Forte di circa 1.500 miliziani, è una brigata internazionale del terrore che ha attratto i talebani più vicini ad al Qaeda ed ex foreign fighters siriani.
I terroristi islamici amano farsi pubblicità. Desiderano che le loro carneficine siano riprese e raggiungano la più ampia platea possibile. Poche altre volte come in questi giorni, i riflettori dei media mondiali sono tutti, o quasi, puntati su Kabul. La capitale afghana rappresentava dunque una vetrina forse irripetibile. Un attentato in grande stile avrebbe, per esempio, rispolverato l’immagine del feroce movimento dello Stato Islamico del Khorasan, altrimenti conosciuto come Isis K, messo in ombra dai sorprendenti successi militari dei talebani, i nuovi padroni dell’Afghanistan.
Ex costola di al Qaeda.
Dietro l’attacco kamikaze all’aeroporto di Kabul c’è questa organizzazione guidata da un anno e mezzo dall’ex qaedista Shahab al-Mujari. Ma che cosa è esattamente lo Stato Islamico del Khorasan? Era il 2015, quando iniziarono a comparire le prime rivendicazione da parte di un sedicente gruppo terrorista che si definiva «Provincia del Khorasan dello Stato Islamico» (il grande Khorasan è termine storico che indica i territori degli odierni Afghanistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Pakistan). Apparentemente fu fondato dai talebani pakistani, ovvero i gruppi qaedisti presenti nella regione del Waziristan, una terra di nessuno dove spesso non arriva la mano del governo pakistano, e dove i qaedisti agivano indisturbati (in queste montagne si era nascosto per anni Osama Bin Laden). Da allora gli attentati più crudeli, alcuni rivolti direttamente contro civili inermi, soprattutto a Kabul e nell’Afghanistan centro orientale, sono opera loro. La rottura della fragile alleanza tra gruppi qaedisti e Isis in Siria, e la conseguente guerra civile jihadista per il controllo del territorio, si ripetè anche in Afghanistan. Dove Isis e talebani arrivarono presto allo scontro armato.
Avversari dei talebani.
Dal 2015 al 2018, il movimento era stato particolarmente attivo. Ma il progressivo declino del Califfato siro-iracheno, fino alla sua sconfitta, si sono riflessi anche sul morale, e soprattutto sulle finanze dell’Isis-K. L’Isis afghano cominciò a subire un’involuzione che lo portò a ritirarsi in piccole aree dove sopravviveva grazie al controllo di alcune miniere, tra cui quelle di talco nella provincia di Nangahar ai confini con il Pakistan. Nel 2019 tuttavia, complici anche la decisione di entrare nel business del narco traffico, l’Isis-K ha rialzato la testa. Grazie a maggiori entrate è riuscito a riprendere possesso di diversi territori e oggi la sua presenza si è estesa in diverse province (in Nangarhar, Kunar, Nuristan, Badakhshan).
Una brigata internazionale del terrore.
Difficile conoscere il numero dei suoi combattenti. Si parla di 1.500 miliziani. Una sorta di brigata internazionale del terrore che, se da un lato ha attratto i talebani più vicini ad al Qaeda e contrari a qualsivoglia accordo di pace con Kabul (tra cui Tehrik-e Taliban Pakistan e quel che resta dell’Islamic Movement of Uzbekistan), dall’altro ha funzionato come un magnete per i gruppi estremisti in fuga dalla Siria (soprattutto di jihadisti centro asiatici). Il tentativo della nuova leadership taleban di mostrare un nuovo volto, meno estremo e più colllaborativo con l’Occidente (i fatti devono però ancora seguire alle parole), sta tutt’ora provocando una nuova ondata di defezioni tra i gruppi talebani più vicini ad al Qaeda. La priorità dell’Isis-K non è mai stata un segreto: distruggere l’influenza dei talebani nell’Afghanistan orientale e da lì costruire una nuova grande base del jihadismo globale, quindi anti-occidentale.
L’ideologia del Califfato.
La sua ideologia è la stessa del Califfato. Esportare il jihad nel mondo e fare terra bruciata di apostati ed infedeli, ovvero di tutti coloro che (musulmani o non) siano per qualsivoglia motivo diversi da loro. Ecco perchè gli attacchi più efferati dell’Isis-K sono stati rivolti contro l’etnia Hazara, gli afghani dai tratti mongoli, in larga parte sciiti, che vivono nella regione centrale dell’Hazarajat. Contro di loro, e altre minoranze religiose, hanno raggiunto una brutalità impensabile. Dall’attacco kamikaze in marzo contro un tempio Sikh (25 pellegrini uccisi), a quelli in maggio nell corsie del reparto maternità di un ospedale di Kabul (16 morti tra cui dei bambini) dove operava Medici senza frontiere, all’attentato contro un funerale, fino alla raccapricciante strage delle giovani studentesse, soprattutto hazara, Le vittime furono 55 vittime, quasi tutte avevano tra gli 11 e i 15 anni. Il timore è che non sarà l’ultimo. Nel nuovo afghanistan l’Isis-K ha trovato un terreno fertile.
L’attentato sulle Ramblas di Barcellona, una delle più celebri arterie metropolitane del mondo, il cuore della vita e della movida catalana, è sconvolgente ma non imprevedibile. Soprattutto se, come la rivendicazione dell’Isis fa pensare, venisse accreditata la matrice jihadista.
A parte gli avvertimenti veri o presunti della Cia alle autorità spagnole sulle possibilità di un attentato a Barcellona, la Spagna è da lungo tempo nel mirino. In Spagna sono stati arrestati 636 jihadisti dopo gli attentati ferroviari alla stazione di Madrid del marzo 2004 in cui rimasero uccise circa duecento persone e più duemila ferite. Al Qaeda e lo Stato Islamico hanno una rete di propaganda diffusa e penetrante con cui hanno reclutato diversi jihadisti per andare a combattere in Siria e in Iraq. Un recente studio dell’Instituto Elcano ha rilevato che dei 150 jihadisti arrestati in Spagna negli ultimi quattro anni 124 (l’81,6%) erano collegati allo Stato islamico e 26 (il 18,4%) ad Al Qaeda.
Non bisogna mai dimenticare che cosa significa la penisola iberica nell’immaginario del mondo musulmano su cui puntano le organizzazioni terroristiche di matrice islamica: questo è Al Andalus, il nome che gli arabi hanno dato a quei territori della Spagna, del Portogallo e della Francia occupati dai conquistatori musulmani (conosciuti anche come Mori) dal 711 al 1492. Molti musulmani credono che i territori islamici perduti durante la riconquista cristiana della Spagna appartengano ancora al regno dell’Islam e i più radicali sostengono che la legge islamica dia loro il diritto di ristabilirvi la dominazione musulmana.
Un concetto che emerge in maniera molto chiara nei materiali di propaganda dell’Isis. «Riconquisteremo Al Andalus, col volere di Allah. O carissimo al-Andalus! Pensavi che ti avessimo dimenticato ma quale musulmano potrebbe dimenticare Cordoba e Toledo», si afferma in un video dello Stato islamico. In un opuscolo diffuso dallo Stato islamico si legge che dalla creazione dell’Inquisizione spagnola nel 1478, la Spagna «ha fatto di tutto per distruggere il Corano». Si dice poi che la Spagna ha torturato i musulmani e li ha bruciati vivi. Pertanto, secondo i jihadisti, «la Spagna è uno Stato criminale che usurpa la nostra terra». Il testo esorta esplicitamente i militanti al terrorismo e a «perlustrare rotte aeree e ferroviarie per compiere attentati».
Che un attentato fosse nell’aria lo confermano anche i recenti arresti in Spagna di jihadisti di origine marocchina, una cellula dell’Isis che agiva tra Palma di Maiorca, Madrid, la Gran Bretagna e la Germania. Uno degli arrestati si era recato in varie occasioni a Palma di Maiorca per avviare la struttura terroristica che avrebbe dovuto seminare il terrore nell’isola delle Baleari. Tre dei membri della cellula inoltre sono protagonisti come attori di un video di propaganda, pubblicato su un canale con oltre 12mila sottoscrittori, che mostra il processo di radicalizzazione di un giovane musulmano in Spagna che decide di andare a combattere in Siria. Ma questo non è stato certo l’unico caso. In primavera proprio a Barcellona erano stati arrestati alcuni jihadisti marocchini che erano presenti il 22 marzo 2016 a Bruxelles, nel giorno del duplice attentato dell’Isis all’aeroporto Zaventem e alla metro.
La Spagna tra l’altro è considerata dai gruppi jihadisti uno degli alleati degli americani nella lotta al terrorismo: presenti in Medio Oriente con le truppe in Iraq e in Libano, gli spagnoli hanno il loro fronte più vulnerabile nel Maghreb per la vicinanza geografica al Marocco e le enclave di Ceuta e Melilla, proprio nel territorio del regno alauita. Le statistiche sono abbastanza esplicite: oltre il 45% di tutti i jihadisti arrestati in Spagna è nato in Marocco, il 39% in Spagna e solo il 15% in altri Paesi. Consapevole della centralità della lotta al terrorismo il governo spagnolo nel 2014 ha persino avviato un’applicazione per smartphone, AlertCops, per coinvolgere i cittadini nella segnalazione alla polizia di sospetti jihadisti. Ma restano tutte le difficoltà da parte dei servizi di sicurezza di prevenire un attacco terroristico da parte di piccole cellule o di “lupi solitari”, come hanno dimostrato gli eventi di Parigi, Londra, Manchester, Nizza, Colonia, Berlino, Stoccolma. E ora la ferita del terrore insanguina Barcellona, su quella Rambla, lunga più di un chilometro, che collega Plaça de Catalunya al vecchio porto. Rambla, un nome che deriva proprio dall’arabo e che in queste ore segna un tragico destino.
Le bombe russe non avevano ancora toccato il suolo, che già tv e altri media occidentali urlavano la propaganda americana: “Hanno ammazzato dei bambini!”, “Hanno colpito non l’ISIS ma l’opposizione moderata”, (cioè Al Qaeda…). “Hanno sbagliato bersaglio! Usato bombe non guidate, sono schiappe!” (The Aviationist). Praticamente tutti i media americani, dovendo citare Assad, lo fanno precedere da sereni appellativi come: “Il boia di Damasco”, il “Mostro”, colui che “ha gassato il suo popolo” (accusa comprovata falsa già da due anni: nel 2013 furono i ‘ribelli moderati’ a gettare il gas nervino, apposta per provocare l’intervento occidentale).
La Francia “apre un’inchiesta contro Assad per crimini contro l’umanità”. Ha le prove. Come no: un “fotografo del regime”, nome in codice Cesar, incaricato dal regime medesimo di fotografare i morti e torturati dal suddetto e medesimo regime, è fuggito a Parigi con 55 mila foto di cadaveri straziati. Proprio adesso. Tutto vero: il Corriere lo mette a pagina 2.
Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov, Ministro degli Esteri di Mosca, s’è stupita coi giornalisti della rapidità con cui sono comparse foto dei civili feriti. “Sappiamo come si fanno queste foto”, ha detto ricordando “Wag the Dog”, il film del ’97 con De Niro e Dustin Hoffman (in Italia, “Sesso e Potere”) che narra della fabbricazione di una guerra degli Usa contro l’Albania, tutta fatta al photoshop e con effetti speciali elettronici tv.
E’ tutto un gran dispiacere perché, come ha ammesso un think tank di Londra, “la Russia sta danneggiando Al Qaeda, il che è una brutta cosa” (a bad thing). Il think tank che s’è lasciato sfuggire il disappunto è il Royal United Services Institute (RUSI), una emanazione dei servizi. Al Qaeda (oggi Al Nusrah) è adesso “l’opposizione moderata”. Il noto generale Petraeus, solo due mesi fa’ ha apertamente spiegato al Senato che Al Qaeda è oggi l’alleato migliore degli Usa per “ debellare l’ISIS” (leggi: cacciare Assad) e va’ quindi armata ben bene.
Cosa un po’ difficile da far ingollare all’opinione pubblica americana, per quanto manipolata: scusate, ma non è Al Qaeda che – come ci avete detto voi – ha ucciso 3 mila americani nelle Twin Towers l’11 Settembre? E adesso dovremmo allearci con questi? Ma qualcuno l’ha pur ingollata: per esempio Radio Radicale, che mai come oggi s’è rivelato un asset neocon americanista, leggendo religiosamente solo i giudizi del New York Times, del Washington Post, ma soprattutto del Wall Street Journal, senza dimenticare l’organo francese dei Rotschild, Libération, il più scatenato (si sa, Putin è omofobo..).
La tesi generale della propaganda è: Putin, bombardando Al Qaeda, “aiuta l’ISIS” invece di combatterlo. “Getta benzina sul fuoco della guerra civile”, ha lamentato Washington (che ha gettato benzina sul fuoco di tutte le guerre civili che le piacciono, dall’Ucraina alla Libia, dall’Irak alla Somalia…).
In realtà, la ragione tattica delle prime azioni russe è trasparente: anzitutto, ha “ripulito gli angolini” attorno alla propria base aerea, l’aeroporto di Jableh. La prima ondata ha neutralizzato centri di comando, depositi di carburante e munizioni, nidi d’artiglieria e blindati di Al Qaeda (diciamo Cia) a Ghmam e Deir Hana, due città del governatorato di Latakia, a 25-30 chilometri da Jableh. La seconda ondata ha centrato Latamneh et Kafr Zita, nel governatorato di Hama, a 30-40 chilometri dal “suo” aeroporto. La terza ondata ha colpito bersagli nel governatorato di Homs, a 30-50 chilometri a sud-est diJableh. Così, Al Qaeda (o la Cia, diciamo) non potrà più curiosare o insidiare le seguenti operazioni.
Da qui il dispetto generale.
Del resto è comprensibile. La decisa azione russa ha denudato l’ipocrisia americana che, a capo di una “coalizione” che comprende i sostenitori dei terroristi takfiri (Sauditi, Katar, Erdogan) “bombarda l’ISIS” da due anni sì, ma con rifornimenti paracadutati, secondo il governo iracheno che lo sta combattendo davvero. Putin ha visto il bluff, ora ad Obama non resta che in qualche modo accodarsi, a parole, e rassegnarsi alla neutralizzazione dei suoi terroristi; ed accettare in qualche modo una “transizione” che non solo comporta la presenza di Assad (e delle minoranze che garantisce) nella futura sistemazione, ma il mantenimento delle strutture istituzionali. Il tutto, con un prevedibile trionfo non solo militare ma etico e politico di Mosca. In Europa, i tagliagole non hanno acquisito una gran popolarità, con le loro decapitazioni, ed il fatto che Putin li stia cercando di eliminare non può esser fatto passare come una violazione di “diritti umani” o un atto d’inciviltà.
In Medio Oriente, tutti i leader di quell’area hanno visto che Mosca non ha tradito l’alleato pericolante, ma lo sostiene con le sue armi; armi che, si può indovinare, avranno presto una più grossa quota di mercato. L’Iran trionfa, anzi tutto l’asse sciita. La Turchia è mal messa. In Israele si stanno certo chiedendo che fare se Mosca sostituisce Washington come egemone regionale…per fortuna tanti ebrei parlano russo.
Il rovesciamento del dato geopolitico è immenso. Le sue conseguenze si sono appena cominciate a vedere. “Riad non esclude il ricorso alla forza militare per cacciare Assad”, ha proclamato il ministro degli esteri saudita (si chiama Adel al-Jubeir) .
Patetico. L’orribile monarchia saudita che decapita e crocifigge giovani per reato d’opinione (strano che Parigi non apra un dossier per i crimini contro l’umanità per la crocifissione di Ali Al-Nimr: http://rhubarbe.net/blog/2015/09/18/ali-al-nimr-lislam-le-sabre-et-la-croix/ deve guardarsi dal nemico interno.
Anzi più che interno: la rivolta cova nel Palazzo.
Un nipote del fondatore della dinastia Abdulaziz Ibn Soud, anonimo ma sicuramente influente (e quasi certamente sostenuto dai “servizi” britannici) , ha scritto una lettera pubblica e pubblicata dal Guardian per chiedere la detronizzazione del re in carica, l’ottantenne Salman (“in condizioni instabili”, ossia moribondo) e per colpire il suo successore preferito, il figlio Mohammed ibn Salman, che il vecchio morente ha nominato ministro della difesa e insieme dello sviluppo economico: due cariche che dovrebbero dargli tranquillamente la successione, ma oggi sono invece due pietre al collo.
E’ infatti lui, come ministro della difesa, il responsabile della vergognosa guerra che la Saudia, lo stato più ricco della zona, ha sferrato contro lo stato più povero, lo Yemen, con grandi stragi (lì sì) di bambini musulmani. La diffusione sul web di foto di cadaverini yemeniti spiaccicati, maciullati, smembrati dalle bombe saudite sta provocando urti di vomito anche nel regno. Strano che La Stampa di Torino, che ha pubblicato la foto del piccolo profugo per commuoverci e farci accettare i migranti, non pubblichi queste, per farci urlare di indignazione verso la monarchia più mostruosa della storia. Non tutte sono impubblicabili.
Come ministro “dello sviluppo”, l’erede designato è il colpevole anche delle due stragi di fedeli pellegrini musulmani avvenute a La Mecca in rapida successione. Prima, la caduta della gru (200 morti, si dice) e poi, l ‘inimmaginabile eccidio prodotto, alla Mecca durante la Festa del Sacrificio: ufficialmente quasi 800 morti, secondo l’Iran fino a quattromila.
Certo è che i morti sono stati raccolti coi bulldozer. Erano iraniani (almeno 400), nigeriani, pakistani, egiziani , la cui morte diffonde nel mondo islamico la pubblicità meno auspicabile per la monarchia petrolifera e la sua gestione dei luoghi santi.
Tutti ormai sanno in Oriente che la calca dei pellegrini “é stata causata dall’improvviso passaggio del corteo di Mohammed bin Salman al-Saoud, Ministro della Difesa di Riyadh, che, accompagnato da un ‘codazzo’ di 200 militari e 150 poliziotti ha ‘tagliato’ la folla dei pellegrini con una carovana di numerose automobili e furgoncini”, ossia lo stupido arrogante erede. E come fece Nerone quando la voce popolare lo accusò di aver incendiato Roma, lui incolpò i cristiani e li crocifisse, l’erede ha incolpato gli esecutori e i tecnici. Laddove tutti gli arabi sanno che la mostruosa e titanica ristrutturazione-distruzione della Mecca è un enorme affare con mazzette e bustarelle, per cui i fondi stanziati non arrivano alle maestranze. E la famiglia reale c’è dentro fino al collo.
Si aggiunga che il protettore americano ha stretto il noto accordo con l’Iran, e dunque la sopravvivenza dei Saud non è più una necessità geopolitica primaria per Washington.
Si aggiunga la caduta dei prezzi del barile, inizialmente voluto da Casa Saud contro gli sfruttatori dello shale in Usa e per tagliare le gambe al concorrente Russia, ma oggi inarrestabile – e che ha costretto la monarchia a mettere mano alle riserve, e i cui conti sono in deficit (secondo il FMI) per 107 miliardi di dollari, pari al 20% del Pil. Il che può obbligare la numerosa e dilapidatrice Famiglia a tagliare le “spese sociali” (diciamo) con cui i Saud comprano il consenso della popolazione, distribuendole in parte i benefici dell’introito petrolifero. Siccome nonostante queste regalie il 40 per cento della popolazione del paese più ricco del mondo arabo vive in povertà e il 40 per cento dei 20-24 enni sono dichiarati disoccupati, la rivolta contro i monarchi (e probabili dunmeh) cova. Il boia, con le sue 175 esecuzioni in otto mesi, riesce a raffreddarla. Ma adesso la rivolta è esplosa nella famiglia reale stessa, col pronunciamento dell’anonimo principe pubblicato dal Guardian – si noti la maligna astuzia – anche in arabo, per il consumo locale e rinfocolare le discordie.
L’anonimo principe dice che anche i capi tribali stanno dalla sua parte nella critica al re e al suo erede. Notabili vari, e persino elementi della famiglia reale: “un sacco di nipoti, una quantità di seconda generazione sono ansiosi”, ha scritto con scherno. Secondo Khairallah Kairallah, ex direttore del giornale Al Hayat, il sistema di potere saudita non può durare, seduto su questo vulcano, più di un anno o un anno e mezzo. Salvo qualche miracolo come la salita del greggio, che però favorirebbe i nemici (Iran, Russia, gli estrattori del gas da scisto americani).
L’azione di Putin ha ridistribuito le carte in Oriente. Gli americani, a meno che non s’inventino qualcosa, non ne hanno in mano di buone. I mostri sauditi le hanno pessime.