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venerdì 11 luglio 2025

ALESSANDRO ORSINI – IL FATTO – 08.07.2025

CRONACA DI UNA MORTE (DELL’UCRAINA) ANNUNCIATA
L’Ucraina ha perso la guerra, cioè gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Ucraina. Dopo essersi svenati ed inviato armi e munizioni si sono resi conto che la guerra vera la dovranno combattere con la Cina nel Pacifico. Speravano che la Russia sarebbe crollata ed invece sono crollati loro. Gli alleati “europei” incluso il Regno Unito non sono in grado di rimpiazzare gli Stati Uniti sebbene ci abbiano provato con risultati pessimi. Invece di cercare negoziati il più convenienti possibili sino a che l’esercito ucraino non era al collasso hanno dato ascolto a quelli che gioiscono nel vedere l’Ucraina sempre più compromessa e indebitata. Ma se lo capiva anche un bambino quello che sarebbe stato l’epilogo, non dico dall’inizio, ma da quando nel 2022 si sarebbe dovuta scatenare la grande offensiva che è morta prima ancora di iniziare. Hanno invaso il territorio russo dimenticando che tutti quelli che ci hanno provato, da Napoleone a Hitler, si sono dovuti ritirare con la coda tra le gambe. Una persona saggia direbbe che non è mai troppo tardi per cercare negoziati di pace ma come fa Zelensky ora a cedere la Crimea e tutte le regioni del sud est occupate, che è il minimo tributo da pagare alla Russia. Inutile dire che i russi sono cattivi e nei bombardamenti delle città ucraine muoiono civili. In una guerra le bombe non chiedono la carta di identità. Ed a Gaza nessuno dei nostri sgovernanti si scandalizza se muoiono civili. Dicono semplicemente che quella casa o quell’ospedale bombardato nascondevano “terroristi”. Dato che Israele ha dichiarato che anche i bambini sono dei terroristi qual è il problema? Il problema è che Zelensky più a lungo continuerà la guerra e più soldi riuscirà a spremere dagli USA (già fatto!) o dai “bischeri” volenterosi che vorrebbero che i suoi concittadini continuassero ad immolarsi.

UCRAINA SULL’ORLO DELLA DISPERAZIONE MILITARE, POLITICA E PURE ECONOMICA
ALESSANDRO ORSINI – IL FATTO – 08.07.2025
L’Ucraina è sull’orlo della disperazione per una ragione militare, politica ed economica. La ragione della disperazione militare è che la difesa aerea di Zelensky è allo stremo e la forza del suo esercito al fronte si riduce. Di contro, la Russia produce sempre più missili e soldati. L’Europa non ha altre armi da dare a Zelensky. Merz ha supplicato Trump di dare qualche Patriot a Zelensky. Poi si è offerto di acquistarli dalla Casa Bianca per girarli all’Ucraina. I Paesi dell’Unione europea sono rimasti con le scorte strategiche. La ragione economica della disperazione è che l’Ucraina, senza gli aiuti dell’Occidente, è in bancarotta. L’Unione europea non ha i soldi per caricarsi l’Ucraina sulle spalle. Trump deve sorreggere un altro Stato, Israele, e non vuole impoverirsi troppo rispetto alla Cina che non ha guerre a dissanguarla. La ragione politica della disperazione è che la Nato si è spaccata. La Casa Bianca non è più interessata a proseguire la guerra. Bruxelles, invece, vuole che l’Ucraina combatta per il tempo necessario al riarmo dell’Europa. Le armi di Biden dovrebbero terminare verso fine estate. Trump centellina gli aiuti per consentire a Zelensky di calcolare con precisione quando non avrà più armi americane per combattere. L’alleanza che ha sorretto Zelensky è a pezzi. Di contro, l’alleanza che sorregge la Russia è compatta: Corea del Nord, Iran e Cina, sono uniti intorno a Putin. Il ministro degli Esteri di Pechino ha detto a Kaja Kallas che la Cina non può permettere che la Russia perda la guerra in Ucraina, altrimenti gli Stati Uniti rivolgerebbero tutta la loro forza contro la Cina (Cnn). Come questa rubrica ha sempre scritto, la Cina concepisce la guerra in Ucraina come il primo tempo della guerra per Taiwan. La guerra in Ucraina ha prodotto un senso di smarrimento nelle classi governanti e nell’opinione pubblica. Il primo motivo dello smarrimento è la scoperta che l’industria militare della Nato è inferiore a quella della Russia e che gli eserciti di cartone sono quelli dell’Europa. L’Italia ha 50 carri armati operativi, pochissimi soldati, una difesa aerea pressoché inesistente e una classe dirigente incapace di fare un ragionamento più complesso di uno slogan. Mario Draghi: “C’è un invaso e un invasore”. Giorgia Meloni: “Scommetto nella vittoria dell’Uc ra i na ”. Corriere della Sera:“ Il problema della guerra sono i putiniani”. Il secondo motivo è che la Russia si è espansa anziché contrarsi, come dimostra la sua penetrazione in Libia. Il terzo motivo è la scoperta che gli Stati Uniti decidono ciò che accade sul territorio europeo. La Casa Bianca decide se l’Europa vivrà in guerra o in pace. È stata infatti la Casa Bianca a porre tutte le condizioni fondamentali della guerra. Quando la Casa Bianca vuole la guerra, l’Unione europea si ritrova in guerra. Quando la Casa Bianca si stanca della guerra, l’Unione europea si ritrova divisa, umiliata e disarmata. Il quarto motivo dello smarrimento è che l’Italia ha scoperto di non avere una classe di analisti di politica internazionale all’altezza delle sfide. Quasi tutti i ricercatori/professori di politica internazionale che hanno accesso ai grandi media sono “tifosi” dichiarati della Nato che hanno devastato quell’immagine di autonomia e indipendenza di giudizio che il cittadino si aspetta dagli esperti. Nessuno si fida più di loro e di chi diceva che Putin ha un esercito di cartone senza missili né voglia di combattere. Un ricercatore di relazioni internazionali che parla come il Segretario della Nato è come un ricercatore del Cremlino che parla come Putin.

lunedì 13 giugno 2022

I 5 trascinatori di folle. - Marco Travaglio

 

La ridicola disfatta dei cinque referendum contro la Giustizia merita un De Profundis degno della sua catastrofica spettacolarità. Ancora una volta il popolo italiano s’è rivelato molto più maturo della classe politica e intellettuale, seppellendo sotto una coltre di sprezzante indifferenza l’ennesimo tentativo di lorsignori di regalarsi l’impunità col plauso dei cittadini. Si temeva che la gran quantità di criminali d’alto e basso bordo operanti in Italia alzasse l’affluenza, rispondendo alla chiamata alle armi dei poteri marci travestiti da “garantisti” contro i magistrati cattivi: invece nemmeno la maggioranza di chi vive di illegalità s’è scomodata. E i votanti sono stati così pochi che non si sarebbe raggiunto il quorum neppure se si fosse votato per un mese e le tv ne avessero parlato “h24” per un anno. Il merito della strepitosa débâcle si deve anzitutto ai presunti leader del Sì: i soliti radicali (Bonino in testa), ormai caricature di ciò che furono; i noti trascinatori di folle Salvini, B., Renzi, Calenda; alcuni noti frequentatori di se stessi del Pd (i sindaci Ricci e Gori); le trombette della stampa di destra e dei signorini grandi firme di Rep (Merlo), del Corriere (Panebianco), del Messaggero (Nordio); e la lobby degli avvocati (da non confondere con l’intera categoria). La Meloni s’era tenuta a debita distanza, pur predicando tre sì e due no. Solo Conte, Letta e Leu avevano osteggiato la follia di chiamare i cittadini a pronunciarsi su temi tecnici che spettano al Parlamento.

Ma la presenza nel fronte del Sì di quei Re Mida all’incontrario che trasformano in cacca tutto ciò che toccano non basta a spiegare questo disastro di proporzioni bibliche, destinato a screditare vieppiù l’unico strumento di democrazia diretta di cui disponiamo. C’è di più: i finti garantisti che pretendevano di scandalizzare la cittadinanza per le manette facili (in realtà difficilissime), l’esclusione dei condannati da Parlamento, governo, enti locali e regionali, la carriera unica di giudici e pm (consigliata dall’Ue e difesa dai veri garantisti), l’assenza di avvocati nei consigli giudiziari che valutano i magistrati e financo le 25 firme richieste ai togati per candidarsi al Csm, sono gli stessi che da trent’anni lavorano per convincere gli italiani che le indagini sui reati dei politici sono una “guerra fra giustizia e politica”: un derby fra guardie e ladri che non riguarda i cittadini, i quali se ne devono bellamente infischiare. Guai a ricadere nell’errore “giustizialista” di Tangentopoli e Mafiopoli, quando gli italiani tifavano per le guardie perchè sapevano di essere le vittime dei ladri e dei collusi. Hanno ridotto milioni di persone da protagonisti a spettatori, da cittadini a sudditi: ora non si meraviglino se gli elettori stanno a guardare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/06/13/i-5-trascinatori-di-folle/6624617/

giovedì 16 aprile 2020

L’ospedale glam alla Fiera, simbolo della disfatta lombarda. - Gianni Barbacetto

Coronavirus, viaggio in fiera a Milano dove deve sorgere il nuovo ...


L’ospedale alla Fiera di Milano doveva essere il simbolo dell’intervento virtuoso della Regione Lombardia contro l’epidemia. Si sta trasformando nel suo opposto: il simbolo della disfatta lombarda. Intendiamoci, ci sono colpe ben più gravi imputabili a chi ha le responsabilità politiche e amministrative di gestire il contrasto a Covid-19, e cioè il presidente Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera e il suo direttore generale Luigi Cajazzo.

Sono colpe in gran parte indicate non da astiosi avversari politici, ma dagli ordini dei medici lombardi: “Assenza di strategie nella gestione del territorio”, “sanità pubblica e medicina territoriale trascurate e depotenziate”, “non-governo del territorio con saturazione dei posti letto ospedalieri”, “tamponi solo ai ricoverati e diagnosi di morte solo ai deceduti in ospedale”, “incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio”, tipo Alzano Lombardo-Nembro, “mancata fornitura di protezioni individuali ai medici e al personale sanitario che ha determinato la morte o la malattia di molti colleghi”, “gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani che ha prodotto diffusione contagio e triste bilancio di vite umane”, 600 morti nella sola provincia di Bergamo, 2 mila in tutta la regione.

Detto questo, per cercare di far dimenticare la terribile, epocale disfatta di quella che veniva narrata come l’“eccellenza sanitaria lombarda”, il duo Fontana-Gallera – persa ignominiosamente, a monte, la battaglia di Caporetto – ha puntato tutto sull’intervento, a valle, dell’ospedale Covid della Fiera. La linea del Piave. Non abbiamo saputo fermare i contagi alla partenza, ma facciamo un super-hub della terapia intensiva per ospitare e salvare i contagiati.

Operazione anche (non solo, ma anche) d’immagine, alla milanese, con gran lavorio delle pierre e degli esperti di comunicazione, annunci mirabolanti e rotonde promesse, numeri sparati al rialzo, San Bertolaso come nume tutelare, grandi firme come finanziatori, Cracco in cucina sorridente come nello spot della Scavolini, inaugurazione tecno-glam. Ma chi si loda s’imbroda, o – come dicono a Milano – “Fa no il bauscia!”. Fontana aveva annunciato un super-ospedale da 600 posti, poi diventano 400, poi 200, infine 157. Oggi i posti pronti sono 53, i pazienti sono dieci (10). Spesa 21 milioni di euro.

Era il 12 marzo quando Gallera aveva lanciato la sfida: “I cinesi a Wuhan ci hanno messo dieci giorni a costruire un ospedale? I lombardi ne impiegheranno sei”. Sarà inaugurato il 31 marzo (19 giorni dopo) e i primi tre (3) pazienti arrivano il 6 aprile (25 giorni dopo). È finito comunque fuori tempo: in questi giorni le terapie intensive si svuotano (per fortuna, e speriamo non tornino ad affollarsi).

Ma da subito molti specialisti avevano sconsigliato l’operazione. Qualcuno racconta che il professor Alberto Zangrillo se ne sia andato da una riunione in Regione sbattendo la porta. E Giuseppe Bruschi, dirigente medico del Niguarda, spiega: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, perché il Covid provoca complicazioni su cui è necessario intervenire d’urgenza che non sono solo polmonari, ma cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche…

Intanto, in silenzio, senza glamour, senza Cracco e senza inaugurazioni, gli Alpini hanno fatto un padiglione a Bergamo con 140 letti e tutti gli ospedali hanno incrementato i posti di terapia intensiva. Il trio Fontana-Gallera-Cajazzo ha fatto invece l’ospedale glam della Fiera, che sarà studiato come case history della disfatta nella nuova Milano da bere.