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giovedì 6 agosto 2020

Stop licenziamenti: il governo diviso vara la “mezza proroga”. - Marco Palombi

Stop licenziamenti: il governo diviso vara la “mezza proroga”

Il Consiglio dei ministri era ufficiosamente convocato per stasera, ma non è detto che si tenga: le trattative nella maggioranza attorno al cosiddetto “decreto Agosto” non sono affatto terminate. La questione che divide di più (tra loro e al loro interno) i partiti che sostengono il governo Conte è la proroga del blocco dei licenziamenti da affiancare al prolungamento per altre 18 settimane della Cassa integrazione “Covid-19”: la ratio del provvedimento è tenere bloccata la situazione fin quando l’economia non sarà ripartita del tutto, presumibilmente all’inizio dell’anno prossimo. Venendo alle squadre in campo: M5S, LeU e un pezzo del Pd sono a favore della proroga, il resto dei dem (maggioranza in Parlamento e al governo) e i renziani sono contrari. Mentre andiamo in stampa, è in corso l’ennesimo vertice giallorosa sul decreto.
Il problema è che ormai sull’impossibilità di cacciare i lavoratori dalla sera alla mattina s’è scatenata una campagna a metà tra l’ideologico e l’interessato che vede, ovviamente, in prima fila Confindustria. Citeremo, a titolo di esempio, solo il parere dell’economista Tito Boeri, che ieri su Repubblica ha sostenuto – nominando en passant la “Nord Corea” – che il blocco dei licenziamenti blocca in realtà le nuove assunzioni perché gli imprenditori non sanno se potranno licenziare e quando: può essere che sia così, anche se la gelata piovuta sull’economia non induce all’ottimismo su futuribili aumenti degli organici, oppure che in molti finiscano per licenziare i costosi e rigidi vecchi contratti per assumere, con calma, dipendenti più giovani, meno pagati e sacrificabili a prezzi modici (vedi la modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del Jobs Act). In sostanza, tante ristrutturazioni aziendali pagate dai redditi da lavoro e dalla fiscalità generale via sussidi.
Come che sia, questa spaccatura politica e sociale si riflette anche nel governo producendo bizzarri cortocircuiti. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo (M5S) martedì sera ha garantito ai sindacati la proroga del blocco dei licenziamenti fino al 31 dicembre, negli stessi minuti veniva prodotta una bozza del decreto in cui, col guizzo dell’artista, la proroga rimaneva, ma a metà: una sorta di compromesso che, tecnicamente, allunga il blocco al 15 ottobre e poi fino al 31 dicembre, come da proposta delle imprese, ma solo per chi usufruisce della Cassa “Covid-19”.
D’altronde è ora – ha scritto ieri il viceministro dell’Economia dem, Antonio Misiani, – di iniziare “il percorso di fuoriuscita dall’emergenza”, di “nuova normalità” anche quanto alla tutela dei lavoratori. E la mezza proroga, dicono, è farina del sacco del Tesoro, benedetta da Roberto Gualtieri. L’ex sindacalista Guglielmo Epifani, deputato di LeU, non pare però convinto dal ragionamento: “Preoccupano le notizie che vorrebbero limitare il blocco dei licenziamenti solo fino alla metà di ottobre, altre erano state le dichiarazioni delle settimane scorse: il blocco va allungato fino alla fine dell’anno”.
Silenziosi i partiti, è toccato alle parti sociali impugnare la clava. Cgil, Cisl e Uil – dopo le rassicurazioni di Catalfo – non hanno preso bene la novità: “Se il governo non prorogasse il blocco dei licenziamenti sino a fine 2020, si assumerebbe tutta la responsabilità del rischio di uno scontro sociale” fino all’ipotesi che l’iniziativa unitaria già convocata per il 18 settembre si trasformi “in uno sciopero generale”.
Confindustria, in serata, vaticinava catastrofi: “Se l’esecutivo intende ancora protrarre il divieto dei licenziamenti, il costo per lo Stato sarà pesante” visto che “il divieto per legge assunto in Italia – unico tra i grandi paesi avanzati – non ha più ragione di essere ora che bisogna progettare la ripresa”. Quel divieto “impedisce ristrutturazioni d’impresa (corsivo nostro, ndr), investimenti e di conseguenza nuova occupazione. Pietrifica l’intera economia allo stato del lockdown”. Guai, nel caso, a pensare di mettere paletti sulla cassa integrazione ai “furbetti”, cioè a chi ne ha usufruito pur non avendo avuto cali di fatturato: “Sarebbero inaccettabili”.
Tra i litiganti sta, fino a notte silenzioso, il governo: la trattativa continua. “Nodo politico”, c’è scritto nella bozza.

martedì 3 dicembre 2019

Unicredit, piano taglia 8.000 dipendenti e 500 filiali.


Il palazzo dell'Unicredit a Milano (ansa)

Unicredit ridurrà il personale di circa 8.000 unità nell'arco del piano 2020-2023 mentre l'ottimizzazione della rete di filiali porterà alla chiusura di circa 500 sportelli. Lo si legge in una nota della banca.

Gli 8.000 tagli del personale Unicredit si concentreranno soprattutto in Italia, Germania e Austria, dove il personale verrà ridotto complessivamente del 12% e verrà chiuso il 17%  delle filiali. Il nostro Paese appare destinato a sostenere la parte più consistente degli esuberi: degli 1,4 miliardi di euro di costi di integrazione stimati per la loro gestione, infatti, 1,1 miliardi riguarderanno l'Italia (pari al 78% del totale) e solo 0,3 miliardi l'Austria e la Germania. Lo si legge nelle slide sul piano strategico.

Unicredit punta a creare 16 miliardi di valore per gli azionisti nell'arco del piano 2020-2023 e aumentare al 40 per cento la distribuzione di capitale per il 2019.

Il piano strategico di Unicredit prevede di realizzare un utile di 5 miliardi di euro nel 2023, con una crescita aggregata dell'utile per azione di circa il 12% nel periodo 2018-2023. Il ritorno sul capitale tangibile (rote) sarà "pari o al di sopra dell'8%" per tutto il piano, si legge in una nota.

"Preferiamo il buyback alle fusioni e solo piccole acquisizioni bolt-on", cioè che integrano le attività della banca, "saranno prese in considerazione". Lo dice il ceo di Unicredit, Jean Pierre Mustier nella call con le agenzie.

'Pensiamo che in certi settori sia importante raggiungere una massa critica, in questi campi la nostra strategia è di lavorare con dei partner piuttosto che di fare da soli". Lo sottolinea il ceo di UniCredit, Jean Pierre Mustier, nella call con l'agenzie ad una domanda su quale sia la strategia del gruppo sulla bancassurance. "Il contesto regolamentare è favorevole per le banche grazie al Danish compromise, ma probabilmente non durerà per sempre" e per questo "non vogliamo prenderci rischi sul fronte regolamentare", sottolinea Mustier.


http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2019/12/03/unicredit-piano-taglia-8.000-dipendenti-e-500-filiali_c5f703d9-d314-4066-bd75-0bd4768c7223.html

In un mondo in cui si taglia sul valore di un'azienda per rimpinguare le tasche degli azionisti, non c'è molto da sperare.

martedì 24 settembre 2019

Thomas Cook, salta l'accordo sul salvataggio: dichiarata la bancarotta.

Thomas Cook, salta l'accordo sul salvataggio: dichiarata la bancarotta

A rischio 22 mila posti di lavoro nel mondo e 9 mila nel Regno Unito. Oltre mezzo milione di viaggiatori da riportare a casa: il rimpatrio dei soli cittadini britannici potrebbe costare fino a 600 milioni di sterline.

MILANO - Dopo 178 anni di storia il colosso dei viaggi britannico Thomas Cook alza bandiera bianca. Nella notte sono saltate le trattative con i creditori e la compagnia ha dichiarato bancarotta annunciando con una nota che "sono cancellati tutti i futuri voli e le future vacanze".

Mezzo milione di turisti in viaggio.
Il collasso della società mette a rischio sia 22.000 posti di lavoro a livello globale, di cui 9.000 in Gran Bretagna, ma anche il ritorno a casa dei 150 mila vacanzieri britannici che avevano prenotato il volo  con Thomas Cook e che ora vedono a rischio il proprio rientro, in quella che la Bbc definisce come "la più grande operazione di rimpatrio in tempi di pace". Un'operazione che secondo le prime stime potrebbe costare fino a 600 milione di sterline, finanziata attraverso il fondo di garanzia Atol, il sistema di protezione amministrato dall'ente dell'aviazione civile britannico e finanziato dalle industrie del settore. Secondo il Financial Times però oltre ai 150 mila britannici ci sarebbero altri 350 mila viaggiatori stranieri all'estero e il numero complessivo di persone da riportare a casa potrebbe raggiungere il mezzo milione.

Le accuse di Johnson ai manager.
Sulla questione è intervenuto anche il premier britannico Boris Johnson. "C'è da chiedersi quanto i dirigenti di queste società fossero adeguatamente incentivati a risolvere i loro problemi", ha detto criticando i manager dell'azienda. "E' una situazione molto difficile e ovviamente i nostri pensieri sono rivolti ai clienti di Thomas Cook, i vacanzieri che ora potrebbero avere difficoltà a tornare a casa. Faremo del nostro meglio per riportarli a casa", ha aggiunto. "In un modo o nell'altro lo Stato dovrà intervenire per aiutare i vacanzieri bloccati ".

Lo stop ai nuovi finanziamenti.
L'azienda -  il cui principale azionista è la cinese Fosun Tourism Group - non è riuscita a a raccogliere gli ulteriori finanziamenti per 200 milioni di sterline che servivano per evitare il collasso.  Fosun il mese scorso aveva già iniettato 450 milioni di sterline nella società all'interno di un pacchetto di salvataggio di 900 milioni di sterline. In cambio di quell'investimento Fosun aveva acquisito una quota del 75% della divisione operativa di Thomas Cook e un 25% della sua compagnia aerea. "Fosun - si legge in un altro comunicato - è delusa del fatto che Thomas Cook non sia riuscita a trovare una soluzione per la sua ricapitalizzazione con altre entità, i suoi creditori core e gli azionisti senior".

Guai finanziari, nuove abitudini e Brexit: le origini dela crisi.
Il crollo della compagnia non arriva però come un fulmine a ciel sereno. A maggio Thomas Cook aveva messo in evidenza nei propri conti trimestrali una perdita da 1,45 miliardi di sterline, a causa soprattutto della svalutazione di MyTravel, con cui si era fusa nel 2017, costata da sola quasi 1 miliardo. Inoltre un report di Citigroup negli stessi giorni aveva consigliato di vendere il titolo fissando un target di prezzo a zero.

Guai finanziari a parte, l'azienda ha in generale accusato la sempre maggiore propensione dei viaggiatori ad organizzare autonomamemente le proprie vacanze, facendo così meno ricorso ai tour operator. Come se non bastasse, su Thomas Cook si è abbattuta anche l'incognita Brexit. "Non c'è ormai alcun dubbio che abbia spinto molti clienti britannici a rinviare i piani per le loro vacanze", si era difeso il ceo Peter Frankahauser a maggio, rilevando di avere venduto soltanto il 57% dei pacchetti di viaggio per l'estate 2019, con un calo del 12% sull'anno precedente.

https://www.repubblica.it/economia/2019/09/23/news/thomas_cook_salta_l_accordo_sul_salvataggio_dichiarata_la_bancarotta-236703370/

giovedì 13 luglio 2017

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse. - Chiara Brusini

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse

E' il settimo intervento "rivoluzionario" di riordino della pubblica amministrazione nell'arco di 24 anni. E doveva essere un fiore all'occhiello del governo Renzi. Ma i furbetti del cartellino erano licenziabili anche prima, i sistemi di valutazione dei risultati rimangono discrezionali, il ruolo unico per la dirigenza è saltato e la sforbiciata alle aziende pubbliche è depotenziata. L'economista: "Sullo sfondo resta una logica di forte influenza della politica".

I furbetti del cartellino potranno essere licenziati, certo. Come prevede fin dal 2009 la riforma Brunetta nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza”. Le partecipate dello Stato invece resteranno migliaia, perché la stretta annunciata da Matteo Renzi all’arrivo a Palazzo Chigi si è concretizzata in paletti larghissimi con numerose deroghe. E i 36mila dirigenti pubblici non saranno affatto costretti a cambiare poltrona ogni 4 anni in modo da “scardinare il meccanismo” per cui “troppe persone per troppo tempo gestiscono un potere“, come aveva promesso Marianna Madia: il decreto sul ruolo unico è saltato. A quasi due anni dal varo del disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione, la ministra ha dichiarato chiuso il cantiere di quello che doveva essere uno dei fiori all’occhiello del governo del leader Pd, “la riforma da cui dipendono le altre”. Ma, al netto del fatto che in realtà manca ancora all’appello il decreto correttivo sui dirigenti sanitari, l’obiettivo di rivoltare come un calzino la macchina della burocrazia per “avere servizi di maggiore qualità e fare pagare meno tasse ai cittadini” dovrà attendere ancora.
La settima “rivoluzione” in 24 anni – Quello firmato dalla Madia, rimasta alla guida del ministero nonostante lo scandalo della tesi di dottorato plagiata, è il settimo intervento di riordino della pa annunciato come rivoluzionario nell’arco degli ultimi 24 anni. Questo se non si vogliono contare pure le (anch’esse rivoluzionarie) norme sulla mobilità degli statali volute nel 1988 dall’allora ministro della Funzione pubblica Paolo Cirino Pomicino. Ma secondo Veronica De Romanis, per 12 anni membro del Consiglio degli esperti del Tesoro, oggi docente di Politica economica europea nella sede fiorentina della Stanford University e alla Luiss, l’esito anche in questo caso lascia a desiderare. “Renzi ha puntato molto sugli slogan, a partire dalla battaglia contro i furbetti del cartellino”, sintetizza. “Ma, piuttosto che iniziare dalle sanzioni contro quelli che non lavorano, meglio sarebbe stato concentrarsi su chi è preposto a verificare il loro lavoro, per migliorare l’efficienza dei servizi per i cittadini. Inoltre nella riforma non sono stati fissati obiettivi quantitativi. La Madia ha addirittura rivendicato di non sapere quanti risparmi avrebbe portato la riforma e di essere contenta di non saperlo, perché secondo lei la spending review è “un risultato, non un punto di partenza”. Invece la programmazione è fondamentale”. Sullo sfondo, poi, “resta immutata la logica di grande influenza della politica sulla pubblica amministrazione”. Cosa che con l’efficienza tende a fare a pugni. Ma, in attesa di vedere come funzionerà in concreto, sono almeno cinque – dai licenziamenti al “disboscamento” delle partecipate – i punti rispetto ai quali la riforma già sulla carta non mantiene le promesse. 
Sui licenziamenti nulla di nuovo rispetto alla riforma Brunetta.
Lotta ai furbetti e licenziamenti rapidi sono stati tra gli aspetti della riforma più decantati da Renzi. Ma secondo Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona e collaboratore de lavoce.info su questi temi, l’attuazione è all’acqua di rose. “Per cambiare davvero qualcosa servirebbero regole operative: quali sono concretamente i parametri in base ai quali gli statali vanno valutati? Con quali tecnologie si può combattere in modo efficace l’assenteismo? Invece ci si limita a intervenire su aspetti formali. Così gli obiettivi restano fumosi, non ci sono standard oggettivi”. E i “licenziamenti in 48 ore” dei furbetti del cartellino? “Il termine di 48 ore vale solo per la sospensione di chi viene colto in flagranza. Per i licenziamenti cambia in realtà pochissimo rispetto alle norme scritte da Brunetta: non a caso il Comune di Sanremo l’anno scorso ha licenziato 32 assenteisti (tra cui il famigerato vigile che timbrava il cartellino in mutande, ndr) appellandosi alla vecchia legge. Sul fronte dei provvedimenti minori, come il rimprovero scritto o la multa pari a 4 ore di retribuzione, c’è invece un paradosso: nell’ultima versione del decreto Madia il tempo massimo per concludere l’azione disciplinare è fissato in 120 giorni, il doppio rispetto a quanto era previsto finora”. Per quanto riguarda i licenziamenti dopo tre “pagelle” negative di fila, celebrati come il trionfo della meritocrazia, il decreto Brunetta già sanciva che gli statali fossero lasciati a casa a fronte di “una valutazione di insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa” nell’arco di almeno un biennio.
Obiettivi fumosi e organismi di valutazione nominati dalla politica.
Il vero nodo, però, sta proprio nelle valutazioni: il decreto attuativo “non entra nel dettaglio, lascia all’autonomia delle singole amministrazioni il compito di definirsi il sistema valutativo”, sottolinea Marta Barbieri, docente di Public management and policy alla Scuola di direzione aziendale (Sda) della Bocconi. “Bene sottolineare la rilevanza della performance organizzativa, oltre che di quella individuale, però resta il dubbio su cosa si intenda con questo. Per valutare positivamente le politiche per il lavoro, per esempio, basterà verificare di aver svolto le attività previste o si dovrà guardare come è variato il tasso di occupazione?”. E tener conto dei giudizi di soggetti terzi rimane solo un consiglio. Per quanto riguarda la performance individuale, negli altri Paesi funziona diversamente: “Il numero di obiettivi, le scale di valutazione relative e l’individuazione di pesi variano, ma sono in generale disciplinati nel dettaglio“, si legge nel white paper sui Sistemi di selezione e valutazione dei dirigenti pubblici in Europa, pubblicato lo scorso anno in una collana della Sda Bocconi. In Irlanda, Lettonia, Polonia, Portogallo e Regno Unito, in particolare, ci sono schede di valutazione standard in cui indicare obiettivi, indicatori e risultati conseguiti e comportamenti. “Da noi invece”, spiega Barbieri, “a validare le relazioni sulle performance sono gli Organismi indipendenti di valutazione“. Che però sono nominati, previa selezione pubblica, dalla politica. E che ad oggi non validano ex ante i piani della performance. Inoltre le richieste all’ente che affiancano nel monitoraggio – per esempio sostituire un indicatore troppo generico con uno oggettivo – sono “non vincolanti“. La Madia in compenso ha affidato agli Oiv anche il compito di stabilire come il giudizio dei cittadini sui servizi pubblici, espresso attraverso “sistemi di rilevamento della soddisfazione”, contribuirà alla valutazione.
Ai premi di risultato vanno le briciole: "500-600 euro all'anno".
L’altra faccia del cambiamento all’insegna della meritocrazia avrebbero dovuto essere i premi alla produttività differenziati e non a pioggia. Ma la distribuzione dei premi dipende dalle valutazioni troppo discrezionali di cui sopra. In più, se il principio di base è giusto, le cifre in ballo sono davvero piccole. “Ci sono eccezioni, ma in media parliamo di 500-600 euro l’anno“, quantifica Barbieri. “Per i dipendenti degli enti locali la parte accessoria del salario può arrivare a 4mila euro annui su un totale di 29mila”, aggiunge Oliveri. “Ma attenzione, nella parte accessoria sono compresi anche straordinari e indennità per i turni e le reperibilità”. E l’ultimo decreto Madia si limita a stabilire che a premiare la performance vada la “quota prevalente” di questa fetta, esattamente come prevedeva il decreto Brunetta. La vera differenza rispetto alla norma del 2009 è che viene meno l’obbligo di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito azzerando del tutto i premi per quelli che finiscono nella più bassa. Ma quel che più ha fatto storcere il naso ai giuristi è che la riforma del pubblico impiego, oltre a sancire che per gli statali continuano a valere le tutele dell’articolo 18, dice esplicitamente che la contrattazione nazionale potrà derogare alle disposizioni di legge, regolamento o statuto sul lavoro nella pa. E sempre alle complicate intese tra Stato (attraverso l’agenzia Aran) e sindacati, che nei prossimi mesi dovranno trovare la quadra sul rinnovo dei contratti congelati dal 2010, è demandato il capitolo delle progressioni economiche.
Non passa la riforma della dirigenza: addio ruolo unico.
Sui dirigenti statali, i veri inamovibili della Repubblica, è andata anche peggio. Una débâcle totale. “C’era nell’amministrazione pubblica una perversione che arrivava a costruire degli intoccabili che crescevano sempre di più. C’era chi diceva che erano intoccabili perché senza di loro crollava il ministero. Ma nessuno deve essere insostituibile”, ragionava la Madia nel settembre 2015, annunciando l’arrivo di un decreto attuativo che avrebbe scardinato il sistema attraverso il ruolo unico e il licenziamento per i grand commispubblici che, persa una poltrona, rimanessero per diversi anni senza incarico. Nell’agosto 2016, dopo un rinvio dovuto alle resistenze dei boiardi di Stato e a pochi giorni dalla scadenza della delega, il testo è arrivato. Ma a novembre la Consulta ha bocciato il provvedimento, insieme ad altri tre, perché varato con il solo “parere“della Conferenza Stato-Regioni invece della necessaria intesa. A quel punto la delega era scaduta e addio decreto (peraltro già demolito dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi sistemi di valutazione). Tripudio del sindacato dei dirigenti pubblici, che avevano gridato allo scandalo sostenendo che l’intenzione del governo era evidentemente quella di “distruggere i servitori dello Stato nonché “annichilireasserviresottomettere la dirigenza pubblica”. “E’ stato un vero un peccato”, è invece il giudizio di Marta Barbieri. “Potenziare la classe dirigente pubblica è un obiettivo in cui hanno investito tutti i Paesi Ocse”. Oliveri fa però notare che il decreto era a rischio incostituzionalità, perché di fatto avrebbe trasformato dirigenti a tempo indeterminato in “lavoratori a chiamata”. Quanto alla licenziabilità, sulla carta c’è: la riforma del 2009 la prevede come extrema ratio nei casi di “mancato raggiungimento degli obiettivi” o “inosservanza delle direttive”.
La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose".
“Non un euro delle risorse pubbliche, delle tasse pagate dai cittadini, deve andare sprecato. Per questo aggrediamo gli enti inutili e resteranno solo le partecipate pubbliche che servono, mentre saranno eliminate quelle che sono state utilizzate come un ammortizzatore sociale e non per dare risposte ai cittadini”. Parola di Marianna Madia, il 3 agosto 2015. Quello sulle partecipate è stato l’ultimo decreto attuativo della riforma approvato in consiglio dei ministri, nella versione corretta dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Una versione talmente piena di cavilli e scappatoie che Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review autore nel 2014 di un dettagliato piano di riforma delle aziende pubbliche, fino al prossimo autunno direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, opta per un “no comment”. A depotenziare la norma, peraltro, sono non tanto le deroghe – non solo il presidente del Consiglio ma pure tutti i governatori regionali potranno decidere a piacimento quali società “salvare” dalla stretta – quanto i parametri stessi con cui selezionare le partecipate da chiudere. Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, ha scritto su Repubblica che “una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete basandosi su tre semplici principi: un limite alle attività gestibili in forma societaria”, per esempio non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali perché può occuparsene direttamente l’ente locale, “un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali (…) e cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali”.
Invece “la riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento”. Sull’amministratore unico, che nella prima versione era un obbligo, deciderà l’assemblea dei soci, che “con delibera motivata” potrà optare per un consiglio formato da 3 o 5 membri. Anche se la società è piccolissima. Dovranno poi essere chiuse le aziende con più amministratori che dipendenti, ma la soglia minima di fatturato necessaria per scampare alla tagliola è stata dimezzata, da 1 milione a 500mila euro, fino al 2020. E ancora: vanno chiuse le partecipate che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci, ma sono escluse le società che gestiscono case da gioco. I casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia, Sanremo e Venezia sono salvi. E le cinque fasce in cui andranno graduati i compensi, principio chiave secondo Perotti? Non pervenute. Bisogna aspettare ottobre.

venerdì 21 ottobre 2016

Passante ferroviario, rischio incompiuta: "Sis chiude in cantiere, 250 licenziamenti"

Passante ferroviario, rischio incompiuta: "Sis chiude in cantiere, 250 licenziamenti"
Il cantiere di via Notarbartolo - foto Giuseppe Campagna, Ferrovie Siciliane.

Passante ferroviario, rischio incompiuta: "Sis chiude in cantiere, 250 licenziamenti"
Chiude il cantiere del passante ferroviario, con 110 milioni di opere ancora da eseguire. Saranno licenziati tutti i lavoratori. Lo ha comunicato oggi la Sis ai sindacati. Duecentocinquanta operai erano stati mandati a casa a luglio: adesso perderanno il lavoro altri 250 lavoratori. Si prospetta un'altra grande incompiuta per la città di Palermo. I segretari provinciali di Feneal Filca Fillea sono stati convocati stamattina dal direttore della Sis, l'ingegnere Massimiliano Colucci, che ha di fatto annunciato che il cantiere verrà chiuso in quanto l'azienda non è nelle condizioni di andare avanti, perché in “gravi condizioni economiche”.
Lanciano un grido di forte allarme i sindacati: rischia di restare monca un'opera pubblica da 700 milioni di euro, tre volte il valore del tram, che avrebbe dovuto modificare con i suoi 37 chiloimetri e le sue tre tratte il volto della mobilità urbana assieme al tram, aggiungendo i vantaggi della metropolitana leggera, in stretta correlazione con i lavori dell’anello ferroviario. Assieme a Feneal, Filca e Fillea, che si oppongono allo stop e all'allargamento della platea dei licenziati, protestano i segretari di Cgil, Cisl e Uil. “Abbiamo scritto al prefetto di Palermo per aprire con urgenza un tavolo di confronto con Ferrovie, con la Sis, con il Comune di Palermo e con noi organizzazioni sindacali per affrontare la vertenza. Chiediamo di essere ascoltati al più presto”, dichiarano i segretari di Feneal Filca e Fillea, Ignazio BaudoAntonino Cirivello e Francesco Piastra, e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Enzo Campo, Daniela De Luca e Claudio Barone.
La Sis nei giorni scorsi alle segreterie provinciali aveva preannunciato di voler ampliare i licenziamenti già scattati nel luglio scorso, quando però si era trattato di esuberi reali, giustificati da uno stato di avanzamento dei lavori del 70 per cento. Adesso a perdere il lavoro sono tutti gli operai del cantiere, 500 su 530. In pratica la totalità: rimarrebbero all'opera solo gli addetti alla sicurezza. “Secondo l'azienda la commessa è in forte perdita, da qui la possibilità che la Sis apra un contenzioso con la Rfi su aspetti tecnici e finanziari dell'opera non esplicitati al tavolo. Noi ci siamo opposti ad allargare i licenziamenti a tutti i lavoratori del cantiere in quanto non sussistono le motivazioni – aggiungono i sindacati degli edili e i confederali -. Dal nostro punto di vista e secondo il cronoprogramma che c'era stato consegnato dalla stessa Sis, l'opera si sarebbe dovuta concludere entro il giugno 2018 e quindi l'attuale forza lavoro è congrua alle attività da svolgere. Richiamiamo al senso di responsabilità sia l' azienda sia Rfi, perché l'opera si definisca. La città di Palermo non può subire un ennesimo arresto di un'opera pubblica così importante dal punto d vista occupazionale e non può sopportare i rischi legati a una nuova incompiuta, che insiste in modo così invasivo sulla città, anche per l’impatto che ha per la mobilità”.
Il passante ferroviario parte da Brancaccio e arriva a Carini. E' stato completato l'80 per cento dei lavori. A dicembre era prevista la consegna della galleria di via Belgio. La tratta tra Belgio a Isola è interrotta e ciò preclude ancora il transito dei treni da Palermo a Trapani. La galleria Imeria bloccata è un altro tassello mancante. E poi c'è la tratta B, dal valore di 83 milioni su 110 milioni di opere complessive ancora da completare. Per realizzare la galleria della tratta B, alla stazione Notarbartolo, è stata acquistata una “talpa”, un macchinario da 10 milioni di euro, consegnato, collaudato ma ancora mai entrato in funzione. Martedì 25 dalle 7 alle 9 si terrà al cantiere della Sis un'assemblea sindacale e saranno discusse le iniziative da prendere. 
"Questa vicenda - commenta il sindaco Leoluca Orlando - è estremamente grave per le ripercussioni che può avere sulla vita della città. Si tratta, infatti,di un cantiere importantissimo per la mobilità futura e per la vivibilità odierna, con attuali gravi disagi alla cittadinanza e possibili gravi ripercussioni occupazionali. Anche se, formalmente, la vicenda attiene esclusivamente al rapporto fra Rfi, ente appaltante, e Sis, impresa esecutrice dei lavori, l'attenzione del Comune è massima e per questo crediamo sia necessario un intervento ai massimi livelli, con un interessamento del Governo nazionale e in particolare del Ministro per le Infrastrutture, Graziano Delrio. In prima istanza, anche per dare subito un segnale di attenzione forte da parte delle Istituzioni, non possiamo che concordare con le Organizzazioni sindacali nel chiedere un tavolo di confronto, sotto l'egida della Prefettura, al quale siamo ovviamente interessati e disponibili a partecipare. Il passante ferroviario costituisce, per la città di Palermo, un'opera di importanza strategica e non più differibile".

http://www.palermotoday.it/cronaca/passante-ferroviario-sis-chiude-cantiere.html

venerdì 10 ottobre 2014

Jobs act: Draghi, non causerà massicci licenziamenti. - Ciro De Luca

Il presidente della BCE, Mario Draghi. ANSA/CIRO DE LUCA (foto: ANSA)

Nell'area euro c'è bisogno di riforme strutturali. Lo afferma il presidente della Bce, Mario Draghi.  E sul Jobs Act spiega:  'Non credo'' che la riforma del lavoro in Italia si tradurrà in massicci licenziamenti. Lo afferma il presidente della Bce, Mario Draghi, sottolineando che l'Italia e' da anni in recessione e la disoccupazione e' gia' elevata, le aziende hanno gia' agito.  E aggiunge: ''Gli elettori devono mandare a casa i governi che non sono riusciti ad agire contro la disoccupazione''
Pronti a nuove misure se inflazione bassa . ''Come abbiamo detto diverse volte c'è l'impegno unanime a ulteriori misure non convenzionali per affrontare i rischi di un prolungato periodo di bassa inflazione. Significa che siamo pronti ad alterare la taglia e la composizione dei nostri interventi non convenzionali e del bilancio se necessario''.
La crescita potenziale è troppo bassa per ridurre la disoccupazione. Lo afferma il presidente della Bce, Mario Draghi, sottolineando che l'area euro deve aumentare il potenziale di crescita. ''Non vedo un'uscita dalla crisi - ha aggiunto -  a meno che non ci sia fiducia nel futuro potenziale delle nostre economie''. Lo afferma il presidente della Bce, Mario Draghi, sottolineando che gli sforzi della Bce a sostegno della domanda aggregata saranno più efficaci se accompagnati da politiche che sostengono l'offerta aggregata. C'e' bisogno di aumentare il potenziale di crescita''.
''Ho detto di recente - ha ricordato DRaghi - che per la politica monetaria ora i rischi di fare troppo poco superano quelli di fare troppo. Se vogliamo una crescita più forte e inclusiva, lo stesso vale per le riforme''. 
La politica non è un vincolo o una costrizione per la Bce, anche se ''è ovvio che i membri del consiglio di direttivo provengono da paesi diversi e hanno diversi background''. Lo afferma il presidente della Bce, Mario Draghi, intervenendo al Brookings Institute, sottolineando che la Bce ha avuto successo nel difendersi dalla politica.
'Senza riforme, non può esserci ripresa''. Lo ribadisce il presidente della Bce, Mario Draghi, sottolineando di essere consapevole di chi dice che le riforme si fanno meglio in tempi buoni. ''Troppo spesso le riforme sono state posticipate durante i tempi cattivi e poi dimenticate in tempi buoni. Non sono certo certo che ci saranno tempi molto buoni se non facciamo riforme ora. E questo perche' i problemi che ci troviamo ad affrontare in Europa non sono ciclici ma strutturali''. In Europa c'e' bisogno di investimenti nel digitale e nell'istruzione, piu' che investimenti infrastrutturali. Draghi ha sottolinato che la Bce si e' mossa in modo aggressivo e le sue decisioni hanno gia' avuto un impatto forte. 
Ci sono segnali sul fatto che la crescita sta perdendo slancio. Lo afferma Draghi assicurando che i tassi resteranno bassi per un periodo prolungato di tempo, precisa come l'inflazione salirà gradualmente verso il 2% entro il 2016.
''Mettere in dubbio lo spirito del contesto di governance fiscale sarebbe autolesionista'', auto distruttivo. Lo afferma il presidente Bce, sottolineando che ''i governi devono avere lo spazio di bilancio, e la sostenbilità delle finanze pubbliche non deve essere messa in dubbio''.
 I governi dell'area euro che non agiscono ''spariranno per sempre dalla scena politica perché non saranno rieletti''. 
http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2014/10/09/bce-draghi-riforme-strutturali-necessarie-_ee8fa5d3-83b4-4a87-b8b0-71a03c2a3785.html

Ne sono convinta anch'io, verranno licenziati solo quelli che non hanno la tessera del PD & co.

mercoledì 31 ottobre 2012

"Signorina, il mio badge non funziona" I licenziamenti brutali di Ubs a Londra. - Enrico Franceschini


"Signorina, il mio badge non funziona" I licenziamenti brutali di Ubs a Londra


Un centinaio di dipendenti del colosso bancario svizzero hanno scoperto di essere stati tagliati quando ieri, cercando di entrare al lavoro, si sono accorti che i loro tesserini non funzionavano più. L'istituto di credito si accinge a eliminare 10 mila posti, di cui 3mila soltanto nella capitale britannica.

LONDRA – “Scusi, signorina, non capisco perché ma il mio tesserino non funziona”. Uno dopo l’altro, un centinaio di dipendenti della Ubs, banca svizzera e uno dei giganti della finanza mondiale, si sono rivolti con queste parole, martedì mattina, alla receptionist all’ingresso della sede londinese della società. L’impiegata ha fatto una telefonata, un addetto alla sicurezza è apparso dal nulla e ha accompagnato uno alla volta i perplessi dipendenti della banca a un anonimo ufficio al quarto piano, dove ciascuno di loro ha appreso di essere diventato un ex-dipendente. Ad attenderli c’erano infatti uno scatolone con i loro effetti personali e una lettera che diceva più o meno: “Gentile collega, la tua presenza non è più richiesta. In attesa di ulteriori comunicazioni, ti preghiamo di non venire più in ufficio”. I licenziati, perché di questo in sostanza si tratta, sono andati al pub, cercando di annegare nella birra la brutta notizia.

E’ il ritorno della brutalità nella City, commenta il Times di Londra. Scene simili non si vedevano dal collasso della Lehman Brothers nel 2008, all’apice del crack finanziario globale che sconvolse il mondo. E forse una durezza simile non si era vista nemmeno allora: perlomeno ai dipendenti della Lehman licenziati in tronco fu permesso di riempirseli da soli, gli scatoloni con gli effetti personali da portare via per sgomberare l’ufficio. Il centinaio di banchieri e bancari che hanno perso l’impiego nel quartier generale della Ubs a Londra, del resto, sono solo l’avanguardia di un ben più ampio “bagno di sangue”, come lo definisce metaforicamente ilGuardian: la banca svizzera si accinge infatti a tagliare 10 mila posti di lavoro, di cui 3 mila soltanto nella capitale britannica, riducendo entro il 2015 da 64 mila a 54 mila il suo staff nel mondo.

“E’ una decisione difficile”, afferma Sergio Ermotti, il 52enne banchiere nato a Lugano diventato l’anno scorso amministratore delegato della Ubs con il compito di portare l’istituto di credito svizzero fuori dalla tempesta. Impresa non facile: la banca ha registrato perdite pari a oltre 1 miliardo e mezzo di euro nel trimestre terminato a settembre, è invischiata nello scandalo Libor dei tassi d’interesse truccati e uno dei suoi (ormai ex) broker dell’ufficio di Londra, il giovane Kweku Adoboli, è sotto processo per avere sottratto fraudolentemente un miliardo e 400 milioni di sterline sotto il naso dei suoi presunti controllori. “Tornano i giorni cupi” nella City, commenta un operatore della cittadella finanziaria londinese, che sperava di avere superato il peggio e voltato pagina, ma evidentemente non ha ancora finito di soffrire. Come hanno scoperto all’improvviso recandosi al lavoro un centinaio di dipendenti della Ubs, accorgendosi che il “pass” per superare i tornelli all’ingresso, per qualche strana ragione, non funzionava più. L’equivalente di un colpo alla schiena: così si “muore” oggi nel Miglio Quadrato più ricco della terra, prima ti sparano e poi ti spiegano perché.


http://www.repubblica.it/economia/2012/10/31/news/signorina_il_mio_badge_non_funziona_i_licenziamenti_brutali_di_ubs_a_londra-45648239/

sabato 22 settembre 2012

Ha chiuso il Center Gross del Centro Olimpo a Palermo. - Loredana Ales


centro-olimpo
Ha chiuso il Center Gross del Centro Olimpo a Palermo. A sorpresa i lavoratori e i consumatori hanno trovato i cancelli chiusi. L’ennesimo brutto colpo per il commercio palermitano che vive uno dei periodi più bui degli ultimi anni.
Per i lavoratori che da oggi non hanno più il posto di lavoro c’è ancora una piccola speranza. Così come é successo in passato per Grande Migliore continua la trattativa per l’acquisizione da parte di altre aziende di cui non si conoscono ancora i nomi e per la ricollocazione del personale e per la cassa integrazione in deroga.
Qualche giornio fa la Fisascat Cisl aveva avanzato in una nota all’azienda, la Center Gross Sicilia che gestisce i reparti di elettronica ed elettrodomestici (ex Euronics) e del Centro Olimpo, la proprosta di attuare i procedimenti di cassa integrazione in deroga per tutti gli operai, al momento 14 sarebbero coinvolti e di ricollocare i lavoratori presso le aziende che acquisiranno il centro commerciale.
“La proprosta, riferiscono i sindacati, è stata accolta”.Per la fine di settembre, si terrà, infatti, un incontro con vertici aziendali e i sindacati per la stipula dell’accordo.
“Accogliamo con molto piacere – dichiara a BlogSicilia Mimma Calabrò, segretario generale Fisascat Cisl Sicilia il fatto che l’azienda abbia preso atto di quanto qualche giorno fa avevamo ribadito in una nota, ovvero la possibilità di cassa integrazione e ricollocazione del personale. Gli ammortizzatori sociali in deroga sono di estrema importanza perché in questo modo si permette agli operai di rimanere legati all’azienda”.