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venerdì 27 agosto 2021

Isis-K, l’origine e i rapporti con la galassia jihadista degli attentatori di Kabul. - Roberto Buongiorni

 

Forte di circa 1.500 miliziani, è una brigata internazionale del terrore che ha attratto i talebani più vicini ad al Qaeda ed ex foreign fighters siriani.

I terroristi islamici amano farsi pubblicità. Desiderano che le loro carneficine siano riprese e raggiungano la più ampia platea possibile. Poche altre volte come in questi giorni, i riflettori dei media mondiali sono tutti, o quasi, puntati su Kabul. La capitale afghana rappresentava dunque una vetrina forse irripetibile. Un attentato in grande stile avrebbe, per esempio, rispolverato l’immagine del feroce movimento dello Stato Islamico del Khorasan, altrimenti conosciuto come Isis K, messo in ombra dai sorprendenti successi militari dei talebani, i nuovi padroni dell’Afghanistan.

Ex costola di al Qaeda.

Dietro l’attacco kamikaze all’aeroporto di Kabul c’è questa organizzazione guidata da un anno e mezzo dall’ex qaedista Shahab al-Mujari. Ma che cosa è esattamente lo Stato Islamico del Khorasan? Era il 2015, quando iniziarono a comparire le prime rivendicazione da parte di un sedicente gruppo terrorista che si definiva «Provincia del Khorasan dello Stato Islamico» (il grande Khorasan è termine storico che indica i territori degli odierni Afghanistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Pakistan). Apparentemente fu fondato dai talebani pakistani, ovvero i gruppi qaedisti presenti nella regione del Waziristan, una terra di nessuno dove spesso non arriva la mano del governo pakistano, e dove i qaedisti agivano indisturbati (in queste montagne si era nascosto per anni Osama Bin Laden). Da allora gli attentati più crudeli, alcuni rivolti direttamente contro civili inermi, soprattutto a Kabul e nell’Afghanistan centro orientale, sono opera loro. La rottura della fragile alleanza tra gruppi qaedisti e Isis in Siria, e la conseguente guerra civile jihadista per il controllo del territorio, si ripetè anche in Afghanistan. Dove Isis e talebani arrivarono presto allo scontro armato.

Avversari dei talebani.

Dal 2015 al 2018, il movimento era stato particolarmente attivo. Ma il progressivo declino del Califfato siro-iracheno, fino alla sua sconfitta, si sono riflessi anche sul morale, e soprattutto sulle finanze dell’Isis-K. L’Isis afghano cominciò a subire un’involuzione che lo portò a ritirarsi in piccole aree dove sopravviveva grazie al controllo di alcune miniere, tra cui quelle di talco nella provincia di Nangahar ai confini con il Pakistan. Nel 2019 tuttavia, complici anche la decisione di entrare nel business del narco traffico, l’Isis-K ha rialzato la testa. Grazie a maggiori entrate è riuscito a riprendere possesso di diversi territori e oggi la sua presenza si è estesa in diverse province (in Nangarhar, Kunar, Nuristan, Badakhshan).

Una brigata internazionale del terrore.

Difficile conoscere il numero dei suoi combattenti. Si parla di 1.500 miliziani. Una sorta di brigata internazionale del terrore che, se da un lato ha attratto i talebani più vicini ad al Qaeda e contrari a qualsivoglia accordo di pace con Kabul (tra cui Tehrik-e Taliban Pakistan e quel che resta dell’Islamic Movement of Uzbekistan), dall’altro ha funzionato come un magnete per i gruppi estremisti in fuga dalla Siria (soprattutto di jihadisti centro asiatici). Il tentativo della nuova leadership taleban di mostrare un nuovo volto, meno estremo e più colllaborativo con l’Occidente (i fatti devono però ancora seguire alle parole), sta tutt’ora provocando una nuova ondata di defezioni tra i gruppi talebani più vicini ad al Qaeda. La priorità dell’Isis-K non è mai stata un segreto: distruggere l’influenza dei talebani nell’Afghanistan orientale e da lì costruire una nuova grande base del jihadismo globale, quindi anti-occidentale.

L’ideologia del Califfato.

La sua ideologia è la stessa del Califfato. Esportare il jihad nel mondo e fare terra bruciata di apostati ed infedeli, ovvero di tutti coloro che (musulmani o non) siano per qualsivoglia motivo diversi da loro. Ecco perchè gli attacchi più efferati dell’Isis-K sono stati rivolti contro l’etnia Hazara, gli afghani dai tratti mongoli, in larga parte sciiti, che vivono nella regione centrale dell’Hazarajat. Contro di loro, e altre minoranze religiose, hanno raggiunto una brutalità impensabile. Dall’attacco kamikaze in marzo contro un tempio Sikh (25 pellegrini uccisi), a quelli in maggio nell corsie del reparto maternità di un ospedale di Kabul (16 morti tra cui dei bambini) dove operava Medici senza frontiere, all’attentato contro un funerale, fino alla raccapricciante strage delle giovani studentesse, soprattutto hazara, Le vittime furono 55 vittime, quasi tutte avevano tra gli 11 e i 15 anni. Il timore è che non sarà l’ultimo. Nel nuovo afghanistan l’Isis-K ha trovato un terreno fertile.

IlSole24Ore

mercoledì 25 agosto 2021

Tutti a casa. - Marco Travaglio

 

L’abilità tutta italiota di trasformare anche la peggior tragedia in farsa è nota. Ma su Kabul si esagera. Per giorni i mejo strateghi del bigoncio si lambiccavano in avvincenti spiegazioni dell’ignominiosa ritirata americana, roba che Caporetto al confronto fu un capolavoro di compostezza. Per alcuni era tutta colpa di Di Maio: se non andava in spiaggia poteva tagliare la strada ai talebani. Per altri era il titolo del Fatto “I talebani fanno i democristiani” che rafforzava i mullah e fiaccava la resistenza dei nostri (come se fare, cioè fingersi, equivalesse a essere). Merlo su Rep ci dava degli “italiban” e spiegava che “i talebani mettono bombe e tagliano gole nelle città dell’Occidente” (chi di voi non ne ha mai incontrato uno sotto casa con cinturone esplosivo e coltello da picnic?). Poi Conte diceva un’ovvietà: “serrata trattativa coi talebani” coinvolgendo Cina e Russia.

Apriti cielo! È “l’avvocato dei tagliagole” (Sallusti, Libero), subisce “il fascino del kalashnikov” (Messina, Rep), “Il dna del M5S è la fascinazione per regimi e autocrazie: Iran, Venezuela, Russia, Cina” (Cappellini, Rep),“Conte ha una grave lacuna: gli Esteri” (Sorgi, Stampa), “I talebani ringraziano Cina e 5Stelle” (Minzolingua, Giornale). In sottofondo, gli alti lai dei Nando Mericoni twittaroli, da Johnny Riotta a Polito el Drito ai poveri Iacoboni e Lavia, ormai tutt’uno con l’orchestrina renziana. Poi purtroppo il mondo intero si fa grillino e diventa una gigantesca Volturara Appula. Borrell (Ue): “La Ue deve dialogare coi talebani”. Grandi (Unhcr): “I talebani mostrano pragmatismo, bisogna trattare”. La Merkel, Johnson, Prodi, il G7: “Trattare coi talebani”. Angela chiede financo aiuto a Putin e Draghi, oltreché Russia e Cina, vuol coinvolgere pure il Pakistan (che ospitava Bin Laden): gli italoyankee in gramaglie. Ieri, il giorno più nero. Lucio Caracciolo, firma di punta di Stampubblica, si dà alla clandestinità sul Riformista per dire che “è ovvio, bisogna trattare coi talebani”, “sono cambiati”, ma non sono mai andati “a fare attentati in giro per il mondo: si son sempre e solo occupati dell’Afghanistan” (un modo elegante per dare del somaro al Merlo). Ieri, i due colpi di grazia: Biden agli ordini dei talebani (“Ok, ok, ce ne andiamo il 31”) e la serrata trattativa fra il mullah Baradar e il capo della Cia Burns, altro noto burattino di Conte. Colpiti e affondati, gli amerikani a Roma si chiudono in un luttuoso silenzio: solo marce militari. Se fossero spiritosi, chiamerebbero qualcuno dal bar, come Sordi in Tutti a casa: “Signor colonnello, accade una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani! Ah no? È tutto finito?! Ma non potreste avvertire i tedeschi? Ci stanno continuando a sparare!”.

ILFQ

domenica 22 agosto 2021

Putin-Merkel, incontro a Mosca. La cancelliera: 'Ho chiesto di liberare Navalny'.

 

'La Germania resta uno dei principali partner della Russia', ha detto Putin. 'Il dialogo con la Russia è necessario nonostante distanze', ha affermato la cancelliera.


La cancelliera tedesca Angela Merkel a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin, proprio nel giorno dell'anniversario dell'attacco con il gas nervino contro il leader dell'opposizione Alexei Navalny, curato poi a Berlino.

In quella che sarà l'ultima visita della Merkel in Russia, lo staff della cancelliera ha chiarito che la tempistica dell'incontro non è casuale, dato che (come ha detto il suo portavoce Steffen Seibert) "le nostre richieste non sono ancora state soddisfatte", il caso è "irrisolto" ed è un "pesante fardello" sulle relazioni tra i due Paesi.

La Germania resta uno dei principali partner della Russia in Europa e nel mondo, ha detto Putin in apertura del suo incontro con Merkel. Putin si è detto convinto che il vertice non sarà solo un viaggio di commiato da parte della Merkel ma "zeppo di contenuti", riporta la Tass. 

La Russia e la Germania devono continuare il dialogo nonostante le controversie, ha affermato la cancelliera tedesca.  

"Ho chiesto ancora una volta al presidente la liberazione di Navalny", ha detto Angela Merkel in conferenza stampa a Mosca con Putin, sottolineando che la detenzione del dissidente sia "inaccettabile".

Secondo Putin, Alexei Navalny "non è stato condannato" per la sua attività politica ma per "i crimini commessi contro i partner stranieri" nel caso Yves Rocher. La guerra alla corruzione "è importante" ma non deve essere usata "come strumento di lotta politica", ha aggiunto Putin commentando l'articolo di Navalny pubblicato da diversi giornali internazionali. 

"Saremo sempre felici di vederla in Russia ancora, grazie per il lavoro di questi 16 anni",  ha detto ancora Putin.

Sull'Afghanistan, Putin che detto che "i Talebani ora controllano la maggior parte del Paese, inclusa Kabul, questa è la realtà e dobbiamo evitare la distruzione dello Stato afghano. Noi conosciamo il Paese molto bene, sappiamo quanto controproducente sia imporre altri modelli stranieri verso l'Afghanistan, non ha mai successo". "Non si può imporre il proprio stile di vita su altri popoli, perché hanno le loro tradizioni. Questa è la lezione da trarre da quanto accaduto in Afghanistan. D'ora in poi lo standard sarà il rispetto delle differenze, perché non si può esportare la democrazia, che uno lo voglia o no". "I talebani hanno avuto più sostegno di quello che avremmo auspicato. Dovremo cercare di parlare con loro", ha detto Angela Merkel per fare in modo che gli afghani che hanno aiutato la Germania "possano lasciare il paese". "Spero che si possano trovare delle strutture inclusive", ha aggiunto, per aiutare il popolo afghano, e "allo stesso tempo spero che il terrorismo non sia più in futuro una minaccia internazionale".

Affrontato anche il tema Ucraina: l'impressione è che le autorità di Kiev abbiano "rinunciato" alla risoluzione pacifica del conflitto del Donbass e la Russia trova "preoccupanti" le dichiarazioni dell'Ucraina sul suo effettivo rifiuto di attuare gli accordi di Minsk, ha detto Vladimir Putin in conferenza stampa con Angela Merkel, sottolineando che chiederà alla cancelliera tedesca di fare pressioni su Kiev, nel corso del suo viaggio di domenica prossima, perché l'Ucraina attui la sua parte di accordo. "Il formato Normandia è l'unico che c'è", secondo Merkel che ha aggiunto: "Io consiglio di tenere in vita i negoziati per la pace" in Ucraina, anche se i passi avanti non sono rapidi quanto si vorrebbe. 

L'impressione è che le autorità di Kiev abbiano "rinunciato" alla risoluzione pacifica del conflitto del Donbass e la Russia trova "preoccupanti" le dichiarazioni dell'Ucraina sul suo effettivo rifiuto di attuare gli accordi di Minsk. Lo ha detto Vladimir Putin in conferenza stampa con Angela Merkel, sottolineando che chiederà alla cancelliera tedesca di fare pressioni su Kiev, nel corso del suo viaggio di domenica prossima, perché l'Ucraina attui la sua parte di accordo.

"Con tutte le divergenze di opinioni, sono molto contenta del fatto che noi possiamo parlare", e il colloquio è stato "costruttivo" alla ricerca di "soluzioni comuni", ha detto Angela Merkel. La cancelliera ha citato le visite regolari tenute in Russia in 16 anni: "Ho sempre cercato il contatto, anche se non sempre è stato facile". Merkel ha sottolineato l'importanza del "tentativo di cercare un compromesso". "Non c'è alcuna ragionevole alternativa a questo", ha concluso.

Putin ha regalato un mazzo di fiori alla cancelliera in apertura dei negoziati. Merkel, accompagnata dalla sua delegazione, si è dunque seduta al suo posto, accanto al leader russo, per le prime annotazioni d'inizio vertice solitamente tenute davanti alle telecamere. Mentre Putin parlava, all'improvviso, si è udito un trillo e Merkel ha frettolosamente estratto il cellulare dalla tasca, per silenziarlo.

ANSA

sabato 21 agosto 2021

Taleballe - Marvo Travaglio

 

Il Cretino Collettivo che discetta di tutto lo scibile umano – dai vaccini al green pass, dalla giustizia al Reddito – con la stessa enciclopedica incompetenza, ha traslocato armi e bagagli a Kabul senza muoversi dal divano o dalla sdraio né accettare alcuni dati di fatto. 

1) La guerra l’hanno vinta i Talebani e l’hanno perduta gli Usa e i loro reggicoda, Italia inclusa. 

2) Gli Usa si sono ritirati non perché Trump era sovranista e Biden è un vecchio rinco, ma perché han perso. 

3) Quando finisce una guerra, comandano i vincitori, non gli sconfitti, quindi a Kabul comandano i Talebani (che fra l’altro sono afghani), non gli occidentali (che fra l’altro non lo sono). 

4) I vincitori di solito non piacciono agli sconfitti, perché sono il nemico. Ma è fra nemici che si tratta, non fra amici. Gli sconfitti non possono scegliersi i vincitori preferiti: devono tenersi quelli che hanno, farsene una ragione e decidere se trattarci o meno. Se non trattano, i vincitori fanno come gli pare; se trattano, può darsi che i vincitori li ascoltino, ma solo se gli conviene (in cambio di aiuti o per paura di ritorsioni). 

5) I talebani si son travestiti da dialoganti (“fanno i democristiani”, diceva il nostro titolo ironico su un fatto decisivo, notato da tutti gli osservatori) per mettersi all’asta nelle trattative. E con loro già trattano i russi e i cinesi (avvantaggiati dal fatto di non averli mai attaccati). Chi, in Europa, piagnucola perché Pechino e/o Mosca si pappano Kabul dovrebbe fare qualcosa di più astuto che tenere il broncio ai talebani: tipo smarcarsi dagli Usa, che ci hanno bellamente scaricati (Biden non cita mai Ue e Nato), e offrire loro qualcosa in cambio di corridoi umanitari e politiche meno efferate di 20 anni fa.

6) Coi talebani gli Usa trattano da sempre: Reagan per foraggiarli contro l’Urss, Clinton per farsi consegnare Bin Laden dopo i primi attentati di al Qaeda, Obama a guerra ormai persa, Trump per siglare l’accordo di Doha sul ritiro Usa, ora militari e diplomatici rimasti per l’esodo dei collaborazionisti (nessuno parte senza l’ok dei talebani). 

7) Chi vuole sperare in corridoi umanitari e in un regime meno feroce e sessista deve parlare coi talebani, almeno fingere di credere alle loro aperture e metterli alla prova. L’han detto Borrell della Ue (“Ue obbligata a dialogare coi talebani”), Grandi dell’Unhcr (“Per ora i talebani mostrano pragmatismo, ma se non trattiamo non potremo mai accertarlo né ottenerlo”) e i ministri del G7. Ma appena lo dice Conte, i giornali di destra gli danno dell’“avvocato dei tagliagole” (Libero) col “fascino del kalashnikov” (Repubblica). In attesa del primo videomessaggio del Mullah Giuseppi dalla caverna con la pochette a tre punte sulla bandiera nera di al Qaeda, qualcuno chiami l’ambulanza.

ILFQ

martedì 17 agosto 2021

La folle guerra delle lacrime di coccodrillo. - Salvatore Cannavò

 

Afghanistan, 20 anni di errori e menzogne.

Se la guerra in Afghanistan avesse avuto davvero l’obiettivo di colpire i responsabili dell’attentato dell’11 settembre 2001, sarebbe potuta finire il 1 maggio del 2011. Quando Osama bin Ladin, a Islamabad, fu liquidato dalle truppe speciali Usa sotto lo sguardo rapito, immortalato da una celebre foto, di Barack Obama.

Dopo dieci anni, la guerra contro i talebani non aveva fatto nessun passo avanti significativo eppure si andrà avanti dieci anni ancora senza che i responsabili abbiano presentato una scusa o un ripensamento.

I Neocons all’attacco. 

Dopo il crollo delle Torri gemelle lo stato maggiore statunitense a partire dal suo commander in chief hanno in testa un solo obiettivo, Bin Laden. Ma soprattutto hanno in testa la guerra in Afghanistan che con l’eliminazione di Al Qaeda non c’entra nulla. Già il 13 settembre, secondo il Washingont Post, sul tavolo di George Bush jr. e del suo manovratore Dick Cheney, ci sono “ben sei piani per colpire l’Afghanistan”.

Gli Usa vanno in Afghanistan per motivi geopolitici: c’è da presidiare l’area del mondo che potrebbe essere preda dell’espansione cinese. C’è da accerchiare l’Iran e preparare la prossima guerra, il chiodo fisso di Dick Cheney, quella in Iraq. L’Afghanistan è invaso di uomini, 775 mila in tutto, di soldi, circa mille miliardi di dollari, di aiuti distribuiti a caso, senza molto senso. Eppure Bush annuncia agli americani una nuova guerra – compostamente dichiarata solo dopo “aver detto molte preghiere” – che sarà vinta “con la paziente accumulazione di successi”. Le preghiere con l’islamismo dei talebani non devono aver funzionato molto e i successi non si sono visti.

Il fido Blair.

Accanto agli Stati Uniti si erge la sponda convinta e decisa della Gran Bretagna guidata dal “progressista” Tony Blair. Che fa di tutto per intestarsi la guerra. Prima, lanciando l’ultimatum a Kabul al grido “o ci consegnate Bin Laden o lasciate il potere” e poi mettendo a disposizione tutto il potenziale bellico necessario dato che le forze armate britanniche “sono tra le migliori al mondo”. Blair è un riferimento obbligato della sinistra riformista e con lui ci sono praticamente tutti: Lionel Jospin in Francia, Gerhard Schröder in Germania, Luis Zapatero in Spagna e la sgangherata formazione ulivista in Italia capeggiata in quel momento da Piero Fassino e Francesco Rutelli. Ma prima occorre fermarsi sulla terza “B” di quella guerra, dopo Bush e Blair: Silvio Berlusconi.

Il signor “B”.

 L’allora leader del centrodestra sa bene, e lo dice pubblicamente, che “l’operazione militare in corso è stata preparata da tempo”. L’Italia, diceva l’allora Cavaliere, “non ha mai messo alcun limite alle richieste che, eventualmente, venissero fatte dagli Usa. Ci siamo mantenuti a disposizione e siamo ancora a disposizione”. Con lui tutto il centrodestra, Lega e An comprese, fieramente asserviti ai desideri Usa, come da copione atlantico. E con la guerra si schiera anche l’allora Ulivo anche se con diversi mal di pancia interni.

Fassino con l’elmetto Scontata la contrarietà di Rifondazione comunista – che solo al governo, nel 2006, darà l’avallo alle missioni militari –, tra i protagonisti del tempo troviamo anche l’attuale segretario del Pd, Enrico Letta, privo di alcun dubbio: “La guerra di oggi ha motivazioni più solide e sarebbe un incomprensibile errore per la sinistra italiana tirarsi indietro”. La sinistra italiana non si tira indietro pur con dei distinguo: la sinistra interna ai Ds, l’Unità diretta da Furio Colombo, una parte del cattolicesimo democratico nella Margherita, il “no” del Prc e dei Verdi. Francesco Rutelli, capo della coalizione se ne duole lamentando la “mancanza di una cultura di governo”.

Sarà quella cultura che porterà il secondo governo Prodi a isolare i dissensi sotto l’occhio vigile dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vincola quel governo alla compattezza sulle missioni, pena “un grave problema politico”. Del resto, il progressista numero Uno, Barack Obama, non farà nulla per fermare la catastrofe e il suo vice si chiama Joe Biden.

I Papers delle bugie.

Per capire che la guerra fosse un errore basta leggere gli Afghanistan Papers pubblicati dal Washington Post. Duemila pagine di note, appunti e interviste a generali e diplomatici per evidenziare la catena costante di errori e bugie: “Eravamo privi di una comprensione fondamentale dell’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo” spiegava Douglas Lute, generale a tre stelle. John Sopko, il capo dell’agenzia federale che ha condotto le interviste, conferma che “al popolo americano è stato costantemente mentito”. Quanto alla preparazione dell’esercito, gli addestratori militari Usa hanno descritto le forze di sicurezza afghane come “incompetenti, immotivate e piene di disertori” con i comandanti afghani intenti a “intascare gli stipendi per decine di migliaia di “soldati fantasma”. Nel frattempo l’Afghanistan è diventato il produttore dell’82% dell’oppio mondiale.

Il Merlo gné-gné.

Eppure Emma Bonino, nel 2005, si felicitava per un “processo di transizione istituzionale e democratica” ormai concluso. E su queste posizioni tutta la stampa democratica. Allo scoppio della guerra Gianni Riotta scriveva che l’obiettivo sarebbe stato “un Afghanistan retto da un governo di coalizione, che metta fuorilegge i Taliban e Al Qaeda e ripristini almeno livelli minimi di diritti civili per le donne e i profughi”. Altro editorialista, Antonio Polito, dal 2006 al 2008 senatore della Margherita, si complimentava con Prodi perché sull’Afghanistan aveva “marcato chiaramente la differenza da Bertinotti” manifestando la sua vera preoccupazione. Le voci dissonanti, come Gino Strada, venivano bastonate allegramente. Francesco Merlo nel febbraio 2003 sul Corriere della Sera lo chiamava il “signor Né-Né” che fa tanto rima con gné-gné. “Il signor Né-Né non è un pacifista, è piuttosto una scoria del pacifismo, è la serpe che fa la sua tana nel pacifismo più ingenuo, lupo tra le colombe, volpe nel pollaio”. A uno stupito Gino Strada che chiedeva conto di tali insulti, egli rispondeva: “In guerra (…) non si può scegliere di non scegliere, non si può stare né di qua né di là (…) La retorica delle buone intenzioni ha sempre dei profittatori, degli astuti signori Né-Né. Dove vuole che vadano i lupi e le volpi se non tra le colombe del coraggioso Gino Strada, e nei pollai?”. Oltre a rivelare il giudizio su Gino Strada un certo riformismo “colto”, in quelle parole (nonostante fossero riferite all’Iraq) c’è tutta la supponenza con cui sono state affrontate le guerre globali. Con relative voragini.

ILFQ

Imbecillistan. - Marco Travaglio

 

Su Kabul, l’unica cosa che stupisce è lo stupore. Possibile – si domanda il Giornalista Unico sul Giornalone Unico dall’alto del suo ventennale “atlantismo” e “riformismo” – che l’Afghanistan, dopo vent’anni di esportazione della democrazia e di lotta al terrorismo a suon di bombe, di morti e di torture, si riconsegni ai Talebani? Possibile che il popolo non dia il sangue per difendere tal Ghani, il presidente-fantoccio che gli abbiamo regalato noi e che fra l’altro se l’è già data a gambe? Possibile che l’invincibile armata mercenaria di 300 mila soldati reclutata, equipaggiata e addestrata dagl’invasori (anch’essi fuggiti) si sia squagliata come neve al sole anziché combattere per conto loro, senza neppure quei “tre mesi di resistenza” che i nostri “esperti” prevedevano fino all’altroieri dando per certo l’accordo per un “governo di transizione” gradito all’Occidente? Da vent’anni le meglio firme del bigoncio che se la tirano da “competenti”, embedded al seguito della destra berlusfascia e della “sinistra” blairiana sbavavano per la “guerra al terrorismo” senza mai azzeccarne una. Più i nostri eroi prendevano legnate moltiplicando in tutto il mondo il terrorismo che dicevano di combattere, più raccontavano che stavamo vincendo noi. E ora, tomi tomi cacchi cacchi, scoprono quello che chi ha occhi per vedere sa dal 2001: i Talebani, che 20 anni fa stavano sulle palle ai 3/4 degli afghani, tornano al potere da trionfatori, con l’aureola degli eroi della resistenza. E ancora una volta ci hanno sconfitti con le nostre armi (da noi fornite al cosiddetto “esercito regolare”, subito arresosi nelle loro mani).

Eppure il direttore di Repubblica Maurizio Molinari spiega come la guerra di Bush-Blair-Berlusconi, tre leader che a stento sapevano dov’era Kabul, fosse giusta. Cioè che dietro l’attacco alle Torri Gemelle non ci fossero le satrapie petrolifere del Golfo, in testa l’Arabia Saudita (quella del Nuovo Rinascimento renziano), ma i Talebani (che non sono neppure arabi). “Al-Zawahiri e Bin Laden – scrive Sambuca restando serio – trovarono questo santuario jihadista nell’Afghanistan dei talebani del Mullah Omar – che li ospitò, sostenne e finanziò fino a consentirgli di organizzare l’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 – ma dopo l’intervento americano la base territoriale svanì”. Una tesi che nemmeno i suoi amici del Pentagono osano più sostenere. Quando i Talebani del mullah Omar&C. e il califfo saudita Bin Laden combattevano i sovietici, agli Usa piacevano un sacco: le armi gliele passavano loro. L’incontro fra i due capi avvenne allora: Osama foraggiò i mujaheddin contro l’Urss, d’intesa con gli Usa e con tutto l’Occidente. E poi finanziò la ricostruzione dell’Afghanistan: strade, scuole, ospedali. Perciò era amato dagli afghani e quando Omar entrò in Kabul nel ‘96 lo lasciò lì. Ma nel ‘98 Bin Laden fu sospettato per gli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. E Bill Clinton prese a bombardare la zona di Khost, pensando che si nascondesse lì: invece morirono centinaia di civili. Partì una trattativa fra talebani e Casa Bianca: Wakij Ahmed, braccio destro del mullah, incontrò Clinton il 28.11 e il 18.12 ’98. Offrì di indicare il nascondiglio di Bin Laden in cambio della fine dei bombardamenti. Ma Clinton rifiutò. I Talebani poi rifiutarono di far costruire il mega-gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan alla compagnia americana Unocal, in cui erano impicciati due fedelissimi del neopresidente Bush jr., Cheney e Rice, oltre al futuro Quisling afghano Karzai. Nel suo bel libro sul mullah, Massimo Fini racconta anche la trattativa sull’oppio: nel 2000 il mullah bloccò la coltivazione di papavero, facendo schizzare il prezzo dell’oppio e rovinando gli affari del narcotraffico mondiale. Meno di un anno dopo partì l’attacco e la produzione dell’oppio ricominciò.
L’attacco alle Twin Towers fu un puro pretesto. Non c’era un solo afghano fra gli attentatori né nelle cellule di Al Qaeda. Solo sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, marocchini, yemeniti. Non afghani o iracheni. Infatti furono attaccati Afghanistan e Irak (nel 2003, con la scusa delle armi di distruzione di massa, mai viste, e di un inesistente patto fra Saddam Hussein e Bin Laden, che si erano condannati a morte a vicenda: poi Osama fu ucciso in Pakistan, che nessuno si sognò d’invadere). A Kabul la guerra al terrorismo, costata 3mila miliardi $ solo agli Usa, ha riabilitato i Talebani. A Baghdad ha prodotto l’Isis. Nel febbraio 2003 Gino Strada predisse come sarebbe finita e fu accusato di filo-terrorismo. Francesco Merlo, non ancora passato a deliziare i lettori di Rep, lo additò sul Corriere come un “Signor Né Né”. Gino rispose così: “Signor Merlo, ho l’impressione che il partito della guerra del petrolio non passi un gran momento… Gli amici dell’‘amico George’ imbavagliano l’informazione in modo da renderla indistinguibile dalla propaganda – ne sa qualcosa, Signor Merlo? – eppure la gente non li ascolta. Rendono i telegiornali molto simili al Carosello, eppure le persone continuano a pensare, a porsi domande… Ho la sensazione che non filerà via liscia, che i cittadini si siano stancati di fare da telespettatori, che i padroni delle testate debbano rassegnarsi a non essere anche padroni delle teste…”. Oggi l’Afghanistan torna a vent’anni fa. Invece la stampa italiana non s’è mai mossa.

ILFQ

domenica 15 agosto 2021

Afghanistan, i talebani entrano a Kabul. Occidentali in fuga.

 

Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico.

Ultime ore per Kabul, capitale dell’Afghanistan, meta ultima della marcia di avvicinamento dei talebani che nelle ultime settimane hanno gradualmente messo sotto controllo il resto del Paese: i militanti sarebbero infatti entrati in città dove, secondo quanto riferiscono alcuni abitanti ai media stranieri, si sentono spari e sono in corso combattimenti. Secondo l’agenzia russa Ria Novosti i talebani hanno preso il controllo dell’università di Kabul, nella parte occidentale città, e hanno anche issato le loro bandiere in uno dei distretti. Ma l’ufficio stampa del palazzo presidenziale dell’Afghanistan ha negato l’attacco talebano, affermando che in alcune parti di Kabul si sono verificati solo sporadici colpi di pistola. Nessun attacco ha avuto luogo a Kabul, le forze di sicurezza e di difesa del paese e i partner internazionali stanno fornendo sicurezza alla città, ha spiegato sui social media un funzionario governativo.

Talebani: ordine è di non entrare a Kabul.

In una nota, i talebani affermano però di non avere intenzione di prendere Kabul “con la forza”. Tre funzionari afgani hanno riferito all’Associated Press che i combattenti si trovavano già nei distretti della capitale di Kalakan, Qarabagh e Paghman. “La vita, la proprietà e la dignità di nessuno saranno danneggiate e la vita dei cittadini di Kabul non sarà a rischio”, hanno affermato i talebani. “L’Emirato islamico ordina a tutte le sue forze di attendere alle porte di Kabul, di non tentare di entrare in città”. Lo scrive su Twitter Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, come riporta Afp. Una fonte residente in un quartiere della capitale afghana ha comunque detto a Af che “vi sono combattenti talebani armati nella zona, ma non vi sono combattimenti”.

Jalabad caduta senza combattere.

Questa mattina, a conferma del controllo pressoché totale del Pese da parte dei talebani, è caduta la città chiave di Jalalabad, nell’est del Paese. La capitale della provincia di Nangarhar è stata catturata senza combattere, come hanno spiegato all’agenzia tedesca Dpa due consiglieri provinciali e un residente. I talebani sono entrati a Jalalabad alle 6 di questa mattina, hanno spiegato alla Dpa.

La cattura della città di Jalalabad con una popolazione stimata di oltre 280mila abitanti e di altre aree della provincia dà agli insorti il ​​controllo del valico di frontiera di Torkham, la più grande rotta commerciale e di transito tra l’Afghanistan e il Pakistan. I talebani ora controllano almeno 25 capoluoghi di provincia delle 34 province dell’Afghanistan. Tutte queste città sono state catturate nel giro di appena 10 giorni.

Diplomatici occidentali abbandonano il Paese.

Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico. Il presidente Usa Joe Biden ha autorizzato il dispiegamento in Afghanistan di ulteriori 1.000 truppe statunitensi, portando a circa 5mila il numero di militari statunitensi schierati per garantire quello che Biden chiama un “ritiro ordinato e sicuro” del personale americano e alleato dall'Afghanistan.

Le truppe statunitensi aiuteranno anche nell'evacuazione degli afgani che hanno lavorato con i militari durante la guerra di quasi due decenni. A conferma del timore che i talebani possano presto catturare Kabul, il personale dell'ambasciata degli Stati Uniti ha iniziato a distruggere urgentemente documenti sensibili.

IlSole24Ore

giovedì 12 agosto 2021

Afghanistan: i talebani avanzano e prendono Ghazni, a 150 km da Kabul.

 

Si tratta del decimo capoluogo caduto in una settimana. Per gli Stati Uniti, la presa della capitale afghana è prevista entro  90 giorni.


I talebani hanno conquistato Ghazni a soli 150 chilometri da Kabul. Si tratta del decimo capoluogo di provincia caduto nelle loro mani in una settimana.

"Hanno preso il controllo di aree chiave della città: l'ufficio del governatore, il quartier generale della polizia e la prigione", ha detto Nasir Ahmad Faqiri, capo del consiglio provinciale di Ghazni, aggiungendo che in alcuni parti della città sono ancora in corso combattimenti. 

In Afghanistan oramai è sempre più il caos. E se pubblicamente si continua a ostentare sicurezza, dietro le quinte a Washinton e nelle capitali europee sono rimasti in pochi a professare ottimismo di fronte all'irrefrenabile avanzata dei talebani.

La rapida disintegrazione delle forze di sicurezza afghane è a questo punto davanti agli occhi di tutti. Tanto che la caduta di Kabul, se continua così, è ora prevista entro 90 giorni, se non nel giro di un mese. L'allarme parte dalla stessa amministrazione Biden, con le previsioni di qualche giorno fa divenute già carta straccia, quelle che indicavano la possibile caduta della capitale nelle mani dei talebani in un arco di tempo tra sei o dodici mesi. Ma la conquista di Faizabad, nel nord del Paese, e la resa di centinaia di soldati governativi che si erano ritirati vicino all'aeroporto di Kunduz dopo la caduta della città del nordest, fanno capire come oramai la situazione stia precipitando.

Una situazione impensabile quando Joe Biden annunciò il ritiro completo delle forze militari Usa dal Paese entro il 31 agosto, ponendo così fine a una guerra durata vent'anni.

Ma di fronte alle crescenti critiche per aver di fatto abbandonato l'Afghanistan al suo destino, il presidente americano non arretra di un millimetro. "Non sono affatto pentito della decisione presa", ha ribadito rispondendo alle domande dei reporter alla Casa Bianca: "E' ora che i leader afghani si mettano assieme e comincino a combattere per conto loro, per il loro Paese. E' questione di volerlo".

Biden ha quindi ricordato ancora una volta come Washington nelle ultime due decadi ha speso ben 1.000 miliardi di dollari per addestrare e armare le forze di sicurezza di Kabul, senza contare il costo pagato in vite umane.

ANSA

martedì 8 giugno 2021

L'Italia ammaina la bandiera in Afghanistan.

 

Si avvia a conclusione la missione del contingente che accelera il ritiro dal Paese.

Si avvia a conclusione la quasi ventennale presenza del contingente italiano in Afghanistan. Ad Herat è arrivato oggi il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, per il saluto finale ai militari e la cerimonia dell'ammaina-bandiera alla base di Camp Arena, che sarà consegnata alle forze di sicurezza locali.

Le operazioni di rimpatrio di uomini (erano 800 a inizio anno) e mezzi, avviate a maggio, si concluderanno a breve, in sintonia con l'accelerazione impressa dagli Usa che intendono lasciare il Paese entro metà luglio, in anticipo sulla data simbolica dell'11 settembre annunciata dal presidente Joe Biden.

"Non vogliamo che l'Afghanistan torni ad essere un luogo sicuro per i terroristi.

Vogliamo continuare a rafforzare questo Paese dando anche continuità all'addestramento delle forze di sicurezza afghane per non disperdere i risultati ottenuti in questi 20 anni", ha spiegato Guerini.

"Non abbandoniamo il personale civile afghano che ha collaborato con il nostro contingente ad Herat e le loro famiglie: 270 sono già stati identificati e su altri 400 si stanno svolgendo accertamenti. Verranno trasferiti in Italia a partire da metà giugno", ha spiegato il ministro della Difesa parlando della sorte dei collaboratori afgani che rischiano ritorsioni da parte dei talebani una volta che il contingente Nato avrà lasciato l'Afghanistan.

I Paesi che stanno ritirando le loro truppe dall'Afghanistan dovrebbero accelerare i programmi per il reinsediamento di ex interpreti afghani e altri dipendenti di truppe o ambasciate straniere minacciati di ritorsioni dalle forze talebane: è l'appello di Human Rights Watch rivolto in particolare agli Stati Uniti e a tutti quei Paesi che si apprestano a ritirare ogni loro presenza nel Paese entro l'11 settembre di quest'anno. "Gli afghani che hanno lavorato con truppe o ambasciate straniere affrontano enormi rischi di ritorsioni da parte dei talebani", ha affermato Patricia Gossman, direttore associato per l'Asia di Human Rights Watch. "I Paesi con le truppe in partenza dovrebbero impegnarsi ad assistere chi si trova ad affrontare un pericolo per aver lavorare per loro".

Foto: "La cerimonia dell'ammaina-bandiera a Herat" - Ansa

ANSA

giovedì 24 agosto 2017

"Dopo 16 anni di errori, dall'Afghanistan dobbiamo solo andare via". Intervista al generale Franco Angioni. - Umberto De Giovannangeli



"Non dobbiamo uscire dall'Afghanistan per paura, ma per mettere a frutto le esperienze, anche negative, di questi sedici anni di errori". A sostenerlo, in questa intervista esclusiva concessa all'HuffPost, è il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri. "L'Afghanistan così come l'Iraq c'insegnano – sottolinea Angioni – che lo strumento militare, anche quando si rivela necessario, non deve mai sostituire una strategia politica o surrogarla, perché quando è così, si producono solo disastri".
Generale Angioni, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di rilanciare la presenza militare degli Usa in Afghanistan e si accinge a chiedere anche agli alleati di seguirlo su questa strada. Dobbiamo farlo anche noi?
"Direi proprio di no. E non per viltà ma per lungimiranza. Vede, il fatto è che quando si commette un grave errore, gli errori successivi sono come le onde sussultorie di un terremoto seguito all'onda principale. Il problema dell'Afghanistan nasce nell'ottobre del 2001 e si chiama George Bush. Dopo lo choc dell'11 Settembre, la turbativa mondiale, e non solo americana, è stata grande. Ma l'errore maggiore è conseguente all'attacco alle Torri Gemelle, quando Bush, avendo individuato le cause e i colpevoli di quell'attacco, non aveva alcuna necessità di reagire in maniera massiccia, bombardando a tappeto quattro città dell'Afghanistan e uccidendo molti afghani, inconsapevoli del perché di tale tragedia. L'obiettivo dichiarato dalla Casa Bianca e dal Pentagono di quell'azione militare era di catturare due personaggi: Osama Bin Laden e il Mullah Omar. Ma per raggiungere un tale risultato non era necessario intervenire in maniera così massiccia e devastante su una popolazione inconsapevole dei motivi, quando invece sarebbe stato più opportuno e produttivo lavorare con l'intelligence al fine di punire giustamente i veri colpevoli. Cosa che è stata fatta successivamente e non attraverso operazioni massicce, invasive. Bin Laden è stato "punito" non con i bombardamenti a tappeto, ma attraverso un sistematico lavoro d'intelligence che, al momento opportuno, ha consegnato il capo di al-Qaeda nelle mani delle forze scelte statunitensi. Ma non basta. Dopo nemmeno tre anni dall'inizio dell'avventura afghana, lo stesso George Bush, decide di invadere l'Iraq. Giustizia il dittatore iracheno, Saddam Hussein, e senza una strategia politica affida il governo di questo Paese a una moltitudine di dirigenti impreparati e disonesti. Il risultato è che i seguaci di Saddam, soprattutto gli ufficiali del disciolto esercito iracheno, si riuniscono e danno spessore militare allo Stato islamico. Molto si parla e si favoleggia su Abu Bakr al-Baghadi, ingigantendone le capacità operative, invero alquanto mediocri, tralasciando il fatto che nella catena di comando militare dell'Isis il ruolo chiave l'hanno giocato gli ex ufficiali di Saddam. A questo punto una domanda sorge naturale...".
Qual è questa domanda, generale?
"Dopo 16 anni non pensiamo che sia finalmente giunto il tempo di porre fine a questa successione ininterrotta di errori politici?
La risposta, sia pure indiretta, offerta da Donald Trump non induce all'ottimismo. Qual è in merito, e sulla base della sua lunga e impegnativa carriera di comando militare, la sua opinione?
"Occorre finalmente adottare una linea politica di prospettiva e non di inutile vendetta. Nessuno mette in discussione la necessità di contrastare lo Stato islamico e quanto di esso rimane, sia in Iraq e Siria che, soprattutto, in Afghanistan, dove i talebani hanno ricevuto una potente cura ricostituente dalla dabbenaggine politica internazionale e dal sostegno di Paesi arabi e musulmani che venivano considerati alleati. L'attuale presidente degli Stati Uniti nella sua campagna elettorale tumultuosa aveva promesso di mettere la parola fine all'avventura afghana. L'opinione pubblica americana era preoccupata non tanto dal fine ma dal "come". Invece, delusione cocente, siamo costretti a constatare che queste promesse elettorali sono state tradite. Trump anche in questo è deludente. La decisione annunciata finirà per fornire benzina a un incendio che invece stava estinguendosi. E' tempo di dire basta. Il problema afghano-iracheno va risolto d'intesa con tutti i Paesi interessati e stavolta sotto la guida delle Nazioni Unite, e alla luce di una strategia di lungo termine che deve necessariamente dimostrarsi attenta ed efficace sul piano dei diritti umanitari, rinunciando a percorrere itinerari nati sull'errore politico e che nel corso di questi sedici anni hanno aggiunto errori ad errori. In Afghanistan, è bene ricordarlo, l'Italia ha pagato un alto tributo di vite umane garantendo un impegno sul campo, e questi nostri ragazzi in divisa vanno ricordati con onore e affetto. Essere alleati, sinceri e impegnati, non significa essere vassalli. A volte, dire dei "no" è prova di forza politica e non di debolezza o codardia. L'Afghanistan può essere il banco di prova"

mercoledì 23 agosto 2017

Svolta di Trump sull'Afghanistan. I talebani: 'Sarà un cimitero per gli Usa'.

 © ANSA

Plauso Nato e Kabul. Pakistan rassicura. Bannon: 'Tradimento'.


Nato e Kabul plaudono insieme all'India, il Pakistan respinge le accuse di offrire protezione ai terroristi, la Cina lo difende, la Germania mette in chiaro che non metterà un uomo in più, mentre i talebani promettono di fare dell'Afghanistan "un cimitero per l'impero americano". Sono le prime reazioni alla nuova strategia sull'Afghanistan annunciata ieri notte in diretta tv da Donald Trump, che ha promesso di rafforzare la presenza americana in base alle condizioni sul campo e senza scadenze temporali, rimangiandosi le promesse elettorali di ritirarsi dalla più lunga e costosa guerra della storia americana: 16 anni, più del Vietnam. Un dietrofront bollato come un tradimento del trumpiano 'America first' da parte di Breitbart News, il sito di ultradestra tornato sotto la guida di Steve Bannon, il chief strategist nazionalista e isolazionista della Casa Bianca silurato nei giorni scorsi.
"Il mio istinto era di ritirarsi, e storicamente mi piace seguire i miei istinti, ma in tutta la mia vita ho sentito che le decisioni sono molto differenti quando siedi dietro la scrivania dello Studio Ovale", ha esordito il tycoon per giustificare la marcia indietro, usando per una notte toni presidenziali. Poi ha spiegato cosa lo ha convinto a cambiare idea: abbandonare l'Afghanistan significherebbe lasciare un vuoto che i terroristi, dai talebani all'Isis e Al-Qaida, riempirebbero subito trasformando quel Paese in una piattaforma per attaccare gli Usa. Trump ha volutamente evitato di fornire numeri (i media parlano dell'invio di 4000 militari in aggiunta agli 8400 presenti) e piani "per non favorire il nemico".
Trump pensava di poter disporre e decidere a piacimento...non aveva capito che la sua è una figura rappresentativa agli ordini di chi comanda.
Non meravigliamoci se l'islam continuerà a farci oggetto di terrorismo, sono 17 anni che gli Usa occupano il suolo afgano e non accennano ad abbandonarlo.

domenica 26 febbraio 2017

BACHA BAZI: IL DRAMMA DEI BAMBINI AFGHANI RAPITI, ABUSATI E COSTRETTI A VESTIRSI DA DONNA. - Dominella Trunfio

bacha_bazi

Vengono adescati per strada, rapiti o comprati dai ricchi signori che li costringono a ballare travestiti da donne e a soddisfare i loro bisogni sessuali. Sono i Bacha-Bazi, i “bambini per gioco”, le vittime della pedofilia che ancora viene tollerata in Afghanistan.
Per la prima volta, le autorità pensano all’introduzione di severe sanzioni contro i Bacha Bazi, una pratica molto diffusa soprattutto nel sud del paese. I ragazzini tra gli otto e i quattordici anni, sono costretti a indossare abiti femminili, a cantare e ballare durante le feste per intrattenere uomini adulti.
Letteralmente Bacha Bazi, significa appunto 'bambino per gioco' che tradotto vuol dire giocattoli nelle mani di persone senza scrupoli, che non hanno un’altra definizione se non quella di pedofili. Bambini e adolescenti che vengono rapiti per strada o negli orfanotrofi o ancora che sono venduti dalle loro stesse famiglia a causa della povertà dilagante.
Adesso, nel codice penale afgano dovrebbe essere finalmente introdotto il reato con pene dai sette anni di carcere per violenza sessuale fino alla condanna a morte per gli abusi su più di un ragazzo.
L’intero capitolo sulla criminalizzazione dei Bacha Bazi dovrebbe già essere adottato dal mese di marzo. Un passo significativo anche perché, le stesse vittime non potranno essere perseguite dalla legge per prostituzione o con l’accusa di omosessualità (considerati entrambi reati in Afghanistan).
Le autorità locali garantiscono che la nuova normativa non lascerà spazio a riserve e che all’entrata in vigore, la forma di schiavitù sessuale e di istigazione alla prostituzione minorile saranno punibili.

Ma chi sono questi uomini che sfruttano dei ragazzini innocenti?

Comandanti di polizia, militari, politici e membri di famiglie molto ricche. Tenere un bachas è simbolo di benessere, i bambini sono schiavi di proprietà, agghindati con vestiti femminili, trucco e campane ai piedi.
Nessuno finora ha avuto il coraggio di opporsi a loro, le famiglie troppo povere sono succubi di una condizione paradossale e disgustosa denunciata nel 2010 dal giornalista Najibullah Quraishi, nel documentario “The dancing boy of Afghanistan”. Dall’altro canto, in un paese devastato da decenni di guerra, violenze di questo tipo vengono sottaciute e alimentate nelle zone controllate dai telebani.
Può capitare, infatti, che gli stessi talebani adeschino bambini da addestrare che una volta in casa dei ricchi signori, sono costretti anche a farsi autoesplodere. Una sottomissione totale perché nessuno dei bacha ha mai avuto il coraggio di denunciare il proprio aguzzino. Il perché è molto semplice, oltre le violenze subite i ragazzi potrebbero essere accusati di omosessualità, reato punito anche con la pena di morte.
All’età di 18 anni i Bacha-Bazi vengono liberati, ma dopo anni di violenze la loro vita è segnata per sempre e il loro futuro è fatto di esclusione sociale e discriminazione.