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Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 26 settembre 2023
domenica 24 settembre 2023
NAPOLITANO È MORTO (MA IL VITALIZIO VIVE) - Andrea Battantier
martedì 16 febbraio 2021
Cassese & C. l’abbuffata dei super burocrati. - Carlo Di Foggia
Governi e ministri, è noto, vanno e vengono. Capi di gabinetto e alti burocrati restano e comandano, a volte fanno lunghi giri e poi ritornano. Qualche decina di grand commis – consiglieri di Stato, magistrati amministrativi, etc – che detengono un potere immenso. Sacerdoti di una religione laica che scrive e interpreta le leggi (comprese quelle che permettono di distaccarli fuori ruolo nei ministeri o nelle Authority, di cui poi giudicano gli atti). Il governo Draghi non fa eccezione. Anzi è anche il risultato di una delicata battaglia sotterranea che ha visto la capitolazione di Giuseppe Conte.
C’è un partito della burocrazia, il cui stratega – o almeno così lui prova ad accreditarsi – è il giurista Sabino Cassese, principe degli amministrativisti, già giudice della Consulta, ministro con Ciampi e voce ascoltatissima della maionese impazzita detta establishment italiano. Il nostro ha passato mesi a bombardare a mezzo stampa il governo Conte, considerato inadeguato a gestire la crisi e il Recovery Plan. Con la nascita del governo di Mario Draghi, con cui vanta ottimi rapporti, non si è tenuto: “È in linea con le mie aspettative”, ha esultato, auspicando che il neo esecutivo “non sia a termine”.
Tanta gioia magari si spiega anche con il ritorno al comando dei suoi numerosi allievi, una schiera nutrita con ottime entrature al Quirinale e tra i quali si contano Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) e Bernardo Giorgio Mattarella (figlio di Sergio) o avvocati di grido come Andrea Zoppini (e il suo rinomato studio). Una fitta rete di potere che può vantare oggi diverse posizioni chiave nei ministeri la neo-titolare della Giustizia, Marta Cartabia, vicina a Comunione e Liberazione, nonché giudice costituzionale negli anni in cui alla Consulta sedeva anche Cassese. Questo mondo – oggi in attrito con quel che resta della filiera andreottiana incarnata dal Gran Visir del berlusconismo Gianni Letta e dal faccendiere Luigi Bisignani, prova a tessere le file del gioco e sembra avere il sopravvento. Al punto che Cartabia viene perfino indicata tra i papabili futuri presidenti della Repubblica.
Conte non è estraneo alla macchina della giustizia amministrativa, è stato vicepresidente del Consiglio di presidenza dell’organo di autogoverno (il Cpga). Ai tempi del governo gialloverde, Cassese era stato anche prodigo di elogi (“sei meglio di Gentiloni”), ma dall’estate 2020 qualcosa è cambiato; è iniziato il bombardamento che oggi vede il suo esito vittorioso.
Il ritorno più clamoroso, in questo senso, è quello di Roberto Garofoli a Palazzo Chigi: arriva, in quota Quirinale, addirittura come sottosegretario alla Presidenza. Consigliere di Stato, nel Conte I fu costretto alle dimissioni da capo di gabinetto al Tesoro (arrivato con Padoan in quota Enrico Letta, fu confermato da Tria) su input dell’allora premier: il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, lo attaccò insieme ai “pezzi di merda” del ministero dell’Economia accusati da 5Stelle e Lega di sabotare il governo non facendo saltare fuori i soldi per il ddl Bilancio 2019. Tra i “pezzi di merda” c’era anche l’allora Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, neo ministro dell’Economia.
Oggi, stando alle indiscrezioni, dal repulisti di Cassese&Draghi si dovrebbe salvare (per ora) Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi: fedelissimo di Conte e bersaglio prediletto di Cassese nei suoi editoriali contro i Dpcm scritti “da chi meriterebbe di essere mandato in Siberia”, nel Palazzo si dice che debba la riconferma ai buoni uffici di Mattarella jr. Chi dovrebbe saltare è invece Ermanno De Francisco, l’uomo che Conte ha chiamato a capo dell’Ufficio legislativo a Palazzo Chigi, anche lui, come Chieppa, vicino al presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti, nominato al vertice di Palazzo Spada proprio da Conte.
Al suo posto dovrebbe arrivare un altro fedelissimo di Patroni Griffi, Carlo Deodato, giudice del Consiglio di Stato, già capo di gabinetto al ministero degli Affari europei con Paolo Savona, che seguì quando quest’ultimo fu dirottato alla presidenza della Consob (è stato segretario generale dell’Authority).
Vicino ad Andrea Zoppini – ha scritto con lui un Manuale di diritto civile edito da “Nel diritto”, casa editrice con fatturato milionario della moglie di Garofoli – è anche Giuseppe Chinè, che dovrebbe sostituire Luigi Carbone (anche lui consigliere di Stato in distacco) come capo di gabinetto al Mef: magistrato amministrativo (cresciuto alla scuola di Vincenzo Fortunato, potentissimo al Tesoro ai tempi di Tremonti e Monti), oggi capo della Procura federale della Figc, Chinè è stato capo di gabinetto di Beatrice Lorenzin alla Salute (governo Renzi) e al Miur con Marco Bussetti (in quota Lega nel governo Conte I).
Gradita a Giorgetti, ma anche al mondo dem, è la papabile nuova capo di gabinetto di Garofoli, Daria Perrotta: già capo segreteria del leghista quando era sottosegretario a Palazzo Chigi coi gialloverdi, ricoprì lo stesso ruolo con Maria Elena Boschi nell’esecutivo Gentiloni; oggi è consulente di Dario Franceschini al Mibact.
Al ministero dello Sviluppo, Giorgetti dovrebbe invece portarsi Paolo Visca, alto funzionario della Camera e capo di gabinetto di Matteo Salvini da vicepremier .
In quota Confindustria, ma vicina al finanziere-costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, al ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta dovrebbe arrivare l’ex dg di Viale dell’Astronomia, Marcella Panucci. Invece Gaetano Caputi, che fu direttore generale Consob ai tempi di Giuseppe Vegas, è in pole position per la stessa poltrona al ministero del Turismo del leghista Massimo Garavaglia.
domenica 14 febbraio 2021
Marta Cartabia, la professoressa vicina a Cl che Napolitano nominò alla Consulta: chi è la ministra della giustizia del governo Draghi. - Giuseppe Pipitone
La prima donna eletta presidente della Consulta è la nuova guardasigilli. Ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, vicina a Comunione e Liberazione e all'ex presidente della Repubblica, da tempo veniva accostata a ogni tipo di incarico istituzionale. Ora dovrà gestire riforme delicate come quella sulla giustizia civile - fondamentale per ottenere i fondi del Recovery - e penale, che già causarono la caduta dei governi Conte 1 e 2.
Da un paio d’anni la candidavano praticamente a qualsiasi cosa: presidente del consiglio dopo la caduta del governo gialloverde, guida dell’esecutivo tecnico che avrebbe dovuto condurre a elezioni dopo la caduta di quello giallorosso, capa dello Stato alla conclusione del mandato di Sergio Mattarella. Alla fine Marta Cartabia ha effettivamente trovato occupazione politica. Non sarà la prima donna a guidare un governo, non ancora almeno. Per il momento si dovrà accontentare di un ministero, seppur di peso come quello della Giustizia. Un dicastero delicato quello ereditato dal grillino Alfonso Bonafede e per il quale Mario Draghi ha deciso di affidarsi a una tecnica pura come l’ex presidente della Consulta. Una manovra che ricorda la nomina di Luciana Lamorgese agli Interni nel 2019. Scelta fatta per spoliticizzare il Viminale dopo l’ingombrante presenza di Matteo Salvini. In via Arenula, invece, è toccato alla prima donna eletta presidente della Consulta. Costituzionalista di rilievo internazionale e tecnica perfetta per ogni tipo di incarico politico. Va detto, però, che la giustizia penale e civile è un’altra cosa. E qualcuno già sostiene che come guardasigilli ci sarebbe stato bisogno di un tecnico più esperto di aule di tribunale che di stanze dell’università.
La giustizia che fa cadere i governi – Cartabia prende il posto di Bonafede, sovraesposto guardasigilli dei 5 stelle. Paga, sicuramente, le riforme (dalla Spazzacorrotti alla precrizione) che l’Europa chiede al nostro Paese da anni. Ma che ampie porzioni della politica italiana hanno sempre cercato di affossare. Non è un mistero, infatti, che gli ultimi due governi siano caduti proprio a causa della giustizia. Prima la Lega e poi Italia viva hanno staccato la spina ai due esecutivi di Giuseppe Conte per provare a neutralizzare le riforme dei processi, soprattutto quelli penali. Lo stesso Conte, dopo aver incassato la fiducia in Parlamento, si è dimesso alla vigilia della votazione della relazione sulla giustizia di Bonafede: il governo sarebbe sicuramente andato sotto. “Un voto contro Bonafede è un voto contro tutto il governo”, disse Luigi Di Maio: 48 ore dopo l’ormai ex presidente del consiglio andò al Quirinale per dimettersi. In venti giorni la crisi al buio aperta per colpa di Matteo Renzi ha imboccato una strada impronosticabile all’inizio. Dopo il fallimento del mandato esplorativo di Roberto Fico, Mattarella ha optato per un governo del presidente. E Draghi ha deciso di spoliticizzare i ministeri chiave, mettendoli in mano ai tecnici.
Le riforme in eredità – Fatto fuori Bonafede, però, restano le sue riforme. Che devono essere portate avanti. Durante le consultazioni Draghi ha citato tra le priorità quella sulla giustizia civile, che giace da circa un anno alla commissione giustizia del Senato. Alla Camera è invece ferma quella sul processo penale, che ha al suo interno il “lodo Conte” sulla riforma della prescrizione. Tutte leggi al momento bloccate e che il nuovo governo dovrà in qualche modo prendere in mano. Non si tratta di una libera scelta: la riforma per velocizzare i processi è necessaria per ottenere l’effettivo accesso ai fondi del Recovery. Senza considerare che secondo la bozza del piano del governo Conte ben 3 dei 209 miliardi sono destinati alle assunzioni per velocizzare i processi. È di tutto questo che dovrà occuparsi Cartabia, da anni considerata una riserva della Repubblica, costituzionalista di altissimo livello, ma lontana dalle logiche della giustizia penale.
Onida, gli Usa, Napolitano e Cl – Nata il 14 maggio del 1963 a San Giorgio su Legnano, nell’Alto milanese, ordinaria di diritto Costituzionale alla Bicocca e poi alla Bocconi, cresciuta alla cattedra di Valerio Onida, tra i suoi maestri la nuova guardasigilli può annoverare Joseph Weiler, direttore dello Straus Institute for Advanced Study in Law and Justice della New York University, una delle scuole di formazione giuridica più prestigiose del mondo, che Cartabia frequentò nel 2009. Weiler è un vecchio amico di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che nel 2014 gli conferirà la cittadinanza italiana (all’epoca il giurista americano guidava l’European University Institute di Firenze) e che già tre anni prima aveva nominato Cartabia alla Consulta, facendone a soli 48 anni la componente più giovane di sempre. Risaliva a un anno prima, al 2010, l’applauditissimo intervento di Napolitano al Meeting di Rimini, l’evento annuale simbolo di Comunione e liberazione. Un ambiente, quello del movimento cattolico fondato da don Luigi Giussani, dove Cartabia è di casa fin dagli anni degli studi universitari. Insieme al marito, Giovanni Maria Grava, l’ex presidente della Consulta è considerata molto vicina a Cl: per dieci anni è intervenuta al Meeting di Rimini, l’ultima volta nel 2019. Sarà un caso ma l’estate scorsa pure il neo premier Draghi fu accolto con tutti gli onori alla kermesse ciellina. Risale al 2016, invece, la visita di Sergio Mattarella, altro importante interlocutore dell’attuale guardasigilli.
Le posizioni sui matrimoni omosessuali e sul suicidio assistito – Prima della nomina alla Consulta, tra l’altro, Cartabia era una delle firme del ilsussidiario.net, organo della Fondazione per la Sussidiarietà e interprete giornalistico della linea di Cl. Sul sito si trovano ancora i suoi interventi, molto critici sul suicidio assistito: “Quell’arbitrio che pretende di giudicare il mistero della vita”, è il titolo un articolo sul caso di Eluana Englaro. Definito dall’attuale guardasigilli come “un verdetto che riguarda anche ciascuno di noi che assistiamo impotenti alla fine di una vita”. “Matrimonio a ogni costo, la pretesa dei falsi diritti“, era invece intitolato un intervento di Cartabia sulla legge approvata dallo Stato di New York, che consentiva il matrimonio tra persone dello stesso sesso. “Chi scrive non esulta di fronte a questa decisione”, spiegava la futura presidente della Consulta. Che è stata la prima donna a essere eletta al vertice della Corte. “Si è rotto un vetro di cristallo, ho l’onore di essere un’apripista”, disse l’11 dicembre del 2019, giorno dell’elezione. Rovinato dalle proteste delle associazioni Lgbt, che l’accusavano di essere di parte per la sua provenienza dal mondo cattolico e per quelle posizioni sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. Critiche che la ferirono e alle quali rispose spiegando: “La Corte difende i diritti di tutti perché nella laicità positiva dello Stato“.
L’arrivo in via Arenula – Guida la Consulta per 270 giorni e ha il merito di svecchiarne l’immagine, aprendola all’esterno nonostante il suo mandato sia quasi parallelo all’esplosione della pandemia. “Abbiamo tutti vissuto un grande cambiamento. E sono veramente fiera di sottolineare che questa istituzione ha assicurato il pieno funzionamento della della giustizia costituzionale senza cedimenti e interruzioni”, dirà nel suo ultimo giorno da presidente, prima di tornare a insegnare. Oggi che diventa ministra, il primo a commentarne la nomina è Tommaso Cerno, senatore del Pd: “La scelta di Cartabia alla giustizia ci lascia perplessi come cittadini e come omosessuali viste le posizioni sostanzialmente reazionarie della guardasigilli va detto che tanto tuono che non piove”. E dire che Cerno è stato portato in Senato da Matteo Renzi, uno dei più appassionati cultori della nuova guardasigilli. Dicono che tra i due ci sia un legame, mai messo in risalto nelle relazioni pubbliche. Oggi Cartabia giura da ministra della giustizia di un governo che è il risultato della crisi politica provocata da Renzi.
sabato 4 luglio 2020
B. & il giudice: obiettivo grazia. “Parliamone a Napolitano” Le mosse di Silvio sul Colle. - Gianni Barbacetto
sabato 20 giugno 2020
Di Matteo: “Quando indagavamo sulla Trattativa il Quirinale voleva un contatto con la procura. Il possibile mediatore poteva essere Palamara”. - Giuseppe Pipitone
C'è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia: il magistrato al centro dell'inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe era considerato l'ambasciatore scelto dal Colle sotto la presidenza di Napolitano per interloquire con l'ufficio inquirente siciliano, trascinato in quei mesi davanti alla Consulta per la vicenda delle intercettazioni di Mancino col capo dello Stato.
Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere “questa situazione“. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo. C’è anche un episodio del recente passato politico-giudiziario fino ad ora inedito tra i fatti riferiti dal consigliere del Csm alla commissione parlamentare Antimafia. Un fatto che diventa assolutamente emblematico se riletto oggi.