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martedì 31 maggio 2016

Rodotà: Referendum, se Renzi falsifica anche la storia. - Stefano Rodotà




Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. 
Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.

Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio. Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?

Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.

Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.

La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili. Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.

Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico-istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. 


In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sotto rappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale. Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.

Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.

Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio. E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.

Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/rodota-referendum-se-renzi-falsifica-anche-la-storia-2/

martedì 6 agosto 2013

«È il momento di unire le forze dei movimenti». Intervista a Stefano Rodotà. - Eleonora Martini



Intervista a Stefano Rodotà: la grazia a Berlusconi? «Inaccettabile. «Subito la riforma della legge elettorale, e poi il voto». E nel frattempo, «insieme ad altri», sta pensando a un modo di «unire le forze di quei soggetti civili, politici e sociali» tornati da tempo protagonisti e che ora «non possono più essere trascurati».

La grazia a Berlusconi? «Inaccettabile. Anche perché sarebbe come istituire una super-Cassazione». Il giurista Stefano Rodotà parla di «rischio istituzionale che non va corso». È un momento delicato questo, dice, che richiederebbe un po' di «coraggio e lungimiranza politica» da parte dei partiti. «Subito la riforma della legge elettorale, e poi il voto», auspica. E nel frattempo, «insieme ad altri», sta pensando a un modo di «unire le forze dei soggetti civili, politici e sociali» tornati da tempo protagonisti e che «non possono più essere trascurati».
 
Mentre per il Financial Times «cala il sipario sul buffone di Roma», Sandro Bondi usa toni apocalittici minacciando la «guerra civile». Frasi che il Quirinale giudica come «irresponsabili». C'è da preoccuparsi o è solo un'altra farsa?
Ciò che sta avvenendo non è solo una reazione simbolica, rivolta a impressionare l'opinione pubblica. I comportamenti tenuti sono qualificabili come eversivi, nel senso che negano i fondamenti della democrazia costituzionale... La richiesta ufficiale del Pdl che, dicono, formalizzeranno nell'incontro con Napolitano, è di «eliminare un'alterazione della democrazia». Sono parole e comportamenti da valutare come rifiuto dell'ordine costituzionale. Al di là delle conseguenze, non si può cedere ancora all'abitudine di derubricare e sottovalutare quelle che vengono considerate «intemperanze verbali». Sono molto colpito dalla parola «irresponsabile» attribuita al presidente Napolitano, che di solito è molto cauto. Ma è evidente che la situazione configurata da Berlusconi e dal Pdl - considerare «un'alterazione della democrazia» una sentenza passata in giudicato - è eversiva. È un fatto di assoluta gravità che non possiamo sottovalutare.
 
Dunque i toni apocalittici vanno presi sul serio?
Assolutamente sì.
 
Ma non era tutto prevedibile?
Certo, il governo delle larghe intese è stato un grandissimo azzardo perché tutti sapevano che in pista c'era la vicenda giudiziaria di Berlusconi e che il Pdl non avrebbe certo mostrato responsabilità. Si è scelta questa strada nella speranza che non sarebbe accaduto, ma la storia di Berlusconi, fin da quando rovesciò il tavolo della bicamerale di D'Alema per sottrarsi al giudizio, testimonia esattamente che tutto era prevedibile. E allora oggi confidare in un ravvedimento operoso è pericoloso. Perché Berlusconi può continuare a condizionare pesantemente non solo il governo ma l'intero sistema costituzionale. Presidente della Repubblica, parlamento, magistratura: l'intero sistema costituzionale è in questo momento sotto ricatto.
 
Un ricatto che rischia di immobilizzare in ogni caso Napolitano. Secondo lei, il capo dello Stato dovrebbe concedere la grazia a Berlusconi?
No. Indipendentemente dai toni, penso che Napolitano non debba concedere la grazia. E sembra che il Quirinale vada prudentemente in questa direzione. Napolitano dovrebbe dire e dirà che una richiesta proveniente da Schifani e Brunetta è irricevibile dal punto di vista formale, anche perché per concedere la grazia vanno prese in considerazione una serie di condizioni, non ultima la condotta del condannato. Su Berlusconi invece pendono altri procedimenti e una condanna di primo grado nel processo Ruby. Rispetto a una persona che ha questo profilo, si può intervenire con un provvedimento di clemenza? Ma c'è di più: una grazia all'indomani della condanna assumerebbe la funzione di un quarto grado di giudizio, cioè una sconfessione della magistratura, facendo di Napolitano una sorta di super-Cassazione che elimina tutti gli effetti della condanna. È un rischio istituzionale che non va corso.
 
Ieri sul manifesto il presidente della Giunta per le autorizzazioni Dario Stefano ha ricordato l'iter istituzionale che seguirà la decadenza di Berlusconi da senatore. Non è un atto dovuto, dunque?
Ricordiamoci che Alfano ritirò la fiducia al governo Monti dopo l'approvazione della norma sulla decadenza e sull'ineliggibilità. Naturalmente la decadenza dovrebbe essere un atto dovuto e questo passaggio previsto in Parlamento può apparire una singolarità. Ma la legge è molto chiara sul punto: il passaggio in Parlamento è una presa d'atto di un provvedimento operativo nei confronti di uno dei suoi membri. La procedura può essere anche macchinosa ma l'esito non può essere discrezionale.
 
Il voto non riserverà sorprese?
Forse, visto che la legalità per una certa parte politica è un optional. Ma al Senato c'è una maggioranza che va ben al di là dei numeri del Pdl; sarebbe un fatto davvero istituzionalmente inqualificabile.
 
Come mai ora sarebbe «necessaria» quella riforma della giustizia fin qui ritenuta «impensabile»?
Appunto. Questa riforma assume il significato della rivincita politica di Berlusconi nei confronti della magistratura. Riscrive - nella situazione drammatica che vive l'Italia - le priorità dell'agenda come condizione per far vivere il governo. Ma anche questa non è una novità. Faccio un solo esempio: quando si costituì la Commissione bicamerale D'Alema Berlusconi chiese che al primo posto fosse iscritta la questione giustizia. Non era compresa tra i compiti della commissione ma ne divenne l'architrave, per accontentare Berlusconi. E infatti, come ci ha rivelato alcuni giorni fa l'ex ministro Flick il suo pacchetto di riforma della Giustizia venne allora bloccato; D'Alema stesso glielo chiese con una lettera. Non si può continuare su questa strada.
 
Nemmeno con il lavoro dei «saggi»?
Considero quella commissione istituita solo per dare consigli, che non può diventare in nessun modo politicamente rilevante né tantomeno vincolante. E in più ritengo nel merito largamente inaccettabili le loro proposte.
 
Allora elezioni subito? Con questa legge elettorale?
No, perché rischiamo di nuovo l'ingovernabilità. E ormai sappiamo - ce lo ha detto la Corte Costituzionale e ricordato il suo presidente - che andremmo a votare con una legge viziata di incostituzionalità. Sulla questione a dicembre ci sarà una sentenza della Consulta, su richiesta della Cassazione. Ma al di là di questo, c'è anche un problema politico: si può accettare di andare al voto con una legge incostituzionale e politicamente devastante per gli effetti che ha prodotto? Propongo di riconvocare subito le camere per affrontare la legge elettorale. Non occorre sospendere le vacanze: possiamo utilizzare lo spazio riservato alla riforma costituzionale calendarizzata all'inizio di settembre per arrivare subito a una riforma elettorale. D'altronde non si può fare una riforma costituzionale con chi mette in discussione l'ordine costituzionale, è incosciente in questo clima. E invece occorre un'iniziativa immediata per anticipare i tempi e modificare in brevissimo tempo la legge elettorale, partendo a settembre dalla proposta più semplice, quella di Giachetti di ritorno al mattarellum. È l'unica iniziativa politica possibile per mettere minimamente in sicurezza il sistema.
 
Settembre è un tempo breve e lungo insieme. E il M5S ha smentito di essere disponibile a un governo, sia pur programmatico, con il Pd.
Indipendentemente dalle dichiarazioni del M5S, il Pd dovrebbe porre il problema di sciogliere le camere solo nel caso fosse accertata la mancanza di una maggioranza per costituire un governo, anche di breve durata, che si faccia carico immediatamente della riforma della legge elettorale. Ed è un problema che si presenta solo al Senato. Ma è un passaggio politico che richiede iniziativa, coraggio e lungimiranza politica da parte dei partiti; non ci si può solo chiedere cosa farà il capo dello Stato. Lui deve essere lasciato nella condizione di fare il suo lavoro ma non nel vuoto politico che si era determinato quando i tre responsabili dei partiti che oggi costituiscono la maggioranza, incapaci di eleggere un qualsiasi presidente della Repubblica, si ripresentarono da Napolitano facendo una mossa politicamente gravissima, dettata da debolezza politica.
 
Lei stesso ne fu protagonista...
Venni coinvolto ma oggi guardo alla vicenda con distacco. Piuttosto come allora in questo periodo, non solo in questi giorni, si è sedimentato attorno al tema della difesa della Costituzione - ma in senso alto: difesa dei valori e dei principi - un'attenzione di forze sociali politiche e civili che non può essere assolutamente trascurata. Ci sono state moltissime iniziative, tra le quali io metto anche l'ostruzionismo parlamentare di Sel e del M5S che ha inseguito la forzatura dell'approvazione ai primi di agosto della legge sulla revisione costituzionale. Ma in questo momento sono necessario iniziative non solo per sostenere la difesa di questi principi ma anche per porre le forze politiche davanti alla loro responsabilità.
 
Quali iniziative?
È ancora presto per dirlo, con altri abbiamo appena cominciato a pensarci, ma qualcosa è assolutamente necessario fare.

Potrebbe tornare lei stesso protagonista?
I discorsi da protagonista li ho sempre scartati. Dico solo che oltre alle responsabilità dei partiti, c'è una responsabilità propria di soggetti politici sociali e civili che in questo periodo si sono mobilitati - ne abbiamo visto un esempio a Bologna il 2 giugno - e che devono trovare forme di espressione. Non è questione di investitura, semmai l'investitura l'hanno ricevuta in molti e questo è il momento di unire le forze...

giovedì 18 aprile 2013

Ultima fermata Capranica.

alfano-bersani.jpg

Queste giornate di primavera ricordano un altro aprile, quello del 1945. 
La fine di una lunga guerra e la volontà di ricostruzione. 
Il Paese, come allora, è in macerie. 
C'è però una differenza, tra il comico e il tragico. 
Nessuno dopo il 25 aprile si azzardò a girare per le strade in fez e camicia nera. 
I fascisti si dileguarono o cambiarono casacca. 
Il ventennio mussoliniano si concluse nel peggiore dei modi, ma nel dopoguerra almeno non si candidarono al Governo i superstiti del Gran Consiglio del Fascismo
Non ci fu un inciucio tra Togliatti e Dino Grandi
I responsabili non si ripresentarono come salvatori della Patria come avviene con Berlusconi, Bersani e D'Alema. La Nazione prese atto del disastro a cui l'aveva condotta il fascismo e voltò pagina. 
Il teatro Capranica, ieri sera a Roma, ricordava un altro teatro, il Lirico di Milano, dove Mussolini tenne l'ultimo discorso il 16 dicembre del 1944 per ricompattare i resti delle camice nere. 
Capranica è l'ultima raffica dell'inciucio. 
Gargamella ha inseguito i puffi presenti in sala per convincerli a votare l'ex democristiano Marini, candidato dal pdl, invece di Rodotà, che sarebbe acclamato dagli italiani per plebiscito. 
Marini rappresenta lo status quo, la garanzia di un governo Bersani "amico del giaguaro" che vuole smacchiare lo psiconano con la lingua, la nomina di un ministro della Giustizia non ostile a Berlusconi e forse l'innalzamento di quest'ultimo a senatore a vita il prossimo anno. 
Nessuno ha spiegato a Bersani che l'Italia è cambiata, che non vuole più accordi sottobanco con lo psiconano come è avvenuto negli ultimi vent'anni. 
Il Paese vuole togliersi, definitivamente, il sudario in cui l'hanno avvolta i caporioni del pdl e del pdmenoelle. 
La guerra è finita, arrendetevi. 
Liberateci per sempre dalla vostra presenza.

Siamo esausti.

http://www.beppegrillo.it/2013/04/ultima_fermata_capranica.html#commenti

venerdì 12 ottobre 2012

Allarme del Giurista Rodotà: Può un Parlamento di non eletti mettere mani in modo così incisivo sulla Costituzione?



UNA FASE COSTITUENTE PIU’ DEMOCRATICA. - Stefano Rodotà



Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.
In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali.
La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali.
Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.
L’altro fatto compiuto riguarda la riforma costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose. È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei parlamentari, modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali.
Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione?
Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana. A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo.
Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini. Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri.
Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.