martedì 26 maggio 2020

I riporti delle nebbie. - Marco Travaglio

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Della riforma del Csm sappiamo solo che è stata annunciata dal ministro Bonafede e oggi sarà discussa dalla maggioranza. 
Era ora. Ma non basta. Chi ha lo stomaco e il fegato di leggere le intercettazioni dell’inchiesta su Palamara (anzi sul Csm) senza perdersi nei gossip da portineria, capisce bene la gravità della situazione: una magistratura (non tutta ma quasi) divisa fra chi ordisce trame di potere senza esclusione di colpi e chi è costretto a farci i conti turandosi il naso per non essere spedito a inseguire ladri di bestiame e di biciclette. Perciò intervenire solo sul Csm serve a poco: giusto sbarrare le porte girevoli che mandano i politici a giudicare i magistrati che si sono occupati di loro o dei loro amici (Casellati prima, Ermini ora); sacrosanto escogitare sistemi elettorali che taglino le unghie alle correnti, dedite a mercati delle vacche e nomine a pacchetto (io do una poltrona e te se tu ne dai una a me) in barba alla meritocrazia. Ma sono interventi “a valle”, mentre il problema ormai è “a monte”. Il cancro è arrivato al cervello ed è ancor peggio della partitizzazione dei membri laici e della correntizzazione dei togati: si chiama gerarchizzazione, verticalizzazione, questurizzazione delle Procure. È qui che inizia (quando inizia) l’azione penale, che poi sfocia in indagini, udienze preliminari, processi di primo, secondo, terzo grado.
Il Potere lo sa bene e infatti è proprio lì, alla sorgente, che ha concentrato i suoi sforzi non appena si è riavuto dallo choc di Tangentopoli e Mafiopoli dei primi anni 90. Come? Manomettendo il rubinetto che può trattenere o liberare l’acqua della Giustizia. Destra e sinistra amorevolmente inciuciate ci avevano provato nel 1996-’98 con la Bicamerale che metteva in riga le Procure con la famigerata bozza Boato. Ma per fortuna avevano fallito, grazie alla reazione contraria di un’opinione pubblica ancora memore e vigile e di una magistratura ancora rappresentata dai migliori: Borrelli, Caselli, D’Ambrosio, Maddalena, Paciotti e così via. Dieci anni dopo invece, nel 2006, la controriforma Castelli-Mastella riuscì nell’intento. Una controriforma scritta dal ministro leghista del governo B.2 e copiata paro paro, tranne pochi ritocchi, dal Guardasigilli del Prodi2, malgrado il centrosinistra si fosse impegnato in campagna elettorale a “cancellarla”. Il tutto con la benedizione del solito Napolitano, capo dello Stato e del Csm. E nel silenzio dei giornaloni e dell’Anm che invece, quando quelle porcherie le proponeva Castelli, aveva indetto tre scioperi. L’intervento più devastante fu proprio quello che snaturava la figura del Procuratore capo.
Che non fu più primus inter pares, organizzatore e coordinatore dei suoi sostituti, com’era stato per 25 anni; ma dominus assoluto dell’azione penale, con potere di vita e di morte sui pm ridotti a suoi camerieri, da lui “delegati” ad aprire o a non aprire fascicoli su questa o quella notizia di reato. Come negli anni 50 e 60 dei porti delle nebbie e delle sabbie. Da allora il singolo pm non è più titolare del “potere diffuso” che per un quarto di secolo ci aveva garantito una giustizia uguale per tutti: decide il capo quali reati iscrivere nel registro dei noti, o degli ignoti, o nella discarica del “modello 45” (refugium peccatorum di tanti insabbiamenti), chi chiedere di arrestare, perquisire, intercettare, rinviare a giudizio. Basta un don Abbondio o un don Rodrigo al vertice di una Procura, e su certi personaggi non si procede più. E, se il sostituto non è d’accordo, il capo può levargli il fascicolo senza dare spiegazioni al Csm. Se poi non lo fa lui, può pensarci il Procuratore generale con l’avocazione. Prima, per controllare le Procure, bisognava accordarsi con 2500 pm (mission impossible): ora basta tenere a bada 150 capi. Che hanno anche l’esclusiva dei rapporti con la stampa: il pm che parla ai giornalisti, magari per denunciare il capo che non lo fa lavorare, come fecero i pm di Palermo contro Giammanco dopo Capaci, finisce sotto procedimento disciplinare (lui, non il capo insabbiatore).
Le prime prove su strada del nuovo sistema gerarchico si ebbero a Catanzaro, con il procuratore e il Pg che scippavano le indagini di De Magistris e il Csm che lo cacciava. E, più di recente, nella Procura romana di Pignatone, con la mancata iscrizione di Renzi e De Benedetti per la soffiata sul Dl Banche e con la decisione di non sequestrare il cellulare di babbo Tiziano nell’inchiesta Consip (per fare carriera, conta più ciò che non si fa di ciò che si fa). Cose che difficilmente accadevano quando i singoli pm godevano non solo di “indipendenza” (esterna, dagli altri poteri), ma anche di “autonomia” (interna, dai capi), come prevede la Costituzione. E come del resto accade tuttoggi per i giudici che, per decidere un rinvio a giudizio o un proscioglimento, una condanna o un’assoluzione, non chiedono certo il permesso ai superiori: agiscono secondo scienza e coscienza. L’altro effetto collaterale della controriforma fu un’esplosione di appetiti e succhi gastrici, nel mondo giudiziario e nei poteri esterni, per le nomine di ogni capo: perché chi controlla il procuratore controlla tutta la Procura. Fa bingo, anzi strike. È questo il giochino che va smontato, con una riforma che restituisca ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, cioè la stessa autonomia dei giudici. Il Csm arriva dopo, quando è troppo tardi.

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