offensive, carri armati e caccia-bombardieri, mentre il capo dell’intelligence Kyrylo Budanov sostiene, sul Guardian, che Mosca, avendo fallito nel prenderne il controllo, mira a dividere in due il Paese; e annuncia azioni di guerriglia nei territori occupati dalla Russia.

Per tranquillizzare i russi e gli alleati, l’ambasciatrice degli Usa presso la Nato Julianne Smith parla di “una reazione umana” da parte del presidente, dopo quello che aveva visto e sentito incontrando rifugiati ucraini nello stadio nazionale di Varsavia. Il Giappone giudica la crisi ucraina la più grave dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Pare che i funzionari della Casa Bianca siano stati colti di sorpresa dalla sortita di Biden, che non era nella traccia del discorso di Varsavia.

Non è la prima volta che il presidente non sta al copione e improvvisa. Esponendosi al fuoco amico: “Una gaffe orrenda”, sottolinea il senatore repubblicano James Risch. Si rifà vivo pure Donald Trump: “Putin è intelligente, ma invadere l’Ucraina è stato un errore”, da un estremo all’altro.

Un ex diplomatico di rango statunitense, attualmente presidente del Council on Foreign Relations, Richard Haas, ammonisce che le parole di Biden hanno reso “una situazione difficile più difficile e una situazione pericolosa più pericolosa”. Non sarà semplice, aggiunge Haas, citato dalla Bbc, “rimediare al danno provocato, ma suggerisco ai collaboratori del presidente di mettersi in contatto con le controparti e di chiarire che gli Usa sono pronti a relazionarsi con il governo russo in carica”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/28/che-errore-su-putin-biden-sbugiardato-da-macron-e-blinken/6539286/

sabato 29 gennaio 2022

Stalker arrestato e subito liberato. Il pm a Cartabia: “Norma da rifare”. - Antonella Mascali

 

La ministra della Giustizia Marta Cartabia appena il mese scorso aveva elogiato le misure per proteggere e mettere in sicurezza le donne vittime di violenza, aveva citato in particolare la legge che ha introdotto l’arresto in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento, facendo finta di nulla rispetto alle preoccupazioni, pure segnalate, dalle procure italiane, che questa legge non si può applicare. Un caso concreto successo ieri a Parma, che tra poco racconteremo, è la prova sul campo del cortocircuito normativo di cui fanno le spese le vittime. La legge entrata in vigore a ottobre scorso (articolo 387 bis del codice penale) non si può eseguire perché non è stata fatta una cosa tanto semplice quanto essenziale: la modifica di un articolo del codice penale collegato. Ed ecco che un uomo è stato sì arrestato a Parma mentre bussava alla porta di casa della sua ex compagna , violando un ordine di non avvicinamento, ma è tornato subito dopo in libertà. Il procuratore Alfonso D’Avino ha evidenziato le incongruenze della legge al ministero della Giustizia, senza ricevere alcuna risposta. Dopo il caso di ieri ha spiegato cosa accade: da un lato “la polizia giudiziaria è obbligata all’arresto ma, dall’altro, il pm, al quale viene trasmesso il verbale di arresto per la convalida, non può richiedere nessuna misura coercitiva, ma deve disporne la liberazione”.

Come mai? D’Avino ha parlato di una “situazione paradossale” che si è venuta a creare dopo che è stato introdotto l’arresto obbligatorio in flagranza per questo reato, “non è stata modificata la norma che prevede i casi nei quali il pm può chiedere la misura coercitiva. La conseguenza è che – come nel caso in questione – all’arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria deve seguire l’immediata liberazione da parte del pm”. Il riferimento del procuratore è alla mancata modifica dell’articolo del codice penale, il 381, che elenca i reati per i quali in caso di flagranza può avvenire l’arresto pur non prevedendo il reato una pena superiore a 3 anni come – appunto – il reato di violazione di divieto di avvicinamento che, in base al codice Rosso, varato durante il governo precedente, prevede dai 6 mesi a 3 anni di pena. Bastava aggiungerlo a quell’elenco e l’arrestato di ieri non sarebbe tornato in libertà. Invece, abbiamo letto in una circolare interna, di novembre, della procura di Torino, la legge così com’è “rischia non solo di limitare di molto le finalità di tutela che il legislatore si proponeva di realizzare, ma anche di complicare la gestione dei procedimenti che da tali arresti potranno scaturire”. E infatti così è stato.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/28/stalker-arrestato-e-subito-liberato-il-pm-a-cartabia-norma-da-rifare/6471363/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR2DGR_oAoMTuX6_Bwo8YKYXemyineQpdwF0jzNQSLDLZm-YcW10pBv3Hss#Echobox=1643356747

domenica 24 gennaio 2021

La cronologia dell’errore sulla zona rossa della Lombardia: i 9mila casi riclassificati, l’Rt che schizza, la ‘rettifica’ e le polemiche di Fontana. - Andrea Tundo

 

LA RICOSTRUZIONE - Ecco cosa è accaduto tra il 13 e il 23 gennaio, nei dieci giorni che hanno costretto 10 milioni di cittadini lombardi a restrizioni che, sulla base dei dati, avrebbero dovuto essere meno pesanti. Tutto ruota attorno a una riclassificazione dei casi, ma i vertici del Pirellone ora attaccano l'intero sistema dell'Iss: "Malfunzionamento dell'algoritmo, non c'è trasparenza". La risposta dell'Istituto: "Più volte segnalate anomalie nei loro dati". Brusaferro: "Polemiche non accettabili, siamo al servizio del Paese".

La storia della zona rossa che non lo era inizia il 13 gennaio. Ma a leggere tra le righe della polemica, il destino era già scritto da tempo: l’incidente costato una settimana di serrata generale per 10 milioni di lombardi, prima o poi sarebbe arrivato. Il 13 gennaio è un mercoledì, nelle ore successive dall’Istituto Superiore di Sanità inviano i dati del monitoraggio alle Regioni per ottenere il ‘check’ sui dati che determineranno la zona in cui finiranno i territori. Di fronte all’indice Rt a 1,4 i funzionari del Pirellone rispondono con un silenzio-assenso. Nessuna contestazione. Solo dopo, chiarisce il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, la “Lombardia ha richiesto un ricalcolo dei dati”. Così due giorni dopo, venerdì 15, il ministro della Salute Roberto Speranza firma l’ordinanza che sposta in in zona rossa per due settimane la regione più popolosa d’Italia, quella che secondo la neo-assessora al Welfare e vice-presidente Letizia Moratti deve avere un “occhio di riguardo” perché spinge il Pil italiano.

Il database inviato dalla Lombardia il 13 gennaio
La decisione viene presa sulla base dei numeri che da Palazzo Lombardia sono stati inviati a Roma: nel database caricato figurano 501.902 casi, di cui 419.362 hanno una data di inizio sintomi. Tra questi, scrive l’Istituto superiore di sanità, 185.292 hanno anche “segnalato uno stato sintomatico (qualunque gravità)” o questa informazione è “assente”. Negli altri 234.070 casi è stato dichiarato uno stato “asintomatico” o c’è una notifica di “guarigione-decesso senza indicazione di stato sintomatico” precedente. I primi (185.292) rispondono ai criteri per essere inclusi nel calcolo dell’Rt, i secondi (234.070) no. Tra i 185.292, al 13 gennaio, ci sono 14.180 casi con data inizio sintomi nel periodo 15-30 dicembre, quindi gli unici da considerare per il calcolo dell’Rt nel periodo di riferimento del monitoraggio. È sulla base di questi che l’indice risulta di 1,4 e la Lombardia finisce in zona rossa.

La reazione di Fontana e Moratti, dalla ‘punizione’ al Tar
La Regione si agita. Attilio Fontana dice subito che si tratta di una “punizione che non meritiamo” e che “c’è qualcosa che non funziona nei conti”. Appena quattro giorni prima, l’11 gennaio, il governatore aveva detto: “Ci stiamo sicuramente avvicinando alla zona rossa, peggiorano tutti i parametri”. Viene chiesta una sospensione della zona rossa per riesaminare i dati e annunciato un ricorso al Tar del Laziopoi presentato il 19 gennaio. “Mi auguro davvero – dice Fontana – che presto possa riunirsi di nuovo il tavolo di confronto con le regioni per rivedere, con il ministro Speranza, i parametri di riferimento”. Parametri che la Lombardia, come tutte le altre Regioni, ha avallato negli scorsi mesi. Quella del Pirellone è un’escalation di attacchi: “La Lombardia non merita la zona rossa. Indubbiamente il rischio per la regione è di fermarsi, di fermare il lavoro, le attività e la vita sociale. Per questo con il presidente Fontana abbiamo ritenuto di voler presentare un ricorso, per uscire dalla zona rossa”, dice Moratti nelle ore in cui vengono chiamati in causa i giudici amministrativi.

Il nuovo invio di dati: così crolla l’indice Rt
Il 20 gennaio la Regione Lombardia invia l’aggiornamento del suo database. Un’operazione di routine, che avviene tutte le settimane. Però, mette nero su bianco l’Iss, nel nuovo set di dati “si constata anche una rettifica dei dati relativi anche alla settimana 4-10 gennaio 2021″. Tra i casi presenti sia nel database inviato il 13 gennaio che nell’aggiornamento sono cambiate alcune cose. Innanzitutto: “I numero di casi in cui è indicata una data inizio sintomi è diminuita (da 419.362 a 414.487)”. Quindi: “Il numero di casi con una data inizio sintomi e in cui sia segnalato uno stato sintomatico (qualunque gravità) o sia assente questa informazione (inclusi dal calcolo Rt) è diminuito (da 185.292 a 167.638)”. Ancora: “Il numero di casi con una data inizio sintomi e in cui sia dichiarato uno stato asintomatico o vi sia notifica di guarigione-decesso senza indicazione di stato sintomatico precedente (esclusi dal calcolo Rt) è aumentato (da 234.070 a 246.849)”. Non si tratta di scostamenti di poco conto, perché scrivono dall’Istituto superiore di sanità “questi cambiamenti riducono in modo significativo il numero di casi che hanno i criteri per essere confermati come sintomatici e pertanto inclusi nel calcolo dell’Rt basato sulla data inizio sintomi dei soli casi sintomatici”. I 14.180 casi sintomatici con data inizio sintomi nel periodo 15-30 dicembre 2020 che erano presenti nel database inviato 13 gennaio – e quindi una settimana prima determinanti per definire un Rt di 1,4 – sono diventati 4.918 nell’aggiornamento del 20 gennaio. Con 9.262 casi in meno da conteggiare, l’indice ‘crolla’ a 0,88.

Lo spettro evocato dal Pirellone: “L’algoritmo non funziona”.
Si arriva così a venerdì, il giorno spartiacque. Il Tar fa slittare a lunedì 25 la pronuncia sulla sospensiva chiesta dalla Lombardia. Nel frattempo però la cabina di regia, riunita per riassegnare i colori alle Regioni, prende in esame anche il caso Lombardia. In teoria la regione dovrebbe rimanere nella stessa fascia per un’altra settimana, visto che il periodo di assegnazione dura 14 giorni. Ma alla luce del ricalcolo, il nodo deve essere sciolto. E arriva la decisione: l’indice Rt giusto è 0,88 e quindi torna in arancione. A riunione in corso, Fontana già attacca: “La Lombardia deve essere collocata in zona arancione – scrive su Twitter – Lo evidenziano i dati all’esame della Cabina di regia, ancora riunita. Abbiamo sempre fornito informazioni corrette. A Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze”. L’accusa è gravissima, ma è solo l’inizio. Tra venerdì sera e sabato, i vertici del Pirellone alzano i toni. Moratti: “Nessuna rettifica, a seguito di un approfondimento relativo all’algoritmo dell’Iss, abbiamo inviato la rivalorizzazione dei dati”. Ancora Fontana: “Malfunzionamento dell’algoritmo”Sempre Fontana: “Problema con algoritmo che calcola Rt anche per altre regioni? Probabile ma non mi interessa”. La Lombardia avanza quindi l’ipotesi che l’intero sistema sul quale si basano le restrizioni sia ‘falsato’. Il direttore generale dell’assessorato al Welfare, Marco Trivelli, afferma: “Il meccanismo di calcolo complessivo delle Rt non è noto, non è trasparente”. Sostiene che l’inserimento di un valore nel campo ‘stato clinico’ (quello che ha contribuito a ridurre di 9.262 i casi da considerare ai fini del calcolo dell’indice Rt, ndr) sia “facoltativo” e che l’Iss abbia chiesto di “inserire un valore convenzionale di stato sintomatico”. E ancora: “Abbiamo trasmetto dati identici a quelli della settimana precedente con la sola integrazione di questo valore convenzionale indicato dall’Iss e abbiamo manifestato la nostra perplessità tecnica”.

La replica dell’Istituto: “Tutti sanno come si calcola l’Rt”
Speranza tiene il punto ribadendo che la Regione Lombardia ha “trasmesso dati errati” propedeutici al calcolo del Rt e li ha “successivamente rettificati”. Il riferimento è a quei 9.262 casi che per come erano stati classificati il 13 gennaio dai funzionari del Pirellone dovevano rientrare nel calcolo facendo schizzare l’indice Rt, mentre con la “rettifica” di una settimana erano da escludere dal conteggio. Ma il livello della polemica si è ormai alzato. Adombrare un “malfunzionamento” dell’algoritmo, una mancanza di trasparenza, spinge l’Istituto superiore di sanità a prendere posizione: “L’algoritmo è corretto, da aprile non è mai cambiato ed è uguale per tutte le Regioni che lo hanno utilizzato finora senza alcun problema – scrive l’Iss – Questo algoritmo e le modalità di calcolo dell’Rt sono state spiegate in dettaglio a tutti i referenti regionali perché lo potessero calcolare e potessero verificare da soli le stime che noi produciamo, ed è perciò accessibile a tutti”. Tradotto: la Regione è a conoscenza del meccanismo di calcolo, nessuna ombra. Quindi si torna al 13 gennaio, quando l’indice era risultato 1,44 sulla base dei dati forniti dalla Lombardia. Si tratta di un dato che, prima della firma delle ordinanze, viene inviato alle Regioni, chiarisce l’Istituto: “Lo ricevono con richiesta di verifica e validazione con un criterio esplicito di silenzio assenso”. E sottolinea: “La Regione Lombardia non ha finora mai contestato questa stima”.

E l’attacco: “Anomalie nei dati lombardi, segnalate più volte”
Quindi si entra nello specifico: “La Lombardia ha segnalato dall’inizio dell’epidemia nell’ultimo periodo una grande quantità di casi, significativamente maggiore di quella osservata in altre regioni, con una data di inizio sintomi a cui non ha associato uno stato clinico e che pertanto si è continuato a considerare inizialmente sintomatici”. Una “anomalia”, attacca l’Iss, “segnalata più volte” alla Regione. Quindi conclude: “Solo a seguito della rettifica del dato relativo alla data inizio sintomi e dello stato clinico dei casi già segnalati, avvenuta con il caricamento dati del 20 gennaio, con una corretta identificazione dei casi asintomatici da parte della Regione Lombardia, su loro richiesta, sono state ricalcolate le stime di Rt realizzate la settimana precedente”. In un’intervista a Repubblica, il presidente dell’Istituto, Silvio Brusaferro, è costretto a ribadire: “Sono stati loro a contattarci per chiedere di fare approfondimenti su alcuni indicatori. Gli abbiamo dato alcune informazioni assieme alla Fondazione Kessler”. Venerdì mattina, insiste Brusaferro, “hanno scritto una mail al ministero e all’Istituto per chiedere di ricalcolare l’Rt della settimana precedente. Ripeto: il ricalcolo ce lo ha chiesto la Regione Lombardia”. Le polemiche “non sono accettabili e non mi sono proprie – conclude il numero uno dell’Iss – L’Istituto è l’organo tecnico scientifico a servizio del servizio sanitario e dell’intero Paese”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/24/la-cronologia-dellerrore-sulla-zona-rossa-della-lombardia-i-9mila-casi-riclassificati-lrt-che-schizza-la-rettifica-e-le-polemiche-di-fontana/6076424/

sabato 2 maggio 2020

Apriamo tutto! - Massimo Erbetti

Apriamo tutto - Politici e Covid | Mediterraneo Cronaca

Si apriamo tutto, fateci lavorare, fateci uscire, andiamo tutti in strada a protestare contro un governo dittatoriale che ci tiene chiusi in casa. Non deve essere la scienza a dirci cosa dobbiamo fare, ma la politica, la politica ha il dovere di decidere in autonomia...c'è addirittura chi tira in ballo i morti, che secondo lui se potessero parlare, ci direbbero di aprire... ma facciamo un passo indietro, vi ricordate cosa dicevano all'inizio di marzo quelli che oggi vogliono aprire tutto? Vi ricordate che accusavano il governo di non aver agito tempestivamente? "Chiudiamo tutto, sigilliamo le frontiere, chiudiamo porti e aeroporti" "Conte irresponsabile". E poi uscivano fuori quei documenti che avvisavano il governo della pandemia, ma il governo ce li teneva nascosti, faceva finta di niente...ve lo ricordate vero? Bene, allora facciamo un passo indietro nel tempo e analizziamo i dati che hanno portato il governo al lockdown. Sapete quanti erano stati i morti il 28 febbraio? 21 morti, e il 1 marzo? 34 morti. Il 5 marzo 148 morti. Il 7 marzo, a due giorni dalla chiusura totale, con il DCPM già pronto in un cassetto, i morti erano 233...si avete capito bene, 233 deceduti e sapete quanti sono stati i morti di ieri primo maggio? 269 morti per coronavirus, ben 36 in più rispetto al 7 marzo. È proprio vero siamo un popolo con la memoria di un pesce rosso, dimentichiamo in fretta e cambiamo opinione come cambia il vento. Ci scandalizzavamo perché Conte aveva ritardato la chiusura e avevamo meno vittime giornaliere di oggi. Mettevamo bandiere tricolori alle finestre, cantavamo dai balconi l'inno d'Italia e ora? E ora incitiamo alla rivolta, a scendere in piazza, vogliamo fare la rivoluzione e intanto muoiono ancora quasi trecento persone al giorno. È ma i contagi stanno calando, si certo i contagi stanno calando, ma calano solo perché il distanziamento ha funzionato, perché le misure adottate erano quelle giuste e oggi voi rischiereste di tornare ad avere mille morti al giorno? Volete questo? No non volete questo, voi volete solo speculare politicamente su questo. Voi sapete bene che le misure sono giuste e sapete bene che il governo continuerà per la propria strada...non preoccupatevi siete al sicuro, non avrete morti in più sulla coscienza, perché qualcuno al posto vostro si prende la responsabilità di salvare vite..quelle vite che voi strappereste per qualche misero voto in più.

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giovedì 26 marzo 2020

Coronavirus, Salvini e quelle cifre (sballate) su pil e spesa pubblica. Ecco che cosa ha detto e come stanno le cose. - Chiara Brusini

Coronavirus, Salvini e quelle cifre (sballate) su pil e spesa pubblica. Ecco che cosa ha detto e come stanno le cose

Il leader leghista, ospite di Bianca Berlinguer a CartaBianca, ha tolto tre zeri alle cifre del prodotto interno lordo e delle uscite dello Stato. Ma soprattutto da quei numeri ha tratto una conclusione del tutto sballata: che le entrate siano maggiori delle uscite e ci siano soldi da spendere a piacimento. Invece la differenza è negativa e va coperta indebitandosi.
“Dobbiamo usare per gli italiani i soldi degli italiani. L’anno scorso il prodotto interno lordo degli italiani sono stati 1 miliardo e 800 milioni di euro, la spesa pubblica 800 milioni. I soldi ci sono“. Epic fail del leader leghista Matteo Salvini. Che martedì, ospite di Bianca Berlinguer a CartaBianca, parlando di come trovare le risorse necessarie per l’emergenza coronavirus non solo ha tolto tre zeri alle cifre del pil e delle uscite dello Stato – come molti hanno fatto notare su Twitter – ma soprattutto da quei numeri ha tratto una conclusione del tutto sballata. Cioè che ci sia un avanzo, una specie di “tesoretto” da spendere a piacimento.
Innanzitutto il pil – circa 1.800 miliardi, non 1,8 – è la ricchezza prodotta dall’intero Paese nel corso di un anno. Non corrisponde alle entrate dello Stato, che sono rappresentate dalle tasse più gli eventuali ricavi da vendita di parte del patrimonio pubblico. Le entrate fiscali hanno un collegamento diretto con il pil, visto che le imposte sono proporzionali al reddito o ai ricavi, ma sono una sua percentuale: l’anno scorso sono state, a spanne, oltre 500 miliardi. Sommati i contributi, si arriva a un totale superiore a 800 miliardi.
La spesa pubblica invece – tra stipendi degli statali, pensioni, spese per consumi e corposi interessi sul debito – veleggia intorno agli 850 miliardi. Quindi: a parte la confusione tra milioni e miliardi, non esiste alcuna differenza positiva tra entrate e uscite da spendere liberamente, come affermato da Salvini. Anzi.
 Francesco Del Prato
@fdelprato
“L’anno scorso il PIL degli italiani sono stati 1 miliardo e 800 milioni di euro. La spesa pubblica sono 800 milioni di euro: i soldi ci sono.”

È sbagliato tutto quello che poteva esserlo: numeri, ragionamento, metodi, presupposti. Aiutatelo, aiutateci.
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La differenza tra le entrate e le uscite è negativa: è deficit, che viene coperto emettendo titoli di Stato. Cioè indebitandosi ancora. Come l’Italia sta abbondantemente facendo in questa fase, stavolta con il via libera della Ue che ha deciso di sospendere l’applicazione del patto di Stabilità e non conteggiare nel deficit le spese sostenute per l’emergenza coronavirus. In attesa di decisioni sui coronabond.

domenica 4 ottobre 2015

Afghanistan: bombe Usa su ospedale Kunduz. Per Msf almeno 20 morti. Pentagono: "Indagine insieme a Kabul".

© EPA


Il bombardamento sull'ospedale afghano sarebbe stato lanciato per errore.


Médecins sans Frontières (Msf) si è ritirata da Kunduz, la città afghana dove ieri l'ospedale è stato distrutto da un raid aereo, condotto dagli Usa secondo Msf, con almeno 19 morti e decine tra feriti e dispersi. Kate Stegeman, portavoce di Msf, ha precisato che parte del personale sta lavorando in altre strutture della città.
ll presidente Usa, Barack Obama, esprime cordoglio per i medici e i civili rimasti uccisi nel "tragico incidente" all'ospedale Msf a Kunduz, ma precisa di voler aspettare i risultati dell'inchiesta del Pentagono "prima di esprimere qualsiasi giudizio". E' quanto si legge in una nota della Casa Bianca.
"Il ministero della Difesa ha lanciato un'inchiesta completa e aspetteremo i risultati prima di dare un giudizio definitivo sulle circostanze di questa tragedia", ha detto Obama. "Ho chiesto al dipartimento di tenermi al corrente delle indagini e mi aspetto un resoconto completo dei fatti e delle circostanze. Michelle e io preghiamo per tutti i civili colpiti da questo incidente, le loro famiglie e le persone care", prosegue il presidente. Obama ha quindi ribadito che "continueremo a lavorare a stretto contatto con il presidente Ghani, il governo afgano e i nostri partner internazionali per sostenere le forze di difesa nazionale afghane che lavorano per garantire la sicurezza al loro Paese".
Bombe americane colpiscono l'ospedale di Medici senza Frontiere (Msf) a Kunduz, in Afghanistan, città sotto il controllo dei talebani e da giorni teatro di scontri con le forze di sicurezza governative: almeno 20 morti il bilancio provvisorio, secondo quanto detto al Guardian online fonti di Msf. I feriti sono numerosi e il bilancio è destinato a salire. Il bombardamento è proseguito per mezz'ora dalla segnalazione alle forze armate Usa e afgane, denuncia Msf su Twitter, aggiungendo che "tutte le parti in conflitto, incluse Kabul e Washington, conoscevano le coordinate delle nostre strutture già da mesi".
Le forze americane, tramite il portavoce delle forze Usa in Afghanistan, colonnello Brian Tribus, hanno detto che l'operazione "potrebbe avere causato danni collaterali ad una struttura medica della città". "Indaghiamo sull'incidente", ha aggiunto. "Le forze Usa hanno condotto un raid aereo sulla città di Kunduz alle 2,15 locali, contro individui che minacciavano le forze".
Mentre Kabul sostiene che nell'ospedale "si nascondevano 10-15 terroristi", tutti "uccisi, ma fra le vittime ci sono stati anche dottori". Circa 80 membri dello staff dell'ospedale, fra cui 15 stranieri, sono stati portati in salvo.
Pentagono, indagine completa insieme a Kabul - "Stiamo cercando di determinare cosa sia successo esattamente e voglio esprimere il mio cordoglio alle persone colpite". Così, il segretario alla Difesa Usa, Ash Carter, dopo i raid aerei Usa che hanno colpito l'ospedale Msf a Kunduz, in Afghanistan, provocando almeno 20 morti. "Un'indagine completa sui tragici fatti è in corso in coordinamento con il governo afghano", ha aggiunto.
Ue deplora morti - "Sono profondamente scioccato nell'apprendere della morte di almeno nove membri dello staff di Msf nel bombardamento" di un ospedale a Kunduz. Così il Commissario Ue per l'Aiuto umanitario e la gestione delle crisi Christos Stylianides in una nota con cui la Commissione Ue "deplora le morti", porgendo "sincere condoglianze".
I talebani hanno condannato "il selvaggio attacco" in cui sono stati "martirizzati decine di medici, infermiere e pazienti". 
    L'Emirato islamico dell'Afghanistan, sostiene il portavoce Zabihullah Mujahid, "condanna questo crimine americano". Questo gesto, si dice ancora, mostra agli afghani e al mondo "la natura spietata ed ipocrita degli invasori e dei loro mercenari".
Emergency esprime la "sua solidarietà a Medici senza Frontiere e condanna fermamente l'attacco. "Bombardare un ospedale dove si curano i feriti è un atto di violenza inaccettabile. Un ospedale è un luogo di cura che come tale va tutelato e ciò è possibile solo se gli ospedali vengono rispettati da tutte le parti in conflitto, come previsto dalle convenzioni di Ginevra".

Oggi pomeriggio Msf trasferirà alcuni feriti all'ospedale di Emergency a Kabul. Emergency resta a disposizione di Msf e della popolazione di Kunduz per curare gli altri feriti che potranno essere evacuati dalla città. Emergency, che in Afghanistan gestisce 3 ospedali, 1 centri di Maternità e 45 posti di primo soccorso, è molto preoccupata dal costante peggioramento delle condizioni di sicurezza: nel Paese si combatte in 25 province su 34 e il numero dei feriti e delle vittime civili cresce di mese in mese. La "violenza e l'instabilità in cui sta precipitando l'Afghanistan rende sempre più difficile garantire l'attività degli operatori umanitari e tutto questo rischia di tradursi in un ulteriore danno a discapito della popolazione afgana", conclude la nota.