Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 14 settembre 2024
Il Dolmen de Bagneux - Bagneux, Saumur, Valle della Loira in Francia.
giovedì 1 agosto 2024
UNA GROTTA PREISTORICA SEPOLTA SOTTO IL MARE. - Stefania Lavorato
domenica 5 maggio 2024
Gli esseri umani vivevano in una grotta buia e pericolosa in Francia 8.000 anni fa. - Angelo Petrone
Possono essere stalattiti – che pendono dal soffitto – e stalagmiti – che salgono dal suolo verso il soffitto, per esempio. In molte grotte sono comuni speleotemi rotti romperli per portarli a casa come souvenir o per lasciare segni della visita era un’attività diffusa tra i turisti e gli speleografi della fine dell’Ottocento. Si credeva che i resti della grotta di Saint-Marcel provenissero da questo tipo di attività, ma tracce di uomini antichi in altre grotte hanno portato a ulteriori ricerche sul sito. Le concrezioni hanno un rapporto profondo con l’acqua: se scorre ancora nel punto in cui si sono rotte, il costante deposito di minerali fa sì che la formazione ricresca. Studiando questa ricostruzione naturale ed esaminando i tassi degli elementi uranio e torio nelle rocce, gli scienziati sono riusciti a scoprire di più sulla grotta. La datazione uranio-torio si basa sulla solubilità in acqua. Mentre l’uranio è solubile in acqua, il torio, prodotto dal suo decadimento, non lo è.
Poiché il tasso di decadimento dell’uranio è fisso e noto, la quantità di torio in un campione può indicare la formazione del minerale: analizzando gli speleotemi, quindi, si è scoperto che la maggior parte si è formata tra 125.000 e 70.000 anni fa. La più antica punta di speleotema rotta dall’uomo è stata datata a 10.000 anni fa, mentre la più recente risale a circa 3.000 anni fa. Numerosi pezzi rotti sembrano essere stati appositamente disposti per creare una struttura nella camera della grotta, la cui costruzione si dice sia iniziata circa 8.000 anni fa. Le prove dell’azione umana sono conclusive, ma non sappiamo come siano arrivati al sito o perché. Sulle pareti dei cunicoli è presente della fuliggine, e questo potrebbe essere un buon indizio, ma l’analisi di questi elementi dovrà essere lasciata a ricerche future.
Fonte:
https://link.springer.com/article/10.1007/s10816-024-09649-6
domenica 11 febbraio 2024
Francia: scoperti fossili di creature risalenti a 470 milioni di anni fa. - Angelo Petrone
Trilobiti, gasteropodi, spugne, artropodi e molto altro ancora mineralizzati e fossilizzati nel biota francese (Immagine: Saleh et al./Nature Ecology & Evolution) |
Un team di paleontologi dilettanti ha trovato straordinari reperti fossili in un sito in Francia, con più di 400 resti di animali risalenti fino a 470 milioni di anni fa. Il sito si trova nella catena montuosa della Montagne Noire, in una provincia del sud del Paese. Dopo il ritrovamento, gli appassionati Eric Monceret e Sylvie Monceret-Goujon hanno incaricato un team dell’Università di Losanna di studiare il sito e i suoi reperti. I fossili risalgono all’Ordoviciano, un periodo in cui il pianeta stava sperimentando un riscaldamento globale estremo. Per sfuggire al caldo eccessivo molti animali fuggivano a latitudini più alte o più basse, dove, lontano dall’equatore, le temperature erano più miti. La regione francese faceva, all’epoca, parte del circolo polare meridionale, luogo ideale per la vita delle creature. Oltre al gran numero di fossili che hanno sorpreso gli scienziati, è degna di nota anche la loro conservazione: all’interno dei gusci della fauna c’erano ancora tessuti molli, come i tratti digestivi e le cuticole, che raramente si trovano nelle creature fossilizzate. Ciò ha permesso di studiare l’anatomia delle antiche specie marine in un modo senza precedenti.
La posizione dei continenti faceva in modo che il sito francese si trovasse vicino al Polo Sud del periodo Ordoviciano. Nel sito erano presenti artropodi, dunque, un gruppo ancestrale e molto diversificato di insetti che comprende millepiedi e gamberetti, oltre a cnidari, come meduse e coralli. Un altro gruppo abbondante nel sito erano le spugne marine e le alghe, che rendevano l’antico ecosistema estremamente ricco, un santuario per le specie in fuga dal caldo equatoriale. Oltre a fornire un ritratto molto interessante del passato, il passato può aiutarci a capire come sarà il nostro futuro se non saremo in grado di rallentare il ritmo del riscaldamento globale.
Fonte: https://www.nature.com/articles/s41559-024-02331-w
giovedì 30 settembre 2021
Mutui a tasso zero, perché l’Italia è indietro rispetto a Francia e Germania. - Vito Lops
Gli italiani non stanno cogliendo appieno l’era dei tassi bassi che offre l’opportunità di utilizzare la casa per ottenere una liquidità aggiuntiva.
L’Italia è considerata un Paese «cicala» quanto a debito pubblico (160% del Pil). Se però si capovolge la prospettiva e ci si concentra sul debito privato l’immagine degli italiani cambia profondamente: diventiamo delle formichine. Con un rapporto tra indebitamento delle famiglie e reddito vicino al 60%, l’Italia è sotto della media dell’area euro che secondo gli ultimi dati elaborati dalla European mortgage federation e relativi a fine 2020 si spinge oltre il 90%, con punte oltre il 100% in Francia e Spagna.
Si arriva alla stessa conclusione analizzando lo stock di mutui, il valore dei finanziamenti in essere. In Italia è pari a 391 miliardi rispetto ai 1.136 miliardi di Francia e ai 1.666 del Regno Unito, due Paesi comparabili per popolazione. Spostandoci in Germania, anche se ha 20 milioni di abitanti in più (+25%), il confronto stride comunque dato che la terra dove la parola «debito» si confonde con la parola «colpa» (difatti «schuld» vuol dire entrambe le cose) ha uno stock di mutui quattro volte superiore.
Debito pubblico e debito privato
In sostanza gli italiani utilizzano molto meno la leva del debito privato rispetto ai vicini, magari più virtuosi (si veda la Germania e il suo 60% di debito/Pil pre-pandemico) se l’asse si sposta sulle finanze pubbliche. Ma chi sta sbagliando? Quei Paesi che sono formiche nel pubblico e cicale nel privato, oppure gli italiani, cicale in pubblico e formiche in privato? Per quanto possa sembrare controintuitivo in realtà in passato era piuttosto normale aspettarsi una relazione inversa tra debito pubblico e debito privato. Perché nel momento in cui il debito pubblico – per larga parte espresso attraverso titoli obbligazionari emessi dallo Stato – si trasforma in credito privato quando viene acquistato dai cittadini/investitori è evidente che il peso delle passività domestiche cala.
Oggi però le proporzioni stanno cambiando. La quota di BTp direttamente in mano alle famiglie è scesa drasticamente: siamo sotto il 5% rispetto al 20-30% degli anni Ottanta. Compriamo meno BTp che in passato (anche perché da tempo non offrono rendimenti accettabili) ma continuiamo a mantenere un atteggiamento guardingo quando c’è da utilizzare la leva finanziaria. Come si spiega questo atteggiamento?
Tutti i risparmi nella casa.
«Molto dipende da una vecchia mentalità, ancora radicata, che ha portato tanti ad investire tutti i risparmi nella casa. Questi risparmi poi si tramandavano con l’eredità rendendo meno necessario l’indebitamento per comprare una nuova casa – spiega Alessio Santarelli, direttore generale per la divisione broking di MutuiOnline.it -. Questa mentalità però è permeata così tanto che anche chi oggi si trova a dover acquistare una nuova casa, cerca di utilizzare il più possibile la propria liquidità e il meno possibile quella offerta dalla banca. Lo dimostra il fatto che solo il 54% delle compravendite immobiliari è oggi sostenuta da un mutuo. Inoltre – prosegue Santarelli – tra i Paesi europei siamo quelli che chiedono i mutui più bassi, con un loan to value di poco superiore al 60% a fronte di una media europea superiore all’80%».Insomma, pare che ci portiamo dietro un vecchio mindset, non più adeguato ai tempi moderni, quelli in cui i tassi sono straordinariamente bassi e i prezzi delle case, fatto 100 il valore nel 2010, valgono 78.
Educazione finanziaria, siamo dietro lo Zimbabwe.
«Oggi, abbinando il concetto di mutuo a quello di investimento, è possibile difatti stipulare un mutuo a tasso 0 – sottolinea l’esperto di MutuiOnline.it -. Ma molti non lo sanno. E questo è un problema di cultura finanziaria». Su questo fronte le statistiche sono impietose. Secondo una nota ricerca a «quattro mani» di Standard and Poor’s e Banca mondiale l’Italia si colloca al 63esimo posto nel mondo in termini di educazione finanziaria, dietro lo Zimbabwe. Se ci si sposta sui giovani studenti il quadro migliora, ma resta comunque opaco dato che l’indagine Pisa dell’Ocse su un campione di 20 Paesi europei posiziona l’Italia tra il 12esimo e il 13esimo posto. Sul lato mutui, l’educazione finanziaria «svela» che i tassi sono oggi tra i più bassi in Europa con un Taeg medio dell’1,25% (dati European mortgage federation).
Il mutuo e gli investimenti.
«Ciò vuol dire che se si guarda agli investimenti e ai mutui in modo congiunto è possibile chiedere, utilizzando la leva dell’ipoteca che permette di accedere al denaro a costi inferiori rispetto a un comune prestito, una liquidità aggiuntiva non da destinare alla casa ma agli investimenti», spiega Santarelli. «E con i frutti dell’investimento si può ridurre, fino ad abbattere, la quota interessi sul mutuo».
Insomma, date le condizioni di mercato, il mutuo potrebbe essere visto anche come un’occasione storica per accedere a costi bassissimi a una fonte di liquidità da utilizzare per gli investimenti. Se ci si focalizza solo sul debito non si riesce a compiere quel salto di mentalità su cui altri Paesi vicini, più preparati dal punto di vista finanziario, si sono elevati. «Questo non vuol dire che bisogna correre a super-indebitarsi. Tutt’altro – conclude Santarelli -. Ma allo stesso tempo conservare un atteggiamento da formiche, in questa fase storica ancora di più, è un’occasione sprecata per migliorare la qualità della vita».
ILSole24Ore
domenica 15 agosto 2021
Afghanistan, i talebani entrano a Kabul. Occidentali in fuga.
Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico.
Ultime ore per Kabul, capitale dell’Afghanistan, meta ultima della marcia di avvicinamento dei talebani che nelle ultime settimane hanno gradualmente messo sotto controllo il resto del Paese: i militanti sarebbero infatti entrati in città dove, secondo quanto riferiscono alcuni abitanti ai media stranieri, si sentono spari e sono in corso combattimenti. Secondo l’agenzia russa Ria Novosti i talebani hanno preso il controllo dell’università di Kabul, nella parte occidentale città, e hanno anche issato le loro bandiere in uno dei distretti. Ma l’ufficio stampa del palazzo presidenziale dell’Afghanistan ha negato l’attacco talebano, affermando che in alcune parti di Kabul si sono verificati solo sporadici colpi di pistola. Nessun attacco ha avuto luogo a Kabul, le forze di sicurezza e di difesa del paese e i partner internazionali stanno fornendo sicurezza alla città, ha spiegato sui social media un funzionario governativo.
Talebani: ordine è di non entrare a Kabul.
In una nota, i talebani affermano però di non avere intenzione di prendere Kabul “con la forza”. Tre funzionari afgani hanno riferito all’Associated Press che i combattenti si trovavano già nei distretti della capitale di Kalakan, Qarabagh e Paghman. “La vita, la proprietà e la dignità di nessuno saranno danneggiate e la vita dei cittadini di Kabul non sarà a rischio”, hanno affermato i talebani. “L’Emirato islamico ordina a tutte le sue forze di attendere alle porte di Kabul, di non tentare di entrare in città”. Lo scrive su Twitter Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, come riporta Afp. Una fonte residente in un quartiere della capitale afghana ha comunque detto a Af che “vi sono combattenti talebani armati nella zona, ma non vi sono combattimenti”.
Jalabad caduta senza combattere.
Questa mattina, a conferma del controllo pressoché totale del Pese da parte dei talebani, è caduta la città chiave di Jalalabad, nell’est del Paese. La capitale della provincia di Nangarhar è stata catturata senza combattere, come hanno spiegato all’agenzia tedesca Dpa due consiglieri provinciali e un residente. I talebani sono entrati a Jalalabad alle 6 di questa mattina, hanno spiegato alla Dpa.
La cattura della città di Jalalabad con una popolazione stimata di oltre 280mila abitanti e di altre aree della provincia dà agli insorti il controllo del valico di frontiera di Torkham, la più grande rotta commerciale e di transito tra l’Afghanistan e il Pakistan. I talebani ora controllano almeno 25 capoluoghi di provincia delle 34 province dell’Afghanistan. Tutte queste città sono state catturate nel giro di appena 10 giorni.
Diplomatici occidentali abbandonano il Paese.
Nelle ultime ore paesi tra cui Stati Uniti, Italia, Germania e Francia hanno rotto gli indugi e hanno iniziato le operazioni di evacuazione del personale diplomatico. Il presidente Usa Joe Biden ha autorizzato il dispiegamento in Afghanistan di ulteriori 1.000 truppe statunitensi, portando a circa 5mila il numero di militari statunitensi schierati per garantire quello che Biden chiama un “ritiro ordinato e sicuro” del personale americano e alleato dall'Afghanistan.
Le truppe statunitensi aiuteranno anche nell'evacuazione degli afgani che hanno lavorato con i militari durante la guerra di quasi due decenni. A conferma del timore che i talebani possano presto catturare Kabul, il personale dell'ambasciata degli Stati Uniti ha iniziato a distruggere urgentemente documenti sensibili.
IlSole24Ore
domenica 6 giugno 2021
Blocco licenziamenti solo in Italia. Come funzionano le regole degli altri paesi. - Claudio Tucci
I punti chiave
- In Germania cig più generosa, in Francia più controlli
- Il legame tra cig scontata e maggiore tutela dell’occupazione
- L’esempio del Regno Unito
- L’impatto sul mercato del lavoro
In Italia si continua a discutere di blocco dei licenziamenti, con i sindacati che, a gran voce, chiedono al premier, Mario Draghi, di prorogare nuovamente la misura - un unicum a livello internazionale - fino al 31 ottobre.
L’esecutivo è diviso, e da palazzo Chigi difendono la faticosa mediazione messa a punto, sul solco delle esperienze europee, che prevede dal 1° luglio il blocco dei licenziamenti solo per quelle imprese, in difficoltà, che utilizzano la cassa integrazione scontata, senza cioè pagare i contributi addizionali.
Contrarie a nuove proroghe del divieto sono le imprese, che chiedono invece misure ad hoc per accompagnare (e non sprecare) questi mesi di ripresa.
IL CONFRONTO
Elasticità dell'occupazione rispetto al PIL. Dati in % - Fonte: elaborazione @AGarnero su dati OCSE
Noi e gli altri.
Ma negli altri paesi cosa è successo in quest’anno e più di pandemia? Grazie all’aiuto di Andrea Garnero, economista al dipartimento occupazione e affari sociali dell’Ocse, abbiamo provato a vedere un po’ anche “a casa degli altri”. Anche per comprendere, un po’ meglio, le critiche che la Ue ha sollevato nei giorni scorsi al blocco generalizzato dei licenziamenti italiano.
In Germania cig più generosa, in Francia più controlli.
Ma procediamo con ordine. La Germania, come moltissimi altri paesi Ocse, ad esempio, ha reso più generosa la cassa integrazione, ma non ha vietato i licenziamenti. Francia e Spagna hanno optato per una via intermedia, di aumento dei controlli e dei costi.
In Spagna, un lavoratore licenziato a causa del Covid-19 può andare dal giudice e far dichiarare il licenziamento nullo, con conseguente reintegra, o illegittimo, nel qual caso il dipendente riceve un compenso di 33 giorni di retribuzione per anno di lavoro.
La Francia ha messo in piedi un sistema di controlli rafforzati dei licenziamenti collettivi nelle aziende con più di 50 dipendenti da parte della Direccte, l’autorità alla quale queste aziende devono notificare l’intenzione di licenziare un lavoratore.
Il legame tra cig scontata e maggiore tutela dell’occupazione
In Europa, insomma, laddove si è messo in piedi un sistema di cassa integrazione generoso (e vantaggioso per le imprese) c’è stata una relativa stabilità dei contratti a tempo indeterminato. Ma al contrario la crisi si è abbattuta sui lavori precari: in molti paesi Ue si è assistito a un crollo delle assunzioni a tempo per i mancati rinnovi dei contratti a termine. Quindi, anche all’estero, come in Italia per diversi mesi, tante persone hanno perso il lavoro, ma non attraverso i licenziamenti.
L’esempio del Regno Unito.
I dati per ora sono parziali. Ma dall’Ocse confermano che in Francia e Regno unito i licenziamenti non sono schizzati al rialzo nei primi mesi di pandemia. Interessante è l’esempio inglese.
Qui, cioè nel Regno unito, dove licenziare è molto più semplice che in Italia e la maggior parte dei paesi Ocse, nei primi mesi dell’emergenza l’aumento dei licenziamenti è stato limitato, mentre ha cominciato ad accelerare significativamente in estate, quando il Job Retention Scheme, una sorta di cassa integrazione, è stato reso meno generoso.
Un altro segnale che il provvedimento davvero determinante in questi mesi è la Cig “vantaggiosa”: se le imprese, infatti, hanno accesso a questa Cig, non licenziano, perché licenziare costa in termini di procedure, indennizzi ed eventuali ricorsi. Del resto, la mediazione messa a punto dai tecnici di palazzo Chigi proprio a tutti questi esempi internazionali si è rifatta, legando la cig scontata al blocco dei licenziamenti.
L’impatto sul mercato del lavoro.
Ma queste diverse misure normative adottate oltralpe che impatto hanno avuto sui rispettivi mercati del lavoro? In altre parole, il mancato divieto generalizzato di licenziamento ha prodotto pesanti perdite occupazionali in Germania, Francia, Spagna, Regno Unito? Una prima risposta a queste domande è arrivata nei giorni scorsi dalla commissione Ue.
Che ha evidenziato come l’elasticità media totale dell’occupazione nell’Ue - che misura la reattività dell’occupazione ai cambiamenti dell’attività economica - sia stata di 0,25 nel 2020, rispetto a un’elasticità di 0,24 per l’Italia.
Per alcuni paesi, come Germania e Francia, l’elasticità dell’occupazione è ancora più bassa, ovvero quei paesi sono riusciti a contenere l’impatto sul mercato del lavoro senza ricorrere a misure restrittive come il divieto assoluto di licenziamenti.
In sintesi, il calo dell’occupazione rispetto al Pil in Italia è stato nella media europea e peggiore di Francia, Germania. È stato invece migliore di Portogallo e Spagna. Per tutti questi motivi, la commissione Ue ritiene che il divieto di licenziamento, più a lungo resti in vigore, «potrebbe addirittura rivelarsi controproducente poiché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro a livello aziendale».
IlSole24Ore
venerdì 30 aprile 2021
La soluzione politica. - Marco Travaglio
Non so voi, ma io trovo lunare l’alato dibattito che s’è alzato alla notizia che finalmente la Francia ha arrestato alcuni nostri terroristi dopo averli protetti per decenni. Chi dice che oggi non sono più gli stessi di allora, chi rimpiange la “dottrina Mitterrand”, chi sostiene che catturarli è vendetta e non giustizia, chi invoca la pacificazione, la fine della guerra, la soluzione politica, chi tira in ballo la “riconciliazione” in Sudafrica, chi chiede “la verità” e propone liberazioni in cambio di confessioni. Ora, la verità su quei 12 assassini è scritta nelle sentenze definitive della Cassazione “in nome del popolo italiano”: basta leggerle. Chi vuole aggiungere qualcosa vada dal giudice e lo faccia, ma senza altri sconti oltre a quelli previsti dal Codice: Battisti ha sempre negato qualunque delitto e poi, appena arrestato ed estradato ha confessato tutto. Dalla cella. “Vendetta” è quando la vittima rende pan per focaccia al colpevole; quando il colpevole viene processato secondo le norme e le garanzie dello Stato di diritto, si chiama “giustizia”. La dottrina Mitterrand c’entra come i cavoli a merenda: per quanto assurda, prevedeva l’asilo a chi non si fosse macchiato di delitti di sangue e non avesse condanne definitive (oltre a rinnegare la lotta armata): due condizioni opposte a quelle dei 12 beccati o fuggiti l’altroieri. Dire che arrestarli oggi non ha senso perché sono cambiati è il classico nonsense. Ovvio che sono cambiati: nessuno resta uguale per 30 anni. Ma, se non fossero fuggiti 20 o 30 o 40 anni fa, avrebbero già scontato la pena e sarebbero fuori, visto il concetto elastico di “certezza della pena” vigente in Italia. È proprio perché a suo tempo si sottrassero alla giustizia e al carcere che finiscono dentro solo ora: colpa loro e di nessun altro.
Comodo darsi alla latitanza, fare la bella vita protetti dai governi e dagli “intellettuali” amici, raccontare balle su libri e giornali, e poi, quando finalmente arriva il redde rationem, strillare “non siamo più quelli di una volta”. Che cos’è, un macabro scherzo? Negli anni 70 in Italia, diversamente dal Sudafrica, non ci fu alcuna “guerra civile”: c’erano terroristi rossi e neri (a volte coperti o infiltrati da apparati deviati dello Stato) che ammazzavano a sangue freddo politici, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, sindacalisti, operai, gente comune. Chi dovrebbe pacificarsi con loro: i morti ammazzati? Gli orfani e le vedove? Il perdono è una scelta individuale: chi vuole lo dà, chi non vuole non lo dà. Ma lo Stato non deve pacificarsi con nessuno perché non ha dichiarato guerra a nessuno. Furono i terroristi a dichiararla unilateralmente allo Stato e ai suoi servitori. L’unica soluzione politica è chiudere bene a chiave le celle, perché non scappino un’altra volta.
ILFQ
mercoledì 25 novembre 2020
La sterzata della Francia sulla tutela del clima: “Arriva il reato di ecocidio”. - Luana De Micco
La proposta di due ministri. Nell'ordinamento entreranno due tipi di contestazioni: la prima è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all'ambiente, la seconda è un “reato per la messa in pericolo grave dell'ambiente”. Previste multe fino a 4,5 milioni e anche la reclusione.
La Francia si prepara ad introdurre nel suo codice penale il concetto di “ecocidio”: inquinare e compiere azioni gravi contro l’ambiente diventeranno dunque reati. L’annuncio è arrivato sulle pagine del settimanale della domenica, Le Journal du Dimanche (JDD), che ha pubblicato un’intervista a due dei ministri, della Giustizia e dell’Ecologia, Éric Dupont-Moretti e Barbara Pompili (nella foto). Parigi fa dunque un passo avanti per rispondere ai problemi legati al cambiamento climatico e anche alle attese della Convenzione cittadina sul clima, un’assembla di 150 francesi dai 16 agli 80 anni, estratti a sorte, che era stata riunita nel 2019 sulla scia del successo delle marce dei giovani per il clima del movimento Fridays For Future promosso da Greta Thunberg. In nove mesi di dibattiti, la Convezione aveva partorito più di 150 proposte di misure, anche molto concrete, da mettere sul tavolo di Emmanuel Macron per rendere più verde la società francese con un obiettivo ben preciso: ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2023. Il 29 giugno scorso il presidente francese aveva ricevuto all’Eliseo i 150 cittadini assicurando loro che avrebbe ripreso la maggior parte delle loro proposte (146 in tutto) per portare avanti la “transizione ecologica e solidale” del paese. Una delle misure più forti dunque la creazione di un reato di ecocidio che molto presto dovrebbe diventare realtà. Di reati di fatto, hanno spiegato i due ministri al JDD, ne saranno istituiti due. Il primo è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all’ambiente “che sarà sanzionato con pene dai tre ai dieci anni di reclusione – hanno spiegato Dupont-Moretti e Pompili – in funzione che si sia in presenza di un’infrazione per imprudenza, di una violazione deliberata di un obbligo o di un’infrazione intenzionale”. Le multe andranno dai 375.000 ai 4,5 milioni di euro. Il secondo è un “reato per la messa in pericolo grave dell’ambiente” che “intende penalizzare chi mette in pericolo in modo deliberato l’ambiente violando le norme in vigore”. La pene prevista è di un anno di reclusione e 100.000 euro di multa.
Il reato riguarderà per esempio quelle fabbriche che “scaricano dei prodotti che non hanno un’incidenza concreta immediata sull’ambiente, ma di cui si teme che possano mettere in pericolo l’ambiente, i pesci e gli ecosistemi”. I due nuovi reati saranno iscritti nella legge sin dalla prossima settimana. “Oggi c’è chi sceglie di inquinare perché gli costa meno che pulire. Le cose cambieranno”, ha aggiunto Éric Dupont-Moretti. Molto enfaticamente Barbara Pompili, intervenuta anche alla radio FranceInfo, ha detto: “Il braccio della legge si abbatterà finalmente su tutti i banditi dell’ambiente, tutti quelli che gli recano danno o senza farlo apposta, o perché lo hanno voluto o perché hanno fatto una scelta intenzionale”.
Diverse associazioni, come France Nature Environnement, hanno visto nell’annuncio dei ministri un progresso nella politica ambientale del paese. Altre invece hanno fatto notare che il governo ha rivisto al ribasso, soprattutto sul piano delle sanzioni, le ambizioni del progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima che, per esempio, puntava a multe molto più salate, fino a colpire il 20% del fatturato globale delle aziende colte in fallo. Il militante ecologista Cyril Dion ha lanciato a sua volta una petizione online per ricordare a Macron gli impegni presi a giugno con i francesi, raccogliendo in alcuni giorni più di 260.000 firme. Dion ricorda un sondaggio dell’istituto Harris per il quale nove francesi su dieci ritengono che sia “urgente” intervenire in favore del clima.
martedì 1 settembre 2020
Le riforme degli altri. Anche in Europa provano a sforbiciare. - Giacomo Salvini
martedì 19 maggio 2020
Francia e Germania ci copiano anche sul Recovery fund. Sì a un piano per la ricostruzione da 500 miliardi a fondo perduto. - Laura Tecce
sabato 23 febbraio 2019
RAGIONAMENTI FUORI LUOGO (1-2) – Paolo Floris d'Arcais
Il popolo che non c’è. - (1)
Popolo vs establishment, d’accordo. Ci sono ragioni sacrosante, argomenti solidissimi. Solo che il popolo non esiste. È costituito da un coacervo di individui, gruppi, interessi, emozioni, che si intrecciano, sovrappongono, lacerano, in modo instabile, magmatico, imprevedibile. La costituzione in popolo di tale coacervo, sempre provvisoria e talvolta più che “liquida” addirittura volatile, dipende dal catalizzatore provvisoriamente vincente, cioè dalle speranze che dalle più grandi masse vengono interiorizzate al momento come non illusorie.
Il popolo è perciò una costruzione politica, oggi addirittura elettorale, o con la temporalità dei sondaggi, definita dalle prospettive che in un dato momento riescono a essere emotivamente egemoni nelle masse, a infiammare le passioni più intense, soprattutto contro quanti vengono individuati come i nemici/cause del proprio realissimo malessere.
Un popolo si costruisce attraverso l’individuazione dei propri valori e il riconoscimento dei propri nemici, i due processi sono intrecciati e con reciproco feedback. Ma il riconoscimento dei nemici è il più immediato, intenso, efficace, si imprime di più, è più riconoscibile, è più facilmente comunicabile. I valori devono più faticosamente farsi concretezza, programma, credibilità, argomentazione.
Il popolo si costruisce contro l’establishment, cioè contro i poteri reali, il dominio effettivo. Dovrebbe, almeno. Poiché però neppure l’establishment è blocco assolutamente monolitico, è assai facile sviare e confondere (con sommo gaudio e spesso manipolazione dell’establishment stesso). Presentare come nemici del popolo non già l’establishment, con il quale l’antagonismo di interessi è in re, ma le più generiche e comode èlite.
Ora, le élite sono in sostanza i gruppi dirigenti, o emergenti, o eminenti, nei vari ambiti della società. Non hanno nessuna omogeneità, sono tra loro spesso conflittuali, oltre che sempre funzionalmente assai differenziate. Le élite politiche e le élite giornalistiche sono diverse, e ancor più diverse rispetto alle élite sindacali o alle élite giudiziarie, o finanziarie, economiche, scientifiche, e via enumerando. Neppure in una società totalitaria faranno completamente blocco, kombinat.
All’interno delle élite politiche ci saranno quelle di governo e di opposizione, e se davvero in competizione non solo non saranno assimilabili ma esprimeranno interessi e valori conflittuali, forse inconciliabili. E così non tutte le élite sindacali saranno egualmente burocratizzate, egualmente addomesticate o addomesticabili. Analogamente per i giornalisti (benché quelli che passerebbero il vaglio dei criteri stabiliti da un liberista doc come Joseph Pulitzer siano sempre più difficili da scovare). Poiché non si è palesato un catalizzatore che creasse un popolo contro l’establishment, è subentrato un catalizzatore che ha costituito un popolo contro le élite, soprattutto culturali (e contro se stesso).
Fosse esistita una sinistra, avrebbe indicato come nemici la finanza speculativa, dunque (quasi) tutte le banche, (quasi) tutta Bankitalia che non ne ha controllato e contrastato l’avidità d’azzardo o illegale, l’imprenditoria di rapina o di rendita o di corruzione o di illegalità (di capitalismo “illuminato” in Italia ce n’è, ma davvero minoritario), cioè la maggioranza.
Una sinistra, fosse esistita, avrebbe governato con una politica di regole concrete e stringenti per assoggettare i potenti dell’economia all’articolo 3 della Costituzione anziché vellicare e acclamare e venerare i loro animal spirits. Avrebbe perseguito i grandi evasori, e massime quanti hanno trasferito il bottino all’estero, ospitandoli nelle patrie galere, e similmente per i ladri e corrotti, e insomma i responsabili delle decine e decine e decine di miliardi annui così sottratti ai cittadini onesti (cioè ai cittadini tout court). Potendo col maltolto recuperato abbassare le tasse ai meno abbienti e rilanciare in modo opulento il welfare, rendendo visibile che ogni grande evasore in galera significa alcuni asili nido in più, e ogni corruttore o corrotto un ospedale in più. E ovviamente mentre abbassava le tasse ai più deboli le avrebbe aumentate ai più ricchi, secondo il principio costituzionale della tassazione progressiva, cioè della redistribuzione costante del reddito per ridurre anziché lasciar aumentare le diseguaglianze. E via facendo, nel senso di giustizia-e-libertà.
Poiché però questa sinistra non c’è stata, e chi ha continuato con smaccata protervia a usurparne il nome (magari coniugandolo con un emolliente centro) ha agito solo come articolazione della destra, come parte dell’establishment, c’è stata un’altra destra, più becera ma più coerente, che ha sull’assenza di quel popolo costruito un altro popolo, spesso con le stesse persone. Perché se rinunci ai nemici del popolo finisci coi capri espiatori. La destra becera, perciò, diventa egemone dopo il governo della non-sinistra, indicando falsi nemici, che in assenza di quelli veri conquistano però le sinapsi bisognose di speranze come capri espiatori vicari: il popolo attuale di cui Salvini è il Pastore, il popolo basta-negri-sparo-a casa-mia-riapriamo-i-casini.
Fino a che non ci sarà un catalizzatore capace di aggregare il popolo giustizia-e-libertà, il popolo realmente esistente sarà l’altro, che pesca in fondali psichici elementari e primitivi, identitari (sangue, suolo, fede) epperciò radicati, efficacissimi. Sperare di contrastare questa destra pre-fascista con revenants e cascami di ciò che ha propiziato e alimentato lunga un quarto di secolo (anzi di più, vedremo) l’egemonia di Salvini è tragica demenza.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-1-il-popolo-che-non-ce/
La sinistra che si è fatta destra. - (2)
4 maggio 1979, Margaret Thatcher diventa primo ministro britannico. 20 gennaio 1981, Ronald Reagan viene insediato alla presidenza degli Stati Uniti. Il partito mondiale del privilegio ha vinto su entrambi i versanti dell’Atlantico. L’egemonia del neo-liberismo, però, verrà dopo. Egemonia è più di vittoria, è il radicarsi stabile, e come luogo comune, come orizzonte pensabile invalicabile, di una politica, la cui vittoria fino ad allora poteva essere rovesciata.
L’egemonia neo-liberale si realizza in ogni paese con sfalsature temporali e resistenze diverse, ma la sua data più significativa e riassuntiva è facilmente identificabile: il 21 luglio del 1994 il congresso del Labour elegge Tony Blair come suo leader, sulla piattaforma della “Terza via”, in realtà della sudditanza della sinistra al diktat neo-liberale. La signora Thatcher, esaminando retrospettivamente la sua carriera politica, avrà ragione di dire che il suo più grande successo è stato … Tony Blair.
Il ventennio di egemonia neo-liberale, che solo ora si incrina, non è perciò dovuto alla forza delle politiche liberali, alla capacità di governo delle destre. A realizzare tale egemonia sono state le sinistre, nel momento in cui hanno smesso di essere sinistra e si sono accucciate presso l’ideologia economica dominante, rendendola radicata, catafratta, in apparenza ineludibile. Solo con la rinuncia delle sinistre ad essere sinistra si è realizzato il mondo di T.I.N.A., There Is No Alternative. Le sinistre sono diventate semplicemente parte dell’establishment, articolazioni interne alla destra politica, meno becere, più equivoche, ancora legate al maquillage dei valori riformisti, come imbonimento della base e dell’elettorato, però, visto che nell’agire effettivo il loro orizzonte mentale e pratico era ormai quello di T.I.N.A.
Se si vuole capire cosa è avvenuto negli ultimi quarant’anni, e disporre degli strumenti critici almeno elementari e irrinunciabili per affrontare il presente e fronteggiare e magari invertire il dilagare elettorale delle destre becere in tutto l’Occidente, bisognerà perciò cominciare con una doverosa igiene linguistica e semantica, smettendo di chiamare “sinistra”, anche nella più edulcorata versione di “centro-sinistra”, tutto ciò che è stato niente altro che destra, sempre più nettamente e ormai antropologicamente. Chiamare le cose con il loro nome non è operazione secondaria, è anzi essenziale componente dell’azione, della praxis.
Una forza politica di governo ha diritto a definirsi di sinistra se, e solo se, con il suo agire riduce ogni giorno, quanto più drasticamente possibile, le diseguaglianze contro cui evidentemente si è scagliata in campagna elettorale, ottenendo i consensi al fine di combatterle. Questo è l’unico criterio. E semmai lo scarto tra il fare (o non fare) e il dire. Le promesse e la realizzazione. Con questo criterio risulta evidente che impallidisce la sinistra in Francia, e tra alti e bassi infine dilegua, già a partire dal secondo settennato di Mitterand. Che non esiste più in Germania da quando nella SPD prevale Schröder, e che in Italia comincia a venir meno quando la sacrosanta operazione Occhetto, di cambiar nome e cosa, anziché attingere fondamentalmente alle energie della società civile, per dar vita a un partito azionista di massa, come era nelle possibilità, declina a partito/federazione di correnti post-comuniste, con egemonia concorrenziale D’Alema/Napolitano, e infrangibile vocazione burocratica.
Il punto di non ritorno viene toccato quando per le elezioni comunali di Roma del 1993 Berlusconi appoggia la candidatura di Fini, segretario Msi fresco di celebrazioni fasciste della marcia su Roma (nel ’92 era il settantesimo), con grande spolvero di saluti romani e eja eja alalà. D’Alema comincia allora il rosario di giaculatorie secondo cui non si deve criminalizzare Berlusconi, anziché inchiodarlo al suo appoggio dell’ex, neo, post-fascista Fini per sottolinearne l’estraneità radicale alla democrazia repubblicana. Il resto segue, inciuci compresi, e l’esito è noto.
Il Pd nasce perciò già come partito d’establishment, articolazione “progressista e illuminata” (davvero?) della destra politica. Fino a che non lo si ammette resterà incomprensibile quanto avvenuto in Italia nell’ultimo quarto di secolo, e indecifrabile l’ondata grillina prima e salviniana (ovvero pre-fascista) poi. Ad una ricostruzione delle vicende politiche occidentali in cui si chiamino le cose con il loro nome, e dunque destraBlair e Clinton (cui si deve lo smantellamento delle misure rooseveltiane che tenevano con qualche guinzaglio la finanza: liberata grazie a Clinton da quei “lacci e lacciuoli”, si è scatenata come sappiamo), e in Italia la filiera di progressivo cupio dissolvi D’Alema> Veltroni> Bersani> Letta> Renzi, si obietta che in tal modo di sinistra non vi sarebbe più traccia, il che è impossibile. Niente affatto: la sinistra c’è eccome, non più rappresentata da oltre un ventennio, però. Non a caso questa rivista, già dalla sua nascita (1986), parlava di sinistra sommersa. Il berlusconismo prima, il salvinismo oggi, sono il risultato di una sinistra che non c’è, o meglio che non esiste sul piano delle organizzazioni politiche, delle offerte elettorali, della rappresentanza parlamentare, benché continui magmaticamente e carsicamente, ma in modo disperatamente e disperantemente disperso, la sua azione nei meandri della vita civile. Trovare il catalizzatore che le consenta di ritrovarsi anche politicamente è l’apriti sesamo imprescindibile, ma non pianificabile a tavolino, da cui dipenderà la ripresa della vita democratica in Italia.
Chiamare le cose con il loro nome ne costituisce l’antefatto altrettanto inderogabile. Non solo perché una politica democratica ha necessità di parlare secondo il principio “nomina sunt consequentia rereum”, anziché secondo manipolazione stile Grande Fratello (nel senso di Orwell, va da sé), ma perché solo facendo entrare nel lessico corrente che il Pd è destra (e i vari cespugli rifondaroli e simili non sono sinistra perché non sono), si potranno azzerare le residue ma tenaci (e mediaticamente ostinate, al limite del fake) illusioni, che un’alternativa al pre-fascismo di Salvini e dei suoi accucciati 5 Stelle, possa avere qualcosa a che fare con il Pd, comunque rimpannucciato.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-%E2%80%93-2-la-sinistra-che-si-e-fatta-destra/