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mercoledì 8 settembre 2021

Per le grandi aziende il Covid è alle spalle: dividendi a livelli pre-crisi. E mentre i salari sono fermi, la paghe degli ad salgono del 19%. - Felice Meoli

 

Secondo l’ultimo aggiornamento del Global Dividend Index sulle 1.200 maggiori aziende al mondo per capitalizzazione di Borsa, nel 2021 i colossi globali pagheranno agli azionisti 1,39 trilioni di dollari. Intanto l'Economic Policy Institute rileva che nel 2020 i ceo delle 350 maggiori imprese Usa sono stati pagati in media 24,2 milioni di dollari, il 18,9% in più rispetto al 2019, grazie anche alla crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione. Dal 1978 al 2020, i loro guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, quelli dei lavoratori medi solo del 18%.

Il contesto economico continua a essere incerto, il monte salari delle aziende stenta a recuperare i livelli pre-pandemia e i sussidi finiscono nel mirino perché secondo gli imprenditori – e qualche politico – “scoraggiano il lavoro”. In un quadro a tinte fosche, l’altro lato della medaglia è vissuto invece da azionisti e amministratori delegati delle più grandi aziende del pianeta: i dividendi hanno ormai quasi chiuso il gap provocato dalla discontinuità pandemica e gli stipendi dei loro amministratori delegati, nell’anno della crisi sanitaria, sono cresciuti a doppia cifra. Con la crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione i due gruppi – soci e ad – sempre di più vanno a sovrapporsi, determinando anche distorsioni nella governance, negli obiettivi e nella conduzione delle aziende. E ovviamente un aumento delle disuguaglianze: basti dire che dal 1978 al 2020 i guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, mentre quelli dei lavoratori medi solo del 18 per cento.

Secondo l’ultimo aggiornamento del Global Dividend Index, studio trimestrale del gestore patrimoniale globale Janus Henderson sul pagamento delle cedole agli azionisti delle maggiori aziende del pianeta, dopo un anno di magra i colossi globali hanno riavviato la distribuzione dei dividendi, e nel 2021 saranno pagati 1,39 trilioni di dollari. In crescita rispetto agli 1,36 della precedente edizione dello studio, quasi al livello pre-pandemia. L’84% delle aziende considerate dal gestore patrimoniale ha aumentato o mantenuto stabili i dividendi nel secondo trimestre 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020, dividendi che nel trimestre sono cresciuti complessivamente del 26,3 per cento. La parte del leone l’ha fatta l’Europa, dove i dividendi sono saliti del 66,4 per cento. Alle sue spalle il Regno Unito (+60,9%), mentre il Giappone (+0,4%) e il Nord America (+5%) in questo frangente temporale solo apparentemente sono rimasti al palo. Risultati eclatanti per il Vecchio Continente, sia perché il secondo trimestre è tradizionalmente l’arco dell’anno in cui le società europee staccano le cedole in un’unica soluzione, sia perché dall’altra parte dell’Atlantico di fatto la distribuzione dei dividendi non si è mai interrotta, nemmeno nelle fasi più delicate della crisi.

L’indice analizza nel dettaglio le 1.200 maggiori aziende al mondo per capitalizzazione di Borsa, che distribuiscono il 90% di tutti i dividendi globali. Le successive 1.800 aziende, nell’insieme considerato, rappresentano solo il 10% complessivo, con effetti dunque limitati sui risultati generali. Per lo stesso principio idealmente paretiano, anche le prime 20 aziende della speciale classifica dell’Index, dunque meno del 2% del totale, distribuiscono il 20% dei dividendi complessivi. Samsung, Nestlé, Rio Tinto, Sberbank e Sanofi sono le 5 società che nel secondo trimestre di quest’anno hanno distribuito più dividendi agli azionisti. Insieme ad Allianz, China Mobile, Microsoft, Axa e AT&T completano le prime 10 posizioni. Queste aziende nel secondo trimestre di quest’anno hanno pagato agli azionisti dividendi per 59,9 miliardi di dollari. Altre cedole per 33,1 miliardi di dollari sono state staccate da Exxon, Apple, Toyota, Basf, Deutsche Telekom, Zurich Insurance, Walmart, HSBC, Credit Agricole e Johnson & Johnson. Secondo gli analisti, la crescita più importante nel periodo considerato ha riguardato le società minerarie, che hanno beneficiato del boom dei prezzi delle materie prime. Anche le società industriali e i produttori di beni di consumo hanno sperimentato una decisa ripresa, nonostante alcuni sotto-settori, come quello del tempo libero, rimangano sotto forte pressione. Le società finanziarie restano invece vincolate alle decisioni dei regolatori e ai limiti imposti in alcune aree del globo alle banche.

Ma non sono solo gli azionisti delle più grandi multinazionali a sorridere, secondo i dati dell’Economic Policy Institute, che ha invece analizzato gli stipendi degli amministratori delegati delle 350 maggiori aziende americane, nell’ultimo anno cresciuti più del mercato borsistico e dei salari dei lavoratori. Due gruppi – azionisti e amministratori delegati – che diventano sempre più coincidenti. Nel 2020, i ceo sono stati pagati in media 24,2 milioni di dollari, il 18,9% in più rispetto al 2019, grazie anche alla crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione e all’esercizio di stock option. Nel 2020 il rapporto tra la retribuzione del ceo e quella del lavoratore medio è stato mediamente di 351 a 1, ovvero per ogni dollaro di salario del lavoratore medio, l’amministratore delegato ne ha guadagnati 351. Nel 2019 questo rapporto era di 307 a 1, nel 1989 di 61 a 1, nel 1963 di 21 a 1. Dal 1978 al 2020, i guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, mentre quelli dei lavoratori medi solo del 18 per cento.

“Le paga esorbitante dei Ceo è una delle principali cause dell’aumento della disuguaglianza che potremmo tranquillamente eliminare. I Ceo stanno ottenendo di più grazie al loro potere di fissare gli stipendi e perché gran parte della loro retribuzione (oltre l’80%) è correlata alle azioni di Borsa, non perché stiano aumentando la produttività o posseggano competenze specifiche e molto richieste”, afferma l’Economic Policy Institute. Il think tank ha infatti messo a confronto le retribuzioni dei Ceo anche con i salari dello 0,1% che guadagna di più, ovvero il gruppo di lavoratori che guadagna più del 99,9% degli altri salariati. Nel 2019, ultimo anno di disponibilità dei dati per i migliori salariati, la retribuzione dei Ceo è stata 6,44 volte maggiore dello 0,1% dei più ricchi salariati, un rapporto che nel periodo 1947-1979 si fermava a 3,18 volte. Eppure, anche questo gruppo non è rimasto al palo, e ha visto crescere i propri guadagni dal 1978 al 2019 del 341 per cento. Ma le retribuzioni dei Ceo, nello stesso periodo, sono cresciute ben tre volte tanto.

La maggior parte dei pacchetti retributivi dei Ceo prevede un aumento della paga ogni volta che il valore delle azioni dell’azienda aumenta; cioè, consentono agli amministratori delegati di incassare le stock option indipendentemente dal fatto che l’aumento del valore delle azioni dell’azienda sia stato maggiore rispetto ad altre società dello stesso settore. Allo stesso modo, i premi in azioni aumentano di valore quando il prezzo delle azioni dell’impresa aumenta a seguito di una escalation dei prezzi delle azioni nel mercato borsistico. “Se le tasse sulle società vengono ridotte e i profitti aumentano, portando a prezzi delle azioni più alti, è corretto affermare che i Ceo hanno migliorato le prestazioni delle loro aziende?”, si chiedono retoricamente i ricercatori. Che indicano anche qualche strada da percorrere: aliquote marginali più alte per i redditi dei vertici della piramide, più tasse per le aziende con un rapporto elevato tra retribuzione del Ceo e salario medio del lavoratore, interventi di antitrust e regolatori e voce in capitolo di tutta la compagine azionaria sulle retribuzioni dei top executive.

ILFQ

sabato 25 aprile 2020

Uguaglianze e disuguaglianze.


Redditi, si allarga la forbice tra ricchi e poveri: in Italia ...











A leggere i titoli di alcuni giornali di tendenza destroide, si avverte un falso allarmismo oltremodo inusitato.
Il fatto che questo governo voglia fare pulizia della corruzione, fa scattare negli scribacchini la paura che tutto ciò che era, potrebbe non essere più possibile, quindi, si attiva in loro una molla che gli fa prendere lucciole per lanterne.
Per cui, se un male intenzionato attinge ad un tipo di aiuto statale, come i reddito di cittadinanza, o ai 600 euro di bonus messi a disposizione dal governo e, nel frattempo, ottiene anche un cospicuo bonifico sul c/c, e, se scoperto, rischia di essere sanzionato, per loro scatta l'abuso di potere da parte del fisco.
A me pare normale e naturale che ciò avvenga, ma ciò che per me e per la giustizia è normale e naturale, non lo è per chi è abituato ad abusare di ciò che non gli spetta, pur non avendone bisogno o diritto, poiché gli bastava avere le conoscenze giuste e allungare qualche mazzetta...per attingere alla manna che cola dagli alberi!
Bisognerebbe spiegare loro che, mentre il fisco prima controllava e sanzionava solo noi poveri mortali, ora controlla anche loro.
FINALMENTE, dico io!!!!
Io li sanzionerei anche per aver creato, in controtendenza a quanto sancito dalla Costituzione all'art. 3, 2° capoverso:
- "E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese." -
quelle differenze sociali e pecuniarie che hanno di fatto posto una barriera invalicabile tra le loro e noi in termini di diritti e doveri.

Cetta.

sabato 23 febbraio 2019

RAGIONAMENTI FUORI LUOGO (1-2) – Paolo Floris d'Arcais

Il popolo che non c’è. - (1)




Popolo vs establishment, d’accordo. Ci sono ragioni sacrosante, argomenti solidissimi. Solo che il popolo non esiste. È costituito da un coacervo di individui, gruppi, interessi, emozioni, che si intrecciano, sovrappongono, lacerano, in modo instabile, magmatico, imprevedibile. La costituzione in popolo di tale coacervo, sempre provvisoria e talvolta più che “liquida” addirittura volatile, dipende dal catalizzatore provvisoriamente vincente, cioè dalle speranze che dalle più grandi masse vengono interiorizzate al momento come non illusorie. 

Il popolo è perciò una costruzione politica, oggi addirittura elettorale, o con la temporalità dei sondaggi, definita dalle prospettive che in un dato momento riescono a essere emotivamente egemoni nelle masse, a infiammare le passioni più intense, soprattutto contro quanti vengono individuati come i nemici/cause del proprio realissimo malessere. 

Un popolo si costruisce attraverso l’individuazione dei propri valori e il riconoscimento dei propri nemici, i due processi sono intrecciati e con reciproco feedback. Ma il riconoscimento dei nemici è il più immediato, intenso, efficace, si imprime di più, è più riconoscibile, è più facilmente comunicabile. I valori devono più faticosamente farsi concretezza, programma, credibilità, argomentazione. 


Il popolo si costruisce contro l’establishment, cioè contro i poteri reali, il dominio effettivo. Dovrebbe, almeno. Poiché però neppure l’establishment è blocco assolutamente monolitico, è assai facile sviare e confondere (con sommo gaudio e spesso manipolazione dell’establishment stesso). Presentare come nemici del popolo non già l’establishment, con il quale l’antagonismo di interessi è in re, ma le più generiche e comode èlite. 

Ora, le élite sono in sostanza i gruppi dirigenti, o emergenti, o eminenti, nei vari ambiti della società. Non hanno nessuna omogeneità, sono tra loro spesso conflittuali, oltre che sempre funzionalmente assai differenziate. Le élite politiche e le élite giornalistiche sono diverse, e ancor più diverse rispetto alle élite sindacali o alle élite giudiziarie, o finanziarie, economiche, scientifiche, e via enumerando. Neppure in una società totalitaria faranno completamente blocco, kombinat. 

All’interno delle élite politiche ci saranno quelle di governo e di opposizione, e se davvero in competizione non solo non saranno assimilabili ma esprimeranno interessi e valori conflittuali, forse inconciliabili. E così non tutte le élite sindacali saranno egualmente burocratizzate, egualmente addomesticate o addomesticabili. Analogamente per i giornalisti (benché quelli che passerebbero il vaglio dei criteri stabiliti da un liberista doc come Joseph Pulitzer siano sempre più difficili da scovare). Poiché non si è palesato un catalizzatore che creasse un popolo contro l’establishment, è subentrato un catalizzatore che ha costituito un popolo contro le élite, soprattutto culturali (e contro se stesso). 

Fosse esistita una sinistra, avrebbe indicato come nemici la finanza speculativa, dunque (quasi) tutte le banche, (quasi) tutta Bankitalia che non ne ha controllato e contrastato l’avidità d’azzardo o illegale, l’imprenditoria di rapina o di rendita o di corruzione o di illegalità (di capitalismo “illuminato” in Italia ce n’è, ma davvero minoritario), cioè la maggioranza. 

Una sinistra, fosse esistita, avrebbe governato con una politica di regole concrete e stringenti per assoggettare i potenti dell’economia all’articolo 3 della Costituzione anziché vellicare e acclamare e venerare i loro animal spirits. Avrebbe perseguito i grandi evasori, e massime quanti hanno trasferito il bottino all’estero, ospitandoli nelle patrie galere, e similmente per i ladri e corrotti, e insomma i responsabili delle decine e decine e decine di miliardi annui così sottratti ai cittadini onesti (cioè ai cittadini tout court). Potendo col maltolto recuperato abbassare le tasse ai meno abbienti e rilanciare in modo opulento il welfare, rendendo visibile che ogni grande evasore in galera significa alcuni asili nido in più, e ogni corruttore o corrotto un ospedale in più. E ovviamente mentre abbassava le tasse ai più deboli le avrebbe aumentate ai più ricchi, secondo il principio costituzionale della tassazione progressiva, cioè della redistribuzione costante del reddito per ridurre anziché lasciar aumentare le diseguaglianze. E via facendo, nel senso di giustizia-e-libertà. 

Poiché però questa sinistra non c’è stata, e chi ha continuato con smaccata protervia a usurparne il nome (magari coniugandolo con un emolliente centro) ha agito solo come articolazione della destra, come parte dell’establishment, c’è stata un’altra destra, più becera ma più coerente, che ha sull’assenza di quel popolo costruito un altro popolo, spesso con le stesse persone. Perché se rinunci ai nemici del popolo finisci coi capri espiatori. La destra becera, perciò, diventa egemone dopo il governo della non-sinistra, indicando falsi nemici, che in assenza di quelli veri conquistano però le sinapsi bisognose di speranze come capri espiatori vicari: il popolo attuale di cui Salvini è il Pastore, il popolo basta-negri-sparo-a casa-mia-riapriamo-i-casini. 

Fino a che non ci sarà un catalizzatore capace di aggregare il popolo giustizia-e-libertà, il popolo realmente esistente sarà l’altro, che pesca in fondali psichici elementari e primitivi, identitari (sangue, suolo, fede) epperciò radicati, efficacissimi. Sperare di contrastare questa destra pre-fascista con revenants e cascami di ciò che ha propiziato e alimentato lunga un quarto di secolo (anzi di più, vedremo) l’egemonia di Salvini è tragica demenza. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-1-il-popolo-che-non-ce/


La sinistra che si è fatta destra. - (2)




4 maggio 1979, Margaret Thatcher diventa primo ministro britannico. 20 gennaio 1981, Ronald Reagan viene insediato alla presidenza degli Stati Uniti. Il partito mondiale del privilegio ha vinto su entrambi i versanti dell’Atlantico. L’egemonia del neo-liberismo, però, verrà dopo. Egemonia è più di vittoria, è il radicarsi stabile, e come luogo comune, come orizzonte pensabile invalicabile, di una politica, la cui vittoria fino ad allora poteva essere rovesciata. 

L’egemonia neo-liberale si realizza in ogni paese con sfalsature temporali e resistenze diverse, ma la sua data più significativa e riassuntiva è facilmente identificabile: il 21 luglio del 1994 il congresso del Labour elegge Tony Blair come suo leader, sulla piattaforma della “Terza via”, in realtà della sudditanza della sinistra al diktat neo-liberale. La signora Thatcher, esaminando retrospettivamente la sua carriera politica, avrà ragione di dire che il suo più grande successo è stato … Tony Blair. 

Il ventennio di egemonia neo-liberale, che solo ora si incrina, non è perciò dovuto alla forza delle politiche liberali, alla capacità di governo delle destre. A realizzare tale egemonia sono state le sinistre, nel momento in cui hanno smesso di essere sinistra e si sono accucciate presso l’ideologia economica dominante, rendendola radicata, catafratta, in apparenza ineludibile. Solo con la rinuncia delle sinistre ad essere sinistra si è realizzato il mondo di T.I.N.A., There Is No Alternative. Le sinistre sono diventate semplicemente parte dell’establishment, articolazioni interne alla destra politica, meno becere, più equivoche, ancora legate al maquillage dei valori riformisti, come imbonimento della base e dell’elettorato, però, visto che nell’agire effettivo il loro orizzonte mentale e pratico era ormai quello di T.I.N.A. 

Se si vuole capire cosa è avvenuto negli ultimi quarant’anni, e disporre degli strumenti critici almeno elementari e irrinunciabili per affrontare il presente e fronteggiare e magari invertire il dilagare elettorale delle destre becere in tutto l’Occidente, bisognerà perciò cominciare con una doverosa igiene linguistica e semantica, smettendo di chiamare “sinistra”, anche nella più edulcorata versione di “centro-sinistra”, tutto ciò che è stato niente altro che destra, sempre più nettamente e ormai antropologicamente. Chiamare le cose con il loro nome non è operazione secondaria, è anzi essenziale componente dell’azione, della praxis

Una forza politica di governo ha diritto a definirsi di sinistra se, e solo se, con il suo agire riduce ogni giorno, quanto più drasticamente possibile, le diseguaglianze contro cui evidentemente si è scagliata in campagna elettorale, ottenendo i consensi al fine di combatterle. Questo è l’unico criterio. E semmai lo scarto tra il fare (o non fare) e il dire. Le promesse e la realizzazione. Con questo criterio risulta evidente che impallidisce la sinistra in Francia, e tra alti e bassi infine dilegua, già a partire dal secondo settennato di Mitterand. Che non esiste più in Germania da quando nella SPD prevale Schröder, e che in Italia comincia a venir meno quando la sacrosanta operazione Occhetto, di cambiar nome e cosa, anziché attingere fondamentalmente alle energie della società civile, per dar vita a un partito azionista di massa, come era nelle possibilità, declina a partito/federazione di correnti post-comuniste, con egemonia concorrenziale D’Alema/Napolitano, e infrangibile vocazione burocratica. 

Il punto di non ritorno viene toccato quando per le elezioni comunali di Roma del 1993 Berlusconi appoggia la candidatura di Fini, segretario Msi fresco di celebrazioni fasciste della marcia su Roma (nel ’92 era il settantesimo), con grande spolvero di saluti romani e eja eja alalà. D’Alema comincia allora il rosario di giaculatorie secondo cui non si deve criminalizzare Berlusconi, anziché inchiodarlo al suo appoggio dell’ex, neo, post-fascista Fini per sottolinearne l’estraneità radicale alla democrazia repubblicana. Il resto segue, inciuci compresi, e l’esito è noto.

Il Pd nasce perciò già come partito d’establishment, articolazione “progressista e illuminata” (davvero?) della destra politica. Fino a che non lo si ammette resterà incomprensibile quanto avvenuto in Italia nell’ultimo quarto di secolo, e indecifrabile l’ondata grillina prima e salviniana (ovvero pre-fascista) poi. Ad una ricostruzione delle vicende politiche occidentali in cui si chiamino le cose con il loro nome, e dunque destraBlair e Clinton (cui si deve lo smantellamento delle misure rooseveltiane che tenevano con qualche guinzaglio la finanza: liberata grazie a Clinton da quei “lacci e lacciuoli”, si è scatenata come sappiamo), e in Italia la filiera di progressivo cupio dissolvi D’Alema> Veltroni> Bersani> Letta> Renzi, si obietta che in tal modo di sinistra non vi sarebbe più traccia, il che è impossibile. Niente affatto: la sinistra c’è eccome, non più rappresentata da oltre un ventennio, però. Non a caso questa rivista, già dalla sua nascita (1986), parlava di sinistra sommersa. Il berlusconismo prima, il salvinismo oggi, sono il risultato di una sinistra che non c’è, o meglio che non esiste sul piano delle organizzazioni politiche, delle offerte elettorali, della rappresentanza parlamentare, benché continui magmaticamente e carsicamente, ma in modo disperatamente e disperantemente disperso, la sua azione nei meandri della vita civile. Trovare il catalizzatore che le consenta di ritrovarsi anche politicamente è l’apriti sesamo imprescindibile, ma non pianificabile a tavolino, da cui dipenderà la ripresa della vita democratica in Italia.

Chiamare le cose con il loro nome ne costituisce l’antefatto altrettanto inderogabile. Non solo perché una politica democratica ha necessità di parlare secondo il principio “nomina sunt consequentia rereum”, anziché secondo manipolazione stile Grande Fratello (nel senso di Orwell, va da sé), ma perché solo facendo entrare nel lessico corrente che il Pd è destra (e i vari cespugli rifondaroli e simili non sono sinistra perché non sono), si potranno azzerare le residue ma tenaci (e mediaticamente ostinate, al limite del fake) illusioni, che un’alternativa al pre-fascismo di Salvini e dei suoi accucciati 5 Stelle, possa avere qualcosa a che fare con il Pd, comunque rimpannucciato. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/ragionamenti-fuori-luogo-%E2%80%93-2-la-sinistra-che-si-e-fatta-destra/

giovedì 18 maggio 2017

Il Nobel Stiglitz: «Contro le diseguaglianze, investite sul Terzo settore» - Marco Dotti

Stiglitz

I dati dell'Istat lo confermano: nel nostro Paese cresce il divario tra (pochi) mega-ricchi e la massa della popolazione, sempre più precaria e sconnessa. Nel nostro presente ci sono povertà assoluta, fine della classe media, diseguaglianze sociali, economiche e di genere. Per cambiare rotta, spiega il Nobel in questa intervista a Vita, «dobbiamo far leva sul no profit»

Oggi, spiega il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, l’Italia è «uno dei paesi con il più alto livello di diseguaglianze al mondo». Per una volta, gli Usa non sono tanto distanti da noi: «classe media spolpata, base della popolazione impoverita e l’1% della stessa popolazione che gode di extra profitti. Con i figli di questo 1% che si ritroveranno ricchi per mera “discendenza” ed erediteranno un vantaggio competitivo che non farà che allungare la catena delle diseguaglianze. Qualcosa non torna, qualcosa non va, forse tutto.

Dal punto di vista teorico, è saltato un modello: quello della “teoria del gocciolamento”, ovvero l’idea che le diseguaglianze – di benessere, salute, reddito e di opportunità sociali – potessero in qualche modo essere mitigate dal fatto che i vantaggi ricevuti dalla popolazione più abbiente, sarebbero ricaduti sulle fasce più basse in termini di offerte di lavoro e via discorrendo. Al contrario, ci spiega Stiglitz, che abbiamo incontrato a margine dell'incontro sulla "jobless society“ organizzato da Adecco e Fondazione Feltrinelli, crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima, che si è preso tutto condividendo niente. Il salario minimo di un lavoratore è più basso di 40 anni fa», negli Usa come in Italia.

Professor Stiglitz, lei ha disegnato un quadro a tinte fosche del nostro presente. Ma per il futuro?

Poiché siamo esseri capaci di scelta e capiamo che così le cose non vanno, io sono ottimista: sappiamo scegliere, dobbiamo scegliere, ma dobbiamo anche capire in che direzione orientare questa scelta. Le diseguaglianze non sono inevitabili e la disoccupazione non è un destino. Il lavoro deve però essere luogo dove queste diseguaglianze si affievoliscono e garanzia della mobilità sociale. Se diventa luogo di diseguaglianza e discriminazione, siamo in un nuovo feudalesimo.

Dove orientarla, allora, la nostra scelta?

Dobbiamo contrastare in ogni modo le disuguaglianze. Per farlo, dobbiamo riscrivere le regole del mercato, garantendo una migliore distribuzione del reddito, rafforzando il potere di contrattazione dei lavoratori e riducendo la forbice tra i compensi dei manager e il salario medio dei dipendenti. Oggi, il sistema garantisce l’accumulo di ricchezza finanziaria e disincentiva, di fatto, gli investimenti nell’economia reale, nelle infrastrutture e a supporto delle piccole e medie imprese. Dobbiamo andare in un’altra direzione, sia sul piano delle regole, sia su quello della governance aziendale.

Come può il terzo settore contribuire a questa riconfigurazione dell’economia?

Facendo quello che sa fare e facendolo al meglio. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: se osservi le istituzioni americane, se le osservi bene intendo, che cosa noti? Noti che quelle di maggiore successo sono le istituzioni no profit. E tra queste istituzioni, particolare successo hanno le università. Direi che se il terzo settore tiene fede ai propri compiti, il suo successo va a un vantaggio di tutti. Non ci sono istituzioni “for profit” di successo.

Eppure, il corporate storytelling ci dice il contrario...

Lo ha detto lei, è corporate storytelling...

Diciamo pure: menzogne.

Infatti l’unico successo concreto di queste “for profit” sta nello sfruttare persone. Sfruttare persone povere. In questo riescono benissimo. Ma se guardi le università come Harvard, le fondazioni, le associazioni che davvero incidono positivamente sul piano economico e sociale, sono tutte no profit. Quando la gente parla dell’economia di mercato, io dico che non siamo una vera economia di mercato. Non lo siamo negli Stati Uniti, dove l’intero settore dell’educazione, dalla Stanford University in giù, è retto da un sistema no profit. Non lo siete in Italia dove – non devo essere io a insegnarvelo – il terzo settore ha un ruolo preminente. Guai se saltasse.

Non capirlo ha dei costi enormi, non crede?

Infatti, ci dimentichiamo che esistono istituzioni importanti che agiscono not -for-profit e, dimenticandocene, tendiamo a non capire la loro capacità di riconfigurare l’intera economia. Pensiamo al settore sanitario: credo che una delle ragioni per cui il sistema sanitario negli Stati Uniti sta andando così male risieda nel fatto che un tempo avevamo strutture che non operavano in primo luogo per profitto, ospedali religiosi e ospedali di comunità per esempio, e ora invece abbiamo “for profit hospitals”. Avevamo compagnie di assicurazione sanitaria cooperative, ora abbiamo imprese di assicurazione sanitaria “for profit”. Quello che voglio dire è che dobbiamo stare attenti ai piccoli cambiamenti. Sono stati i piccoli cambiamenti che hanno cambiato l’intera cultura di queste organizzazioni.

Un esempio positivo di questo no profit americano?

Penso a un istituto finanziario che si è comportato bene, le unioni di credit che sono no profit …

Anche piano del lavoro, oggi più che mai, il no profit ha molto da dire, soprattutto per produrre cambiamenti positivi nella cultura organizzativa.

Credo, infatti, che questa sia la sfida, non per generare ibridi ma per creare mentalità, cultura. Il modo migliore per qualunque paese per ridurre la disoccupazione giovanile resta comunque intervenire sulla disoccupazione complessiva. L’Italia, ora, ha un problema in più. Non solo è uno dei Paesi al mondo dove le diseguaglianze di reddito sono più marcate...

... e questo è già un bel paradosso, vista la presenza di quel terzo settore di cui parlavamo...Chiediamoci cosa accadrebbe se non ci fosse.

Accennava comunque a un problema in più, per l’Italia, sul piano delle politiche del lavoro...
Il problema è l’eurozona, per come è stata configurata. Intervenire sulla flessibilità non porterà a molto, perché anche nei paesi all’interno dell’eurozona in cui si è tentato di incrementare la flessibilità, l’unico risultato è indebolire ancora di più la tenuta interna dell’economia.

Se diciamo eurozona, diciamo in sostanza Germania...

All’interno dell’euro per i giovani italiani è molto difficile essere pienamente occupati, sarebbe facile per la Germania cambiare le sue politiche, per l’Europa cambiare e quando dico “facile” non mi riferisco alle politiche economiche. Parlo di politica. La diseguaglianza è conseguenza di una scelta del sistema politico. Poiché la Germania ha un peso imponente, lo fa valere. Bisogna riformare le regole dell’eurozona, condividendo il debito e cancellando il fiscal compact, tornando a favorire investimenti pubblici. Senza procedere in questa direzione non si uscirà dal problema della disoccupazione di massa che, secondo la Bce, nell’area euro, è al 18,5%.

Conseguenza di questa politica e della gabbia di ferro dell’eurozona è che, in Italia, oggi 1,6 milioni di persone vive in condizioni di povertà assoluta.

Non solo, se i paesi più virtuosi in tema di reddito, lotta alla disuguaglianza e mobilità sociale sono Norvegia (che è fuori dall’eurozona) e Svezia, l’Italia è ai primi posti al mondo per tasso di diseguaglianza, forbice di reddito e immobilismo sociale. In Italia, come negli Stati Uniti, hai un reddito alto se nasci da famiglie con un reddito alto, come negli Stati Uniti. Per questo, se l’eurozona è una trappola, gli Stati Uniti non sono certo il modello.

Si rischia, anche sulle tematiche del lavoro, di dare come il Barone di Münchhausen
che voleva tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.

Tanto più che, in Italia, è in atto un sotto investimento, anche culturale, sulle politiche della ricerca. I ricercatori non trovano lavoro e fuggono all’estero, coloro che potrebbero dare tanto a questo Paese sono costretti in condizioni di precarietà permanente e subiscono disuguaglianze al limite dell’umiliazione. Ecco, se torniamo al punto da cui siamo partiti: anziché invocare austerity o seguire ricette importate da chissà chi e da chissà dove, cercare di ridisegnare i confini dell’economia spingendo sul terzo settore, sulla sua capacità di agire sul legame sociale non sarebbe cosa da poco. Se non ripartiamo da questa forza motrice, sarà difficile. Se vogliamo riscrivere le regole e ridefinire la forma dell’economia, dobbiamo partire dal lavoro e ricordarci che abbiamo delle alternative alla crisi, all’austerity, alla crescita delle diseguaglianze. Una di queste alternative è imparare dal no profit come si opera un vero cambiamento sociale.

http://www.vita.it/it/article/2017/05/17/il-nobel-stiglitz-contro-le-diseguaglianze-investite-sul-terzo-settore/143398/

mercoledì 17 maggio 2017

Italia: addio classi sociali, crescono disuguaglianze.



La fotografia nel rapporto annuale Istat. Scompaiono borghesia e proletariato. Sette giovani su dieci a casa con i genitori.


L’Istat traccia la nuova mappa socio-economica dello Stivale, suddividendo le famiglie italiane in 9 gruppi sociali. Ma quello che ne esce è un ritratto impietoso. Sette giovani su dieci ancora a casa con i genitori, aumentano le disuguaglianze, Italia prima in Europa per invecchiamento della popolazione. Inoltre, il paese presenta una "perdita dell'identità di classe legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi". Così l’Istat nel suo Rapporto annuale 2017, presentato oggi a Montecitorio

Fotografia Italia: “esplodono” le classi sociali
Quello che viene fotografato è un Paese che sta cambiando volto. "La diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi". La classe operaia e il ceto medio, osserva l’Istat, "sono sempre state le più radicate nella struttura produttiva del nostro Paese" ma "oggi la prima ha abbandonato il ruolo di spinta all'equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell'evoluzione sociale". Secondo il rapporto dell’Istat, segmenti della popolazione non possono più essere inquadrati secondo le partizioni classiche. “Giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori, stranieri di prima generazione cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito, una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta - sottolinea l'Istituto - anche al progressivo invecchiamento della popolazione".
Ecco che nella nuova geografia dell'Istat "la classe operaia", che "ha perso il suo connotato univoco", si ritrova "per quasi la metà dei casi nel gruppo dei 'giovani blue-collar'", composto da molte coppie senza figli, e "per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri". Anche la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali, in particolare "tra le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia". Secondo l'Istituto "la classe media impiegatizia è invece ben rappresentabile nella società italiana, ricadendo per l'83,5% nelle 'famiglie di impiegati'".

Giovani a casa, Neet e anziani
La situazione dei giovani mostra che quasi sette su 10 tra gli under 35 vivono ancora nella famiglia di origine: nel 2016 i ragazzi tra i 15 e i 34 anni che stanno a casa dei genitori sono 8,6 milioni, il 68,1% dei coetanei. Ed è ancora maglia nera in Europa per i Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano: sono scesi a 2,2 milioni nel 2016, con un'incidenza che passa al 24,3% dal 25,7% dell'anno prima, ma si tratta ancora della quota "più elevata tra i paesi dell'Unione" europea, dove la media si ferma al 14,2%. L'Italia, inoltre, appare come un Paese sempre più vecchio: al 1 gennaio 2017 la quota di individui di 65 anni e più ha raggiunto il 22%, collocando il nostro Paese al livello più alto nell'Unione Europea e "tra quelli a più elevato invecchiamento al mondo". Con questo dato l'Italia supera anche la Germania che per anni si è collocata ai vertici della classifica europea per quota di over-65 sulla popolazione complessiva. Sono in 13,5 milioni gli italiani che hanno più di 65 anni; gli ultraottantenni sono 4,1 milioni.


Presenza femminile nelle aziende
Il rapporto offre anche un quadro sociale sull’occupazione femminile. Nelle grandi imprese italiane solo il 12,2% dei top manager è donna. La presenza femminile è maggiore nelle imprese familiari, dove le donne appartenenti alla famiglia proprietaria vengono inserite più facilmente nel Cda e nel top management. Nel middle management le donne arrivano al 23,1%, indicatore del fatto che salendo nella scala gerarchica aumenta lo svantaggio delle donne. Le maggiori incidenze di top manager donne sono diffuse nelle cooperative attive nei comparti dei servizi alla persona, delle pulizie, e dell'assistenza familiare e sanitaria. Le famiglie di impiegati vedono come persona di riferimento, principale percettore di reddito, una donna in 7 casi su 10. Nonostante la "superiorità di genere" delle donne quanto a livello di istruzione, si legge nel Rapporto annuale dell’Istat, nel 2016 il gap nei tassi di occupazione è ancora forte: 18,4 punti percentuali a sfavore delle donne. La quota di donne che lavorano è più alta nelle famiglie di impiegati, in quelle della classe dirigente e dei giovani blue collar. Il tasso di occupazione femminile passa dal 29,8 con al massimo la licenza media al 73,3% delle laureate.


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