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mercoledì 8 settembre 2021

Per le grandi aziende il Covid è alle spalle: dividendi a livelli pre-crisi. E mentre i salari sono fermi, la paghe degli ad salgono del 19%. - Felice Meoli

 

Secondo l’ultimo aggiornamento del Global Dividend Index sulle 1.200 maggiori aziende al mondo per capitalizzazione di Borsa, nel 2021 i colossi globali pagheranno agli azionisti 1,39 trilioni di dollari. Intanto l'Economic Policy Institute rileva che nel 2020 i ceo delle 350 maggiori imprese Usa sono stati pagati in media 24,2 milioni di dollari, il 18,9% in più rispetto al 2019, grazie anche alla crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione. Dal 1978 al 2020, i loro guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, quelli dei lavoratori medi solo del 18%.

Il contesto economico continua a essere incerto, il monte salari delle aziende stenta a recuperare i livelli pre-pandemia e i sussidi finiscono nel mirino perché secondo gli imprenditori – e qualche politico – “scoraggiano il lavoro”. In un quadro a tinte fosche, l’altro lato della medaglia è vissuto invece da azionisti e amministratori delegati delle più grandi aziende del pianeta: i dividendi hanno ormai quasi chiuso il gap provocato dalla discontinuità pandemica e gli stipendi dei loro amministratori delegati, nell’anno della crisi sanitaria, sono cresciuti a doppia cifra. Con la crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione i due gruppi – soci e ad – sempre di più vanno a sovrapporsi, determinando anche distorsioni nella governance, negli obiettivi e nella conduzione delle aziende. E ovviamente un aumento delle disuguaglianze: basti dire che dal 1978 al 2020 i guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, mentre quelli dei lavoratori medi solo del 18 per cento.

Secondo l’ultimo aggiornamento del Global Dividend Index, studio trimestrale del gestore patrimoniale globale Janus Henderson sul pagamento delle cedole agli azionisti delle maggiori aziende del pianeta, dopo un anno di magra i colossi globali hanno riavviato la distribuzione dei dividendi, e nel 2021 saranno pagati 1,39 trilioni di dollari. In crescita rispetto agli 1,36 della precedente edizione dello studio, quasi al livello pre-pandemia. L’84% delle aziende considerate dal gestore patrimoniale ha aumentato o mantenuto stabili i dividendi nel secondo trimestre 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020, dividendi che nel trimestre sono cresciuti complessivamente del 26,3 per cento. La parte del leone l’ha fatta l’Europa, dove i dividendi sono saliti del 66,4 per cento. Alle sue spalle il Regno Unito (+60,9%), mentre il Giappone (+0,4%) e il Nord America (+5%) in questo frangente temporale solo apparentemente sono rimasti al palo. Risultati eclatanti per il Vecchio Continente, sia perché il secondo trimestre è tradizionalmente l’arco dell’anno in cui le società europee staccano le cedole in un’unica soluzione, sia perché dall’altra parte dell’Atlantico di fatto la distribuzione dei dividendi non si è mai interrotta, nemmeno nelle fasi più delicate della crisi.

L’indice analizza nel dettaglio le 1.200 maggiori aziende al mondo per capitalizzazione di Borsa, che distribuiscono il 90% di tutti i dividendi globali. Le successive 1.800 aziende, nell’insieme considerato, rappresentano solo il 10% complessivo, con effetti dunque limitati sui risultati generali. Per lo stesso principio idealmente paretiano, anche le prime 20 aziende della speciale classifica dell’Index, dunque meno del 2% del totale, distribuiscono il 20% dei dividendi complessivi. Samsung, Nestlé, Rio Tinto, Sberbank e Sanofi sono le 5 società che nel secondo trimestre di quest’anno hanno distribuito più dividendi agli azionisti. Insieme ad Allianz, China Mobile, Microsoft, Axa e AT&T completano le prime 10 posizioni. Queste aziende nel secondo trimestre di quest’anno hanno pagato agli azionisti dividendi per 59,9 miliardi di dollari. Altre cedole per 33,1 miliardi di dollari sono state staccate da Exxon, Apple, Toyota, Basf, Deutsche Telekom, Zurich Insurance, Walmart, HSBC, Credit Agricole e Johnson & Johnson. Secondo gli analisti, la crescita più importante nel periodo considerato ha riguardato le società minerarie, che hanno beneficiato del boom dei prezzi delle materie prime. Anche le società industriali e i produttori di beni di consumo hanno sperimentato una decisa ripresa, nonostante alcuni sotto-settori, come quello del tempo libero, rimangano sotto forte pressione. Le società finanziarie restano invece vincolate alle decisioni dei regolatori e ai limiti imposti in alcune aree del globo alle banche.

Ma non sono solo gli azionisti delle più grandi multinazionali a sorridere, secondo i dati dell’Economic Policy Institute, che ha invece analizzato gli stipendi degli amministratori delegati delle 350 maggiori aziende americane, nell’ultimo anno cresciuti più del mercato borsistico e dei salari dei lavoratori. Due gruppi – azionisti e amministratori delegati – che diventano sempre più coincidenti. Nel 2020, i ceo sono stati pagati in media 24,2 milioni di dollari, il 18,9% in più rispetto al 2019, grazie anche alla crescita dell’offerta di azioni nei pacchetti di remunerazione e all’esercizio di stock option. Nel 2020 il rapporto tra la retribuzione del ceo e quella del lavoratore medio è stato mediamente di 351 a 1, ovvero per ogni dollaro di salario del lavoratore medio, l’amministratore delegato ne ha guadagnati 351. Nel 2019 questo rapporto era di 307 a 1, nel 1989 di 61 a 1, nel 1963 di 21 a 1. Dal 1978 al 2020, i guadagni dei Ceo sono cresciuti del 1.322%, mentre quelli dei lavoratori medi solo del 18 per cento.

“Le paga esorbitante dei Ceo è una delle principali cause dell’aumento della disuguaglianza che potremmo tranquillamente eliminare. I Ceo stanno ottenendo di più grazie al loro potere di fissare gli stipendi e perché gran parte della loro retribuzione (oltre l’80%) è correlata alle azioni di Borsa, non perché stiano aumentando la produttività o posseggano competenze specifiche e molto richieste”, afferma l’Economic Policy Institute. Il think tank ha infatti messo a confronto le retribuzioni dei Ceo anche con i salari dello 0,1% che guadagna di più, ovvero il gruppo di lavoratori che guadagna più del 99,9% degli altri salariati. Nel 2019, ultimo anno di disponibilità dei dati per i migliori salariati, la retribuzione dei Ceo è stata 6,44 volte maggiore dello 0,1% dei più ricchi salariati, un rapporto che nel periodo 1947-1979 si fermava a 3,18 volte. Eppure, anche questo gruppo non è rimasto al palo, e ha visto crescere i propri guadagni dal 1978 al 2019 del 341 per cento. Ma le retribuzioni dei Ceo, nello stesso periodo, sono cresciute ben tre volte tanto.

La maggior parte dei pacchetti retributivi dei Ceo prevede un aumento della paga ogni volta che il valore delle azioni dell’azienda aumenta; cioè, consentono agli amministratori delegati di incassare le stock option indipendentemente dal fatto che l’aumento del valore delle azioni dell’azienda sia stato maggiore rispetto ad altre società dello stesso settore. Allo stesso modo, i premi in azioni aumentano di valore quando il prezzo delle azioni dell’impresa aumenta a seguito di una escalation dei prezzi delle azioni nel mercato borsistico. “Se le tasse sulle società vengono ridotte e i profitti aumentano, portando a prezzi delle azioni più alti, è corretto affermare che i Ceo hanno migliorato le prestazioni delle loro aziende?”, si chiedono retoricamente i ricercatori. Che indicano anche qualche strada da percorrere: aliquote marginali più alte per i redditi dei vertici della piramide, più tasse per le aziende con un rapporto elevato tra retribuzione del Ceo e salario medio del lavoratore, interventi di antitrust e regolatori e voce in capitolo di tutta la compagine azionaria sulle retribuzioni dei top executive.

ILFQ

giovedì 8 ottobre 2020

Premi Covid, nelle Marche neanche un euro per medici e infermieri. Mentre i dirigenti tentano il blitz per ottenerlo: 82 beneficiari. - Pierfrancesco Curzi

 

Un decreto firmato dalla dirigente del Servizio salute della Regione aveva autorizzato il pagamento delle quote di straordinari per 82 colleghi, alcuni dei quali in servizio in settori come la cultura, la tutela dell'ambiente e lo sport. Tutto congelato in base all'indicazione del neopresidente Acquaroli. Il sindacato dei medici: "Certe cose fanno arrabbiare. Per la nostra categoria si ragiona sull’ordine di poche centinaia di euro e i dirigenti della Regione vanno ad incassare fino al 30% della retribuzione".

Mediciinfermieri e personale sanitario delle Marche, in prima linea nella lotta contro il Covid-19, non hanno ancora visto un euro della premialità annunciata a maggio dalla Regione, ma intanto i vertici apicali di Palazzo Raffaello erano pronti ad elargire ricchi bonus per straordinari in parte fantasma a dirigenti e funzionari. Un decreto, il numero 16 del 7 agosto, firmato dalla dirigente del Servizio salute della Regione, Lucia Di Furia, autorizzava il pagamento delle quote di straordinari per 82 tra dirigentiinterni ed esterni. Posizioni organizzative e altri funzionari di rango più basso. Somme che potevano andare da 4mila ad oltre 10mila euro, in quanto in rapporto del 30 per cento rispetto allo stipendio tabellare dei vari ruoli. Ora quel provvedimento pare congelato: almeno questa è l’indicazione del nuovo presidente di Regione Francesco Acquaroli (Fratelli d’Italia) che dovrebbe annunciare la formazione della nuova giunta nei prossimi giorni.

Sono bastati un inghippo, qualcuno che ha messo i bastoni tra le ruote e il clamore mediatico per “congelare” la cosa. Sarebbe infatti stato più difficile richiedere indietro le cifre a chi l’emergenza Covid-19 non l’ha neppure sfiorata, magari lavorando per mesi in smart working nel periodo delineato dal decreto, ossia dal 31 gennaio (nelle Marche l’epidemia è esplosa un mese dopo) al 31 luglio. Uno dei dirigenti più di lungo corso presenti in quella lista, inoltre, proprio nel periodo di massimo impatto del virus era in malattia e non ha prestato servizio sotto alcuna forma. Poi c’è il nodo dei servizi e degli ambiti della Regione a cui il bonus doveva essere destinato. Mentre l’area sanità e la Protezione civile sono effettivamente stati in prima linea, qualche dubbio viene analizzando altri settori: turismo ad esempio, oppure la cultura e lo sport, le risorse umane, la tutela del territorio e il servizio “affari istituzionali e integrità” che comprende alcune figure dell’area comunicazione. Decine di questi dirigenti e funzionari, alcuni con stipendi annui vicini ai cinque zeri, erano in quella lista.

A commentare il caso è Oriano Mercante, segretario regionale del sindacato Anaao Assomed: “Certe cose fanno arrabbiare. Per la nostra categoria, così come per quella del comparto, si ragiona sull’ordine di poche centinaia di euro e i dirigenti della Regione vanno ad incassare fino al 30% della retribuzione, alcuni magari senza aver mai fatto nulla contro il Covid. Ne valeva la pena attivare una contrattazione infinita per 600 euro una tantum? Le dico, era meglio non prendere un euro e guadagnarci in salute. Credo che ci sia un senso di opportunità dietro a ogni decisione. I soldi elargiti per questi straordinari sono importanti e soprattutto sono arrivati attingendo dal fondo dell’emergenza Covid, senza alcuna contrattazione”.

La misura, pronta per essere licenziata, è saltata in extremis: fondamentale il fuoco amico di altri dirigenti e personale della Regione, lasciati a bocca asciutta e fuori dal decreto. Stesso discorso per i sindacati, anch’essi silenziati dal provvedimento che annullava, in deroga, qualsiasi contrattazione. Tutto è avvenuto a luglio e agosto, cioè agli sgoccioli di una legislatura travagliata e conclusa con la mancata riconferma del presidente uscente Luca Ceriscioli: “Quello che dovevo fare l’ho fatto, senza dubbi e senza indugi, inserendo un pacchetto da 20 milioni di euro. Gli accordi sui premi sono stati firmati, se non sbaglio. Gli straordinari Covid per dirigenti e posizioni organizzative? Mi risulta che si tratti di regole fissate dal dipartimento centrale di Protezione civile e saranno pochi a goderne”.

Proprio lui aveva annunciato i premi per i cosiddetti “eroi” della sanità, ma gli accordi per l’erogazione dei fondi sono stati presi soltanto in minima parte: “Delle quattro tra aziende ospedaliere e quella sanitaria regionale (l’Asurndr), abbiamo chiuso le vertenze solo nelle due più piccole, Marche Nord e Inrca per il comparto (infermieri, oss, ausiliari e tecnici, ndr) – sostiene Luca Talevi, segretario generale Fp-Cisl Marche – Erano stati promessi mille euro, alla fine ne sono arrivati 615, lordi tra l’altro. Per le due aziende principali, Asur e Ospedali Riuniti di Ancona, parliamo di 8mila addetti, la chiusura dell’accordo rischia di essere addirittura inferiore. Siamo in stato di agitazione e pronti allo sciopero per questo motivo”.

La diretta interessata, Lucia Di Furia, per ora preferisce non replicare. A farlo è invece la massima dirigente della Regione, la segretaria generale Deborah Giraldi: “Il provvedimento non è ufficialmente partito, non abbiamo dato neppure un euro ai dirigenti, ma soltanto fatto una ricognizione col servizio centrale della Protezione civile che elargisce i fondi. In effetti vorremmo capire bene, a norma di legge, cosa si intende esattamente per ‘attività connesse all’emergenza Covid-19’ prima di andare oltre. Ci muoviamo con la massima cautela”. Resta il fatto che il decreto per l’indennità onnicomprensiva era stato mandato in pagamento e i diretti interessati se la sarebbero vista accreditata nella prossima busta paga, se non fosse stata bloccata in tempo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/08/premi-covid-nelle-marche-neanche-un-euro-per-medici-e-infermieri-mentre-i-dirigenti-tentano-il-blitz-per-ottenerlo-82-beneficiari/5958101/

giovedì 18 ottobre 2018

Decreto Fisco, l’articolo fantasma pro Croce rossa: 84 milioni all’insaputa di Conte e ministri. Poi il premier lo stralcia. - Thomas Mackinson

Decreto Fisco, l’articolo fantasma pro Croce rossa: 84 milioni all’insaputa di Conte e ministri. Poi il premier lo stralcia

Il governo approva il decreto ma alla vigilia era spuntato uno stanziamento in favore della gestione commissariale della Croce Rossa. Il premier chiede ai ministri, nessuno sa nulla. Imbarazzo generale, poi le ammissioni del capo di Gabinetto di Tria. La tensione tecnici-politici torna così massimi livelli, e alla fine Conte stralcia: "Troppi dubbi". Mef: "Norma per superare ambiguità e lacune".

Domenica sera, preconsiglio dei ministri, vigilia di approvazione del Decreto Fiscale. Attorno al tavolo ci sono Giuseppe Conte, i suoi ministri e sottosegretari, vari tecnici. Arrivano le bozze aggiornate del decreto e, racconta chi c’era, il capo del governo in persona alza il sopracciglio: “Scusate, che roba è?”. Tra le mani tiene il testo dell’articolo 23: due commi che muovono 84milioni di euro in tre anni intitolati a “Disposizioni urgenti relative alla gestione liquidatoria dell’Ente strumentale alla Croce rossa Italiana”. Righe così urgenti, che nessuno sa chi le abbia scritte: si materializza, insomma, la solita “manina”, l’eterna burocrazia senza nome che sa erigere muri sulle virgole e abbattere montagne in una riga. E così facendo, fatalmente, comanda.
La norma, in soldoni, stabilisce che i 117 milioni di euro l’anno appena stanziati dal Mef a favore della Croce Rossa siano da rimodulare almeno in parte, conferendo annualmente una quota significativamente maggiore alla struttura commissariale retta da Patrizia Ravaioli, già direttore generale della Cri e liquidatore, nonché moglie di Antonio Polito, notista politico e vice direttore del Corriere della Sera. Il commissario, evidentemente, ha bisogno di soldi per il personale e per le “spese correnti di gestione”. E prontamente qualcuno li trova.
Nel decreto che ha sbloccato i fondi, quelli per l’ente liquidatore si fermavano a 15.190.765 l’anno per tre anni. La rimodulazione spuntata nel ddl ne assegna alla struttura oltre dieci di più, sempre a valere sul Fondo sanitario nazionale, arrivando così a 28,1 l’anno. Magari è un bene, magari no. Il punto è che nessuno,  a quanto pare, ne sapeva nulla. Un “dettaglio” che fa correre nuova bile tra tecnici e politici ormai ai ferri cortissimi, come ha rivelato il famoso trovino i soldi o li cacciamo tutti”, lanciato come un guanto di sfida dal portavoce di Conte, Rocco Casalino, ai cronisti. E rilanciato dallo stesso Luigi Di Maio che a stretto giro ha attaccato i dirigenti del Mef e il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco (“C’è chi rema contro, faccio controllare ogni norma dai miei collaboratori perché non mi fido).
Letta la norma, stando a ricostruzioni convergenti, Conte ha fatto un rapido giro di consultazione tra i presenti e nessuno l’ha rivendicata. Non il ministro della Difesa Trenta che, non ha più competenze sul riordino della CRI. Non quello della Salute Grillo, che pure è autorità vigilante (e non nasconderà di nutrire alcune perplessità sulle cifre).
Alla fine sarà Roberto Garofoligrand commis del Mef, a spiegare ai presenti che la norma è stata effettivamente scritta dal Mef, a livello di Ragioneria Generale dello Stato, al seguito di una interlocuzione con l’ente in liquidazione e col ministero. Garofoli è il capo di Gabinetto di Tria, lo era anche di Padoan e prima ancora di Patroni Griffi. Ma è stato anche segretario della presidenza del Consiglio con Enrico Letta, prima ancora capo del legislativo con D’Alema e Prodi. Inutile bussare alla sua porta per dettagli, non risponde. “Di quell’articolo non so nulla”, taglia corto il commissario Ravaioli che, a precisa richiesta, non fa nomi, ma a sua volta chiama in causa il Ragioniere dello Stato e il ministero della Salute. Prevedendo poi la bufera, precisa: “Io sono un tecnico, mi attengo alle opzioni politiche che stanno in capo al ministro”.
Nella serata di ieri il Mef ha poi inviato una nota tecnica per spiegare la genesi della norma e rivendicarne la bontà (scarica). Sarebbe legata alle perplessità sulla possibilità di finanziare (con il decreto di metà settembre) alcune voci di costo della gestione liquidatoria, diverse e aggiuntive rispetto al costo del trattamento del personale funzionale alla liquidazione richieste dall’ente. Perplessità comunicate al Ministero della Salute ma non raccolte, che vengono ripresentate e sciolte ora con un finanziamento che in parte compensa anche il fatto che i 15,2 milioni di euro appena conferiti all’ente commissariale non comprendono l’importo di circa 7 milioni di euro che l’ente valuta di dover pagare nel 2018 a titolo di trattamento di fine rapporto.
Sia come sia la “manina” resterà ufficialmente ignota, e il testo non passerà. Conte in persona, stando a chi c’era, l’avrebbe giudicato  estraneo al decreto per materia e scritto in modo da non diradare del tutto il sospetto che risorse stanziate per servizi finiscano a coprire altre spese. Così, è arrivato l’aut-aut: o mi sapete indicare esattamente a quale urgenza risponde, come e perché o questa cosa non passa. E così è stato, ma per fermarla c’è voluto l’intervento diretto del Presidente del Consiglio. Perché la guerra di potere, ormai, si combatte ai più alti livelli.
Fonte: ilfattoquotidiano del 16/10/2018

giovedì 13 luglio 2017

Ocse: pubblica amministrazione «anziana» e dirigenti strapagati. - Giuliana Licini



Non solo debito record, ma anche dipendenti attempati, dirigenti strapagati e una diffusa insoddisfazione dei cittadini. Nel rapporto «Government at a Glance», l'Ocse mette sotto la lente l'amministrazione pubblica dei Paesi membri e lo «sguardo» spesso si posa inclemente sugli squilibri italiani, noti e meno noti. Non mancano, d'altro canto, i progressi e le aree di distinzione. L'Italia, ad esempio, è seconda solo alla Germania nell'Ocse per indipendenza delle autorità di regolamentazione dei principali settori di rete. Sui conti pubblici - rileva lo studio - il deficit dell'Italia è migliorato, passando dal 5,3% del 2009 al 2,7% nel 2015, migliore del 2,8% medio Ocse, ma a causa della duplice recessione il debito resta molto elevato, avendo raggiunto nel 2015 il 157,5% del Pil - in base alle definizioni Ocse - contro una media del 112% ed è il terzo peggiore dell'area, dopo Giappone e Grecia. Il pagamento degli interessi sul debito è stato pari al 4% del Pil nel 2015, inferiore solo al 4,2% portoghese.
L'Ocse riconosce, peraltro, che l'Italia per contenere la spesa ha messo in atto nel 2008-2016 ben sei spending reviews, che hanno aiutato il Governo a navigare attraverso la stretta ai conti pubblici. La spesa pubblica nel 2015 è stata pari al 50,5% del Pil contro il 40,9% Ocse ed è stata assorbita per il 42,6% dalla protezione sociale contro il 32,6% medio Ocse. Ai servizi pubblici generali è andato il 16,6% contro il 13,2% Ocse, mentre all'istruzione è stato destinato il 7,9% sotto la media Ocse che è del 12,6% e alla sanità il 14,1% contro il 18,7%. Nel welfare il 64,3% della spesa va alle pensioni contro il 53,5% Ocse. Agli investimenti pubblici è andato solo il 2,1% del Pil nel 2016, in calo dal 2,3% del 2015, contro una media Ocse del 3,2%. L'Italia resta in ritardo sulla spesa tramite appalti pubblici, che riguarda solo il 20,5% del totale della spesa contro il 29% Ocse. Le entrate pubbliche sono salite al 47,1% del Pil nel 2016 dal 45,2% del 2007 e per il 63% derivano dalla tassazione (media Ocse 59% nel 2015). Passando alla forza lavoro pubblica, il rapporto sottolinea che l'Italia ha la più alta quota tra i Paesi industrializzati di dipendenti statali ultra-55enni, con il 45% contro il 24% medio e la minore proporzione (2%) di giovani tra i 18-34 anni che lavorano per il Governo centrale. Questo - sottolinea il rapporto - richiede è un'attenta pianificazione della forza lavoro in modo da assicurare che il pensionamento massiccio dei dipendenti non porti a una perdita di memoria istituzionale e non incida sulla qualità dei servizi pubblici.

I dipendenti pubblici, per altro, sono il 13,6% dell'occupazione totale in Italia, contro il 18% medio Ocse. I livelli di retribuzione sono più elevati rispetto alla media soprattutto nelle posizioni più elevate: i senior manager tricolori, cioè i più alti dirigenti della Pa, nel 2015 avevano un compenso annuo lordo di 395.400 dollari, il più alto dell'Ocse dopo l'Australia, a fronte di una media di 231.500 dollari. Anche per le mansioni di segreteria la P.a italiana è più generosa della media Ocse, mentre lesina sui compensi dei professionisti, cioè i dipendenti pubblici con competenze tecniche specifiche (67.900 dollari contro 88.700). Quasi biblici rispetto ai parametri internazionali i tempi della giustizia: oltre 2 anni e mezzo per le cause amministrative (solo in Grecia sono più lunghi) contro i 4 mesi della Svezia. 

Da ultimo, il grado di soddisfazione dei cittadini nei confronti dei servizi pubblici: anche in questo caso l'Italia si ritrova in coda. Nel 2016 solo il 49% degli interpellati nei sondaggi si dichiarava soddisfatto dei servizi sanitari. Il dato, che relega l'Italia al sestultimo posto nell'Ocse, è in calo dal 56% del 2007 e si confronta con il 70% medio Ocse. Tra scuole senza materiale didattico (secondo peggior caso dell'Ocse), test di apprendimento deludenti, istituti poco accoglienti e insegnanti poco collaborativi secondo gli studenti (e in coda per salario secondo il confronto internazionale), la Penisola è quintultima per soddisfazione nel sistema scolastico con il 55% contro il 67% Ocse

Penultimo posto, poi, per la fiducia nel sistema giudiziario, apprezzato solo dal 24% dei cittadini contro il 55% Ocse. Nel complesso, la fiducia nel governo nazionale, già scarsa nel 2007 (30%), nel 2015 è scesa al 24%. E' più bassa solo in Cile e in Grecia.

rapporto «Government at a Glance»

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-07-13/ocse-pubblica-amministrazione-anziana-e-dirigenti-strapagati--102934.shtml?uuid=AEK1KiwB

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse. - Chiara Brusini

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse

E' il settimo intervento "rivoluzionario" di riordino della pubblica amministrazione nell'arco di 24 anni. E doveva essere un fiore all'occhiello del governo Renzi. Ma i furbetti del cartellino erano licenziabili anche prima, i sistemi di valutazione dei risultati rimangono discrezionali, il ruolo unico per la dirigenza è saltato e la sforbiciata alle aziende pubbliche è depotenziata. L'economista: "Sullo sfondo resta una logica di forte influenza della politica".

I furbetti del cartellino potranno essere licenziati, certo. Come prevede fin dal 2009 la riforma Brunetta nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza”. Le partecipate dello Stato invece resteranno migliaia, perché la stretta annunciata da Matteo Renzi all’arrivo a Palazzo Chigi si è concretizzata in paletti larghissimi con numerose deroghe. E i 36mila dirigenti pubblici non saranno affatto costretti a cambiare poltrona ogni 4 anni in modo da “scardinare il meccanismo” per cui “troppe persone per troppo tempo gestiscono un potere“, come aveva promesso Marianna Madia: il decreto sul ruolo unico è saltato. A quasi due anni dal varo del disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione, la ministra ha dichiarato chiuso il cantiere di quello che doveva essere uno dei fiori all’occhiello del governo del leader Pd, “la riforma da cui dipendono le altre”. Ma, al netto del fatto che in realtà manca ancora all’appello il decreto correttivo sui dirigenti sanitari, l’obiettivo di rivoltare come un calzino la macchina della burocrazia per “avere servizi di maggiore qualità e fare pagare meno tasse ai cittadini” dovrà attendere ancora.
La settima “rivoluzione” in 24 anni – Quello firmato dalla Madia, rimasta alla guida del ministero nonostante lo scandalo della tesi di dottorato plagiata, è il settimo intervento di riordino della pa annunciato come rivoluzionario nell’arco degli ultimi 24 anni. Questo se non si vogliono contare pure le (anch’esse rivoluzionarie) norme sulla mobilità degli statali volute nel 1988 dall’allora ministro della Funzione pubblica Paolo Cirino Pomicino. Ma secondo Veronica De Romanis, per 12 anni membro del Consiglio degli esperti del Tesoro, oggi docente di Politica economica europea nella sede fiorentina della Stanford University e alla Luiss, l’esito anche in questo caso lascia a desiderare. “Renzi ha puntato molto sugli slogan, a partire dalla battaglia contro i furbetti del cartellino”, sintetizza. “Ma, piuttosto che iniziare dalle sanzioni contro quelli che non lavorano, meglio sarebbe stato concentrarsi su chi è preposto a verificare il loro lavoro, per migliorare l’efficienza dei servizi per i cittadini. Inoltre nella riforma non sono stati fissati obiettivi quantitativi. La Madia ha addirittura rivendicato di non sapere quanti risparmi avrebbe portato la riforma e di essere contenta di non saperlo, perché secondo lei la spending review è “un risultato, non un punto di partenza”. Invece la programmazione è fondamentale”. Sullo sfondo, poi, “resta immutata la logica di grande influenza della politica sulla pubblica amministrazione”. Cosa che con l’efficienza tende a fare a pugni. Ma, in attesa di vedere come funzionerà in concreto, sono almeno cinque – dai licenziamenti al “disboscamento” delle partecipate – i punti rispetto ai quali la riforma già sulla carta non mantiene le promesse. 
Sui licenziamenti nulla di nuovo rispetto alla riforma Brunetta.
Lotta ai furbetti e licenziamenti rapidi sono stati tra gli aspetti della riforma più decantati da Renzi. Ma secondo Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona e collaboratore de lavoce.info su questi temi, l’attuazione è all’acqua di rose. “Per cambiare davvero qualcosa servirebbero regole operative: quali sono concretamente i parametri in base ai quali gli statali vanno valutati? Con quali tecnologie si può combattere in modo efficace l’assenteismo? Invece ci si limita a intervenire su aspetti formali. Così gli obiettivi restano fumosi, non ci sono standard oggettivi”. E i “licenziamenti in 48 ore” dei furbetti del cartellino? “Il termine di 48 ore vale solo per la sospensione di chi viene colto in flagranza. Per i licenziamenti cambia in realtà pochissimo rispetto alle norme scritte da Brunetta: non a caso il Comune di Sanremo l’anno scorso ha licenziato 32 assenteisti (tra cui il famigerato vigile che timbrava il cartellino in mutande, ndr) appellandosi alla vecchia legge. Sul fronte dei provvedimenti minori, come il rimprovero scritto o la multa pari a 4 ore di retribuzione, c’è invece un paradosso: nell’ultima versione del decreto Madia il tempo massimo per concludere l’azione disciplinare è fissato in 120 giorni, il doppio rispetto a quanto era previsto finora”. Per quanto riguarda i licenziamenti dopo tre “pagelle” negative di fila, celebrati come il trionfo della meritocrazia, il decreto Brunetta già sanciva che gli statali fossero lasciati a casa a fronte di “una valutazione di insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa” nell’arco di almeno un biennio.
Obiettivi fumosi e organismi di valutazione nominati dalla politica.
Il vero nodo, però, sta proprio nelle valutazioni: il decreto attuativo “non entra nel dettaglio, lascia all’autonomia delle singole amministrazioni il compito di definirsi il sistema valutativo”, sottolinea Marta Barbieri, docente di Public management and policy alla Scuola di direzione aziendale (Sda) della Bocconi. “Bene sottolineare la rilevanza della performance organizzativa, oltre che di quella individuale, però resta il dubbio su cosa si intenda con questo. Per valutare positivamente le politiche per il lavoro, per esempio, basterà verificare di aver svolto le attività previste o si dovrà guardare come è variato il tasso di occupazione?”. E tener conto dei giudizi di soggetti terzi rimane solo un consiglio. Per quanto riguarda la performance individuale, negli altri Paesi funziona diversamente: “Il numero di obiettivi, le scale di valutazione relative e l’individuazione di pesi variano, ma sono in generale disciplinati nel dettaglio“, si legge nel white paper sui Sistemi di selezione e valutazione dei dirigenti pubblici in Europa, pubblicato lo scorso anno in una collana della Sda Bocconi. In Irlanda, Lettonia, Polonia, Portogallo e Regno Unito, in particolare, ci sono schede di valutazione standard in cui indicare obiettivi, indicatori e risultati conseguiti e comportamenti. “Da noi invece”, spiega Barbieri, “a validare le relazioni sulle performance sono gli Organismi indipendenti di valutazione“. Che però sono nominati, previa selezione pubblica, dalla politica. E che ad oggi non validano ex ante i piani della performance. Inoltre le richieste all’ente che affiancano nel monitoraggio – per esempio sostituire un indicatore troppo generico con uno oggettivo – sono “non vincolanti“. La Madia in compenso ha affidato agli Oiv anche il compito di stabilire come il giudizio dei cittadini sui servizi pubblici, espresso attraverso “sistemi di rilevamento della soddisfazione”, contribuirà alla valutazione.
Ai premi di risultato vanno le briciole: "500-600 euro all'anno".
L’altra faccia del cambiamento all’insegna della meritocrazia avrebbero dovuto essere i premi alla produttività differenziati e non a pioggia. Ma la distribuzione dei premi dipende dalle valutazioni troppo discrezionali di cui sopra. In più, se il principio di base è giusto, le cifre in ballo sono davvero piccole. “Ci sono eccezioni, ma in media parliamo di 500-600 euro l’anno“, quantifica Barbieri. “Per i dipendenti degli enti locali la parte accessoria del salario può arrivare a 4mila euro annui su un totale di 29mila”, aggiunge Oliveri. “Ma attenzione, nella parte accessoria sono compresi anche straordinari e indennità per i turni e le reperibilità”. E l’ultimo decreto Madia si limita a stabilire che a premiare la performance vada la “quota prevalente” di questa fetta, esattamente come prevedeva il decreto Brunetta. La vera differenza rispetto alla norma del 2009 è che viene meno l’obbligo di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito azzerando del tutto i premi per quelli che finiscono nella più bassa. Ma quel che più ha fatto storcere il naso ai giuristi è che la riforma del pubblico impiego, oltre a sancire che per gli statali continuano a valere le tutele dell’articolo 18, dice esplicitamente che la contrattazione nazionale potrà derogare alle disposizioni di legge, regolamento o statuto sul lavoro nella pa. E sempre alle complicate intese tra Stato (attraverso l’agenzia Aran) e sindacati, che nei prossimi mesi dovranno trovare la quadra sul rinnovo dei contratti congelati dal 2010, è demandato il capitolo delle progressioni economiche.
Non passa la riforma della dirigenza: addio ruolo unico.
Sui dirigenti statali, i veri inamovibili della Repubblica, è andata anche peggio. Una débâcle totale. “C’era nell’amministrazione pubblica una perversione che arrivava a costruire degli intoccabili che crescevano sempre di più. C’era chi diceva che erano intoccabili perché senza di loro crollava il ministero. Ma nessuno deve essere insostituibile”, ragionava la Madia nel settembre 2015, annunciando l’arrivo di un decreto attuativo che avrebbe scardinato il sistema attraverso il ruolo unico e il licenziamento per i grand commispubblici che, persa una poltrona, rimanessero per diversi anni senza incarico. Nell’agosto 2016, dopo un rinvio dovuto alle resistenze dei boiardi di Stato e a pochi giorni dalla scadenza della delega, il testo è arrivato. Ma a novembre la Consulta ha bocciato il provvedimento, insieme ad altri tre, perché varato con il solo “parere“della Conferenza Stato-Regioni invece della necessaria intesa. A quel punto la delega era scaduta e addio decreto (peraltro già demolito dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi sistemi di valutazione). Tripudio del sindacato dei dirigenti pubblici, che avevano gridato allo scandalo sostenendo che l’intenzione del governo era evidentemente quella di “distruggere i servitori dello Stato nonché “annichilireasserviresottomettere la dirigenza pubblica”. “E’ stato un vero un peccato”, è invece il giudizio di Marta Barbieri. “Potenziare la classe dirigente pubblica è un obiettivo in cui hanno investito tutti i Paesi Ocse”. Oliveri fa però notare che il decreto era a rischio incostituzionalità, perché di fatto avrebbe trasformato dirigenti a tempo indeterminato in “lavoratori a chiamata”. Quanto alla licenziabilità, sulla carta c’è: la riforma del 2009 la prevede come extrema ratio nei casi di “mancato raggiungimento degli obiettivi” o “inosservanza delle direttive”.
La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose".
“Non un euro delle risorse pubbliche, delle tasse pagate dai cittadini, deve andare sprecato. Per questo aggrediamo gli enti inutili e resteranno solo le partecipate pubbliche che servono, mentre saranno eliminate quelle che sono state utilizzate come un ammortizzatore sociale e non per dare risposte ai cittadini”. Parola di Marianna Madia, il 3 agosto 2015. Quello sulle partecipate è stato l’ultimo decreto attuativo della riforma approvato in consiglio dei ministri, nella versione corretta dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Una versione talmente piena di cavilli e scappatoie che Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review autore nel 2014 di un dettagliato piano di riforma delle aziende pubbliche, fino al prossimo autunno direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, opta per un “no comment”. A depotenziare la norma, peraltro, sono non tanto le deroghe – non solo il presidente del Consiglio ma pure tutti i governatori regionali potranno decidere a piacimento quali società “salvare” dalla stretta – quanto i parametri stessi con cui selezionare le partecipate da chiudere. Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, ha scritto su Repubblica che “una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete basandosi su tre semplici principi: un limite alle attività gestibili in forma societaria”, per esempio non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali perché può occuparsene direttamente l’ente locale, “un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali (…) e cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali”.
Invece “la riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento”. Sull’amministratore unico, che nella prima versione era un obbligo, deciderà l’assemblea dei soci, che “con delibera motivata” potrà optare per un consiglio formato da 3 o 5 membri. Anche se la società è piccolissima. Dovranno poi essere chiuse le aziende con più amministratori che dipendenti, ma la soglia minima di fatturato necessaria per scampare alla tagliola è stata dimezzata, da 1 milione a 500mila euro, fino al 2020. E ancora: vanno chiuse le partecipate che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci, ma sono escluse le società che gestiscono case da gioco. I casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia, Sanremo e Venezia sono salvi. E le cinque fasce in cui andranno graduati i compensi, principio chiave secondo Perotti? Non pervenute. Bisogna aspettare ottobre.