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giovedì 9 ottobre 2014

Trattativa, deposizione Napolitano senza imputati. Le difese: “Processo nullo”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa Stato - Mafia

"Le scelte dei giudici vanno sempre rispettate” si limita a dire Leonardo Agueci, che guida ad interim la procura di Palermo, dopo il no alla presenza degli imputati alla deposizione del capo dello Stato. “Una dichiarazione a caldo è controproducente, preferisco studiarmi prima l'ordinanza del giudice” dice invece l'aggiunto Vittorio Teresi, coordinatore del pool che indaga sulla Trattativa.
La sede del Quirinale è immune alla presenza degli imputati, anche quando a testimoniare sul Colle più alto di Roma è il presidente della Repubblica. È per questo motivo che il prossimo 28 ottobre Giorgio Napolitano testimonierà nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Istituzioni e Cosa Nostra, alla sola presenza dei legali e dei pm: assenti saranno Totò RiinaLeoluca Bagarella e Nicola Mancino, gli unici imputati del processo che avevano fatto richiesta di presenziare all’udienza. Rigettata anche l’istanza presentata dall’Associazione tra Familiari della strage di via dei Georgofili, tra le parti civili ammessi al dibattimento.
Dalla difesa dell’ex vice di Napolitano al Csm è subito arrivata eccezione di nullità per l’intero processo: l’avvocato Nicoletta Piergentili si è appellata all’articolo 178 del codice di procedura penale, che al terzo comma prescrive l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private. In caso contrario incombe la nullità processuale. Il presidente della corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto, nell’ammettere la testimonianza di Napolitano aveva fatto cenno all’articolo 205 del codice di procedura penale, che fissa il luogo della deposizione nella sede in cui il presidente esercita le funzioni di capo dello Stato. Non esistendo però norme che disciplinino le esatte modalità della deposizione del presidente della Repubblica, il giudice aveva applicato per analogia l’articolo 502, quello previsto per la testimonianza di chi è impossibilitato a comparire personalmente in aula: quella norma prevede che se uno degli imputati faccia richiesta di assistere all’udienza, tale richiesta dovrà essere accolta dalla corte. Così non è stato, perché Montalto ha riconosciuto una sorta di immunità alla sede del Quirinale. Una profilo di immunità che per la corte è garantito dalla stessa Costituzione e che impedisce l’accesso delle forze dell’ordine al Quirinale, “con la conseguenza – ha detto Montalto leggendo la sua ordinanza – che non sarebbe possibile né coordinare l’accompagnamento di un detenuto con la scorta, né assicurare l’ordine come avviene durante le udienze nelle aule a ciò preposte”.
In pratica al Colle potranno entrare solo accusa e difesa, e nemmeno un uomo di scorta ai magistrati. La video conferenza per i boss invece è esclusa perché prevista solo per le deposizioni in aula. “Ad ulteriore conferma dell’esclusione degli imputati – ha continuato Montalto – deve considerarsi il fatto che, per gli imputati per i quali è già esclusa la presenza fisica in udienza anche nelle aule di giustizia ordinaria, quali Riina e Bagarella, la previsione rende ancora più evidentemente incompatibile la presenza degli stessi nella sede del Quirinale. Nè in assenza di norme specifiche, potrebbe farsi ricorso alla partecipazione a distanza, poiché questa è prevista solo per le attività svolte nelle aule d’udienza”.
Anche le difese dei boss però annunciano battaglia contro la decisione della corte. “Non sono d’accordo con il giudice Montalto: ci sarà modo di rivedere questa decisione in altre sedi. Io chiederò certamente l’annullamento del processo: qui è stato negato il diritto di difesa” annuncia Luca Cianferoni, legale di Riina, al sito affaritaliani.it. E mentre Antonio Ingroia, ex pm e coordinatore dell’indagine sulla Trattativa, propone al capo dello Stato di “andare a Palermo a rendere la sua testimonianza”, per salvare il processo dal rischio nullità, dalla procura siciliana arrivano al momento solo stizziti no comment. “Le scelte dei giudici vanno sempre rispettate” si limita a dire Leonardo Agueci, che guida ad interim la procura ancora senza un capo dopo l’addio di Francesco Messineo. “Una dichiarazione a caldo è controproducente, preferisco studiarmi prima l’ordinanza del giudice” dice invece l’aggiunto Vittorio Teresi, coordinatore del pool che indaga sulla Trattativa. Due giorni fa la procura aveva dato parere favorevole all’ammissione della presenza di Riina e Bagarella, argomentando che in caso contrario si sarebbe potuta verificare l’ipotesi di nullità processuale. Una spada di Damocle quella della nullità che adesso incombe seriamente sul processo più delicato degli ultimi anni. 

giovedì 2 ottobre 2014

Trattativa, Napolitano deporrà il 28 ottobre. Il boss Riina chiede di assistere.

Giorgio Napolitano

Alla scorsa udienza la corte d’Assise, respingendo le richieste dei difensori di alcuni imputati che avevano chiesto la revoca dell’ordinanza che ammetteva la deposizione dell'inquilino del Quirinale, aveva ribadito la necessità della testimonianza.
Una settimana fa i giudici di Palermo erano stati categorici decidendo che il capo dello Stato doveva testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è stata fissata la data della deposizione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che dovrà rispondere alle domande delle parti il prossimo 28 ottobre.
Alla scorsa udienza la corte d’Assise, respingendo le richieste dei difensori di alcuni imputati che avevano chiesto la revoca dell’ordinanza che ammetteva la deposizione dell’inquilino del Quirinale, aveva ribadito la necessità della testimonianza. Secondo la corte, infatti, la lettera con cui Napolitano faceva presente di non avere circostante da riferire su quanto sollecitato dalla procura non rende, comunque, inutile la deposizione.
Intanto i capimafia Totò Riina e Leoluca Bagarella, intervenendo in videoconferenza, hanno espresso la volontà di partecipare, sempre in video-collegamento, all’udienza del 28 ottobre, fissata, al Quirinale. L’Avvocatura dello Stato si è opposta e la corte si è riservata di decidere. Pur annunciando la riserva sulla decisione, vista la richiesta esplicita degli imputati, la corte ha fatto notare di essersi già pronunciata sul punto. Alla scorsa udienza, infatti, i giudici hanno stabilito che alla deposizione, al Quirinale, del capo dello Stato parteciperanno, oltre al collegio, solo i magistrati dell’accusa e i difensori, escludendo, così, la presenza degli imputati. La deposizione del capo dello Stato è regolata dall’articolo 502 del codice di procedura penale, che al secondo comma dice chiaramente: “L’esame si svolge con le forme previste dagli articoli precedenti, esclusa la presenza del pubblico. L’imputato e le altre parti private sono rappresentati dai rispettivi difensori. Il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame”. 
I pm avevano chiesto di sentire Napolitaano come teste in relazione alla lettera scritta da Loris D’Ambrosio e indirizzata proprio al capo dello Stato. Il 18 giugno del 2012, poco dopo la chiusura delle indagini sulla Trattativa e il deposito delle intercettazioni tra Nicola Mancino (oggi imputato per falsa testimonianza) e lo stesso consulente giuridico del Colle, infatti, D’Ambrosio prese carta e penna per esporre al presidente i suoi dubbi sulle possibilità di essere stato “utile scriba di indicibili accordi” tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, ai tempi in cui lavorava all’Alto Commissariato Antimafia. Il capo dello Stato aveva inviato una lettera i giudici in cui spiegava di non aver nulla di utile da riferire sulla questione.
I pm invece chiederanno al teste particolari ulteriori su quella singolare condizione di apprensione manifestata da D’Ambrosio, che nel frattempo è deceduto. Napolitano, però, dopo aver già sollevato nel luglio 2012 il conflitto d’attribuzione davanti la Consulta contro la procura, ottenendo la distruzione delle quattro intercettazioni in cui colloquiava con Mancino, nell’ottobre scorso manifestò alla corte di non avere “nulla da riferire” su quella missiva ricevuta da D’Ambrosio, chiedendo ai giudici di “valutare nel corso del dibattimento, il reale contributo che le mie dichiarazioni, sulle circostanze in relazione alle quali è stata ammessa la testimonianza, potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso”. 
In pratica il Colle chiedeva di cancellare la deposizione chiesta dai pm e già accordata dai giudici. La medesima richiesta era arrivata in aula, durante il dibattimento, sia dall’Avvocatura dello Stato che dai legali di Marcello Dell’Utri: è per questo che il 17 novembre 2013 il presidente della corte Montalto annunciava la decisione di riservarsi sulla possibile testimonianza di Napolitano. Riserva che ha sciolto un anno dopo: Napolitano deve essere sentito dato che “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia, in ipotesi anche e persino, in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi”.

domenica 28 settembre 2014

Trattativa Stato-mafia, la Corte: “Napolitano deve testimoniare in aula”. - Giuseppe Pipitone

Giorgio Napolitano

Il Capo dello Stato chiamato a deporre per decisione del presidente della Corte d'Assise di Palermo che celebra il processo. "Non si può escludere un testimone perché afferma di non essere informato". Nell'udienza di oggi, Ciriaco De Mita non ricordava quando fosse avvenuta la strage di Via D'Amelio.
Giorgio Napolitano testimonierà al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato a Cosa Nostra, ma verrà ascoltato al Quirinale, senza l’accesso del pubblico e senza la presenza degli imputati, rappresentati dai loro legali. Lo ha deciso Alfredo Montalto, presidente della Corte d’Assise che, nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, sta processando boss mafiosi, politici e alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto che portò Cosa Nostra a sedere allo stesso tavolo delle istituzioni lungo il biennio al tritolo che sconquassò il Paese tra il 1992 e il 1994.
“In assenza di norme specifiche, ci atteniamo a quanto dettato dall’articolo 502 del codice di procedura penale”, ha detto Montalto emanando l’ordinanza che ammette la testimonianza del capo dello Stato: Napolitano dunque verrà ascoltato al Quirinale, alla sola presenza dei legali, senza la presenza degli imputati e senza l’accesso del pubblico. Sarà sempre il Colle a comunicare alla Corte d’Assise le date utili per fissare il giorno della deposizione del presidente della Repubblica. A chiedere di citazione come teste di Napolitano era stata la procura di Palermo, che l’aveva ottenuta già il 17 ottobre del 2013.
La tesi dei giudici, fissata nell’ordinanza della Corte d’assise, è che non si può escludere il diritto delle parti di chiamare un testimone su fatti rilevanti per il processo solo perché il testimone ha escluso di essere informato sui fatti stessi, come ha fatto appunto Napolitano: “La superfluità o irrilevanza di una prova testimoniale – scrivono i magistrati – deve essere valutata dal giudice esclusivamente in relazione ai fatti oggetto dell’articolato e alla sua riferibilità al teste indicato e non già in relazione a o in previsione di ciò che il teste medesimo può sapere o non sapere”. Alcuni legali avevano infatti preso spunto dalla lettera con cui Napolitano ha fatto sapere ai giudici di non essere a conoscenza di elementi utili al processo per chiedere alla corte di ripensarci e non ascoltare il presidente della Repubblica.
Ma la richiesta non è stata accolta: “Infatti – si legge nell’ordinanza - non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo solo perché quel testimone abbia, in ipotesi anche e, persino, in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi. E ciò quantomeno al fine di consentire alla parte richiedente di acquisire nel contraddittorio e nelle forme previste, prescritte per il processo, quel contenuto dichiarativo che, seppure negativo, riguardo alla conoscenza di determinati fatti, potrebbe tuttavia assumere una valenza non necessariamente neutra nel contesto delle altre acquisizioni probatorie e della loro valutazione interpretativa”. Non c’è dubbio, secondo i giudici, che la testimonianza del capo dello Stato sia “oltre che ammissibile, “né superflua né irrilevante. 
L’oggetto principale della testimonianza del capo dello Stato è rappresentato dalla missiva che Loris D’Ambrosio scrive a Napolitano il 18 giugno del 2012, poco dopo la chiusura dell’indagine sulla Trattativa: in quella lettera il consulente giuridico del Quirinale confessa al Presidente il suo timore per essere stato “utile scriba di indicibili accordi” tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, quando era in servizio all’Alto Commissariato Antimafia. Sempre in quei giorni vengono depositate le intercettazioni tra D’Ambrosio e Nicola Mancino, oggi imputato di falsa testimonianza. E Napolitano dovrà essere sentito anche sulla lettera inviata nell’aprile 2012 all’allora procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito in cui si esponevano le lamentele dell’ex presidente del Senato.
Dopo l’ordinanza della Corte d’Assise di Palermo che ammetteva la testimonianza del capo dello Stato, dal Quirinale era giunta una lettera in cui Napolitano riferiva ai giudici di non avere “da riferire alcuna conoscenza utile al processo”. “Sottopongo queste precisazioni alla sua attenzione – scriveva Napolitano a Montalto il 31 ottobre 2013 – affinché la Corte possa valutare nel corso del dibattimento, a norma dell’art. 495, co.4, c.p.p., il reale contributo che le mie dichiarazioni, sulle circostanze in relazione alle quali è stata ammessa la testimonianza, potrebbero effettivamente arrecare all’accertamento processuale in corso”.
Dopo la lettera del Colle sia l’Avvocatura dello Stato sia la difesa dell’ex senatore Marcello Dell’Utri (oggi condannato definitivamente per concorso esterno a Cosa Nostra) avevano chiesto alla corte di cancellare la testimonianza di Napolitano: i giudici avevano scelto di riservarsi nell’udienza del 28 ottobre 2013. Oggi, dopo quasi un anno, la riserva è stata sciolta: nonostante la lettera in cui diceva di non avere “da riferire alcuna conoscenza utile al processo”, Napolitano salirà comunque sul banco dei testimoni, seppur senza pubblico e alla sola presenza degli avvocati degli imputati, in una sala del Quirinale.
La decisione della corte d’assise di Palermo arriva alla fine di un’udienza in cui l’ex presidente del consiglio Ciriaco De Mita è stato ascoltato come teste. I pm hanno chiesto all’ex premier ragguagli sulla sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino alla guida del ministero degli Interni nel giugno 1992, proprio tra la strage di Capaci e quella di Via D’AmelioDe Mita, che ha 86 anni ed è attualmente sindaco di Nusco, ha però collocato l’attentato che uccise Paolo Borsellino addirittura nel 1993. “Ricorda quando avvenne la strage di via D’Amelio?”, ha chiesto il pm Nino Di Matteo. “Mi pare un anno dopo quella di Falcone” ha risposto De Mita che all’epoca era presidente della Democrazia Cristiana. In realtà le due stragi sono separate da soli 57 giorni. Nonostante i suoi 86 anni, De Mita ha però ricordato molto lucidamente diversi aneddoti degli anni Novanta, dalla sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino al Viminale, all’incontro con Giovanni Falcone dopo l’omicidio di Salvo Lima

giovedì 7 novembre 2013

Processo Trattativa, il pentito: “L’omicidio Dalla Chiesa fatto da Craxi e Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa Stato - Mafia


È un fiume in piena Francesco Onorato, collaboratore di giustizia e oggi testimone nell'aula bunker del carcere Ucciardone. Parla di Claudio Martelli e dell'omicidio Lima: "Trattativa? Ma quale Trattativa? Io ho visto solo la convivenza tra politica, Stato e mafia”.

L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa? “Lo hanno fatto i signori Craxi e Andreotti, che si sentivano il fiato addosso”. Claudio Martelli? “Cosa Nostra lo finanziò con 200 milioni per farlo diventare Guardasigilli”.Salvo Lima? “Il primo nome nella lista dei politici da eliminare, insieme a Giulio Andreotti, Calogero Mannino e Carlo Vizzini”. Il gruppo di fuoco della commissione di Cosa Nostra? “Farne parte era come giocare nella Nazionale di calcio”.
È un fiume in piena Francesco Onorato, collaboratore di giustizia e oggi testimone del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, in corso a Palermo all’aula bunker del carcere Ucciardone. Il boss aveva cercato di rinviare la sua testimonianza “perché – ha spiegato – non mi sento pronto moralmente e psicologicamente. A causa di un infortunio a mia moglie”. Pochi attimi dopo, però, ci ha ripensato aprendo a giudici e avvocati il libro dei ricordi tra morti ammazzati e rapporti a cavallo tra mafia e istituzioni. Una trentina di omicidi sul groppone, un passato da killer micidiale agli ordini di Saro Riccobono prima, e di Totò Riina poi, Onorato ha spiegato che “fare parte del gruppo di fuoco della Commissione di Cosa nostra era come fare parte della Nazionale di calcio: ci entravano persone con capacità particolari”.
Il 12 marzo del 1992 è suo l’indice che a Mondello preme il grilletto in via Danae: nel mirino c’è la chioma bianca dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima, primo politico da eliminare dopo le promesse fatte a Cosa Nostra, e poi non mantenute, sull’annullamento delle sentenze del Maxi processo, divenuto definitivo poche settimane prima. “Non ho fatto l’omicidio Lima perché era nel mio territorio – ha raccontato il pentito collegato in videoconferenza – ma era fuori dal mio territorio, dovevo partecipare anche all’attentato poi fallito del commissario di Polizia Rino Germanà, ma poi ci andò Leoluca Bagarella”.
L’omicidio di Salvo Lima è il primo atto di guerra che Riina rivolge allo Stato, primo pezzo della lunga catena che poi porterà le istituzioni a trattare con la piovra. “I primi politici da eliminare – ha raccontato Onorato – erano Salvo Lima e Giulio Andreotti. Ma c’erano anche Calogero Mannino, Vizzini, i cugini Salvo, Claudio Martelli, Ferruzzi e Gardini”. Secondo il collaboratore di giustizia lo stesso Martelli in passato avrebbe avuto contatti con le cosche. “Io da reggente della famiglia di Partanna Mondello, tra il 1987 e il 1988 presi 200 milioni per finanziare Claudio Martelli perché si diceva che faceva uscire i mafiosi dal carcere: l’abbiamo fatto diventare ministro della Giustizia”. Ed è proprio sui rapporti tra Cosa Nostra e lo Stato in tempi di stragi che Onorato ha concentrato la sua testimonianza. “Perché Riina accusa sempre lo Stato? – ha spiegato il collaboratore – Perché è l’unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente, per questo motivo Riina tira in ballo sempre lo Stato. Ha ragione ad accusare lo Stato, da Violante ad altri. È lo Stato che manovra, prima ci hanno fatto ammazzare Dalla Chiesa i signori Craxi e Andreotti che si sentivano il fiato addosso. Perché Dalla Chiesa non dava fastidio a Cosa Nostra Poi nel momento in cui l’opinione pubblica è scesa in piazza i politici si sono andati a nascondere. Per questo Riina ha ragione ad accusare lo Stato”. Paradigmatica anche la considerazione che l’ex killer dei corleonesi ha fatto sull’oggetto principale del processo. “Trattativa? Ma quale Trattativa? Io ho visto solo la convivenza tra politica, Stato e mafia”.

giovedì 21 marzo 2013

Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”.


Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”


Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’ex ministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”.

Si aggiunge un nuovo capitolo alla vicenda trattativa Stato-mafia. Non è penale, ma di assoluto rilievo. Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’exministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”. 
Nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, per cui nei giorni scorsi  il giudice per l’udienza preliminare di Palermo ha rinviato tutti gli imputati a giudizio, era emersa l’esistenza di conversazione tra l’ex presidente del Senato Mancino (all’epoca indagato, ndr) e Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica aveva sollevato un conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo – che ha sempre considerato quelle telefonate prive di rilievo. La Corte Costituzionale aveva quindi stabilito che il capo dello Stato, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Per questo i giudici aveva disposto la distruzione dei “nastri”.Che è stata disposta poco più di un mese fa dal gipLe conversazioni non sono state distrutte perché è stato presentato ricorso da parte degli avvocati di Massimo Ciancimino in Cassazione.
Nel provvedimento, notificato ai due magistrati tramite la Procura generale della Corte d’appello di Palermo, si contesta a Di Matteo, tra i titolari dell’ indagine sulla trattativa Stato-mafia, di “avere mancato ai doveri di diligenza e riserbo” in un’intervista rilasciata nel giugno scorso in cui il pm aveva “ammesso seppure non espressamente l’esistenza delle telefonate tra Mancino e Napolitano”. Secondo il pg in questo modo il magistrato avrebbe “indebitamente leso il diritto di riservatezza del capo dello Stato” riconosciuto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha accolto il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la procura di Palermo. Al procuratore, invece, si contesta di non avere segnalato le violazioni commesse da Di Matteo ai titolari dell’azione disciplinare.
La Consulta aveva stabilito che “non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
Per i magistrati della Corte Costituzionale “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente della Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri” non distruggendo immediatamente le conversazioni. I giudici osservavano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”.
La vicenda intercettazioni va avanti ormai da oltre un anno. Le telefonate risalgono infatti a fine 2011, ma la storia è divenuta pubblica solo nel giugno 2012. L’utenza messa sotto controllo su mandato degli inquirenti – vale la pena ricordarlo – era quella di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi diCosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90. Mancino, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha fatto diverse diverse telefonate contattando anche lo stesso Napolitano. Ma per chiudere la vicenda servirà ora anche il via libera definitivo della Suprema Corte. 

mercoledì 5 dicembre 2012

Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”


Trattativa, la Consulta accoglie ricorso del Quirinale. “Distruggere le intercettazioni”

La Consulta dà torto alla Procura di Palermo sulle telefonate del senatore Nicola Mancino al Colle, registrate nell'inchiesta sui patti fra Stato e Cosa nostra all'epoca delle stragi del 1992-1993. Accolta la tesi dell'inviolabilità assoluta del Colle. La tesi del legale dei pm: "E se progettasse un golpe?". Di Matteo: "Abbiamo sempre rispettato la legge".

La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo, sollevato riguardo alle intercettazioni telefoniche a carico del senatore Nicola Mancino, che si era rivolto al Colle per discutere dell’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia all’epoca delle stragi del 1992-1993.  La corte ha quindi accolto il principio dell’inviolabilità della riservatezza del capo dello Stato, anche nel caso in cui le intercettazioni riguardino un soggetto terzo che entra in contatto con il Quirinale. Le intercettazioni dovranno quindi essere distrutte.
“Non spettava” alla Procura di Palermo, secondo la Consulta, “valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica” captate nell’ambito dell’inchiesta. I pm di Palermo, di conseguenza, non potevano “omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione” di tali intercettazioni, “ai sensi dell’articolo 271, terzo comma, cpp e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”.
Per conoscere nel dettaglio la decisione assunta dalla Consulta dopo oltre 4 ore di Camera di Consiglio bisognerà attendere il deposito della sentenza, e quindi le motivazioni, che avverrà nelle prossime settimane, presumibilmente a gennaio. I giudizi costituzionali hanno accolto le tesi del Quirinale: ”La Procura di Palermo ha trattato queste come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime“, ha spiegato l’avvocato generale dello Stato Giuseppe Di Pace.  Così facendo si è “prodotto un vulnus nella riservatezza del Presidente”, ha aggiunto la collega Gabriella Palmieri, perché la Procura di Palermo, ipotizzando un’udienza stralcio di fronte al Gip per chiedere la distruzione delle intercettazioni, ha esposto quelle conversazioni del Capo dello Stato alla valutazione dei pm. E ancor più al rischio che una volta messe a disposizioni delle parti per eventuali usi processuali, potessero diventare pubbliche.
Bocciate invece la tesi della Procura di Palermo, riassunte dall’avvocato Alessandro Pace, che ha cercato di dimostrare come il ricorso del Quirinale potesse avere effetti paradossali. Innanzitutto, ha argomentato Pace, “un fatto fortuito“, come imbattersi nel presidente della Repubblica intercettando una terza persona, “non può essere oggetto di divieto. E’ mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?”. Nella parte finale del suo intervento, Pace si è chiesto che cosa dovrebbero fare i pm se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un colpo di Stato. Distruggere i file? E se questo “surplus di garanzie” valesse anche per ministri e premier, i magistrati non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro? Una via “lineare” di soluzione, ha suggerito il legale dei pm di Palermo, “potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio” sul contenuto delle telefonate intercettate.
Ma la Consulta ha indicato una strada del tutto diversa: quella prevista dall’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate. Quell’articolo afferma che il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgano soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico. A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l’Avvocatura e ha confermato la Consulta. Perché quella strada prevede che “il giudice decida senza contraddittorio”, hanno spiegato gli avvocati dello Stato, e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati. 
Un duro colpo per i magistrati di Palermo impegnati nella delicata inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, che vede imputati 12 persone tra politici, mafiosi e uomini delle forze dell’ordine. “Non credo che si debbano fare commenti allo stato”, afferma  il procuratore di Palermo Francesco Messineo, ”aspettiamo di leggere il provvedimento”. Interviene anche il pm Nino Di Matteo, uno dei titolari dell’inchiesta sulla trattativa coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia: “Vado avanti nel mio lavoro tranquillo, nella coscienza di avere agito correttamente e ritenendo di avere sempre rispettato la legge e la Costituzione”. Ingroia, attualmente in Guatemala per un incarico internazionale, si era detto sorpreso dell’iniziativa del capo dello Stato.
Nessuna reazione ufficiale al momento dal presidente Napolitano, ma le indiscrezioni fatte filtrare parlano di una naturale “soddisfazione” dopo un’attesa “serena”.  Quella di ricorrere alla suprema corte è stata sin dall’inizio “una decisione obbligata”, ha spiegato più volte Napolitano, perchè “né io né d’Ambrosio (il consigliere giuridico a cui si è rivolto Mancino, ndr) abbiamo mai interferito” con le indagini della procura di Palermo.
Secondo l’accusa, Mancino – che si insediò al Viminale a inizio luglio 1992 – avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90, durante la stagione delle stragi. Oggi Mancino è accusato di falsa testimonianza. Nel periodo che ha preceduto l’avvio del procedimento a Palermo che lo vede con altri imputato, ci sono stati contatti tra lui e il Colle, in particolare telefonate con Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico del Quirinale morto il 26 giugno, e in alcune occasioni, con lo stesso Napolitano.
Queste ultime conversazioni sono state in tutto quattro, come si è saputo dagli atti depositati per conto della Procura di Palermo su richiesta della Corte Costituzionale durante l’iter del conflitto tra poteri: in due casi a chiamare è stato Mancino, per altro alla vigilia di Natale 2011 e, pochi giorni dopo, il 31 dicembre; in altre due occasioni, a telefonare è stato il Presidente. Il contenuto delle conversazioni non è noto, ma la notizia dei colloqui tra i due è finita sui giornali e ha suscitato il caso che ha portato alla decisione del Quirinale di chiamare in causa la Consulta.

martedì 6 novembre 2012

Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia. - Giuseppe Pipitone


Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia


I magistrati depositano una memoria al processo di Palermo contro i 12 presunti responsabili del "patto scellerato" tra boss e uomini delle istituzioni. L'ex premier non è indagato, ma viene indicato come colui che, arrivato al governo 1994, assicura "garanzie" a Cosa nostra insieme al suo braccio destro. Nel documento di 22 pagine la ricostruzione, più storica che giudiziaria, di quei fatti.

La “travagliata” trattativa fra Stato e mafia “trovò finalmente il suo approdo”, nel 1994, “nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi. Lo scrivono i pm di Palermo, coordinati da Antonio Ingroia, nella “Memoria a sostegno di rinvio a giudizio” dei 12 imputati accusati di aver contribuito al perfezionamento del patto tra i boss di Cosa nostra e uomini delle istituzioni tra il 1992 e il 1994. Il documento di 22 pagine riassume 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti. E’ la summa dell’atto d’accusa, in cui l’espressione “Ragion di Stato” fa capolino fino alla fine. Nell’ultimo giorno da procuratore aggiunto a Palermo di Antonio Ingroia, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno depositato la memoria (qui il documento integrale) per meglio spiegare la richiesta di rinvio a giudizio, firmata nel luglio scorso, per i dodici indagati per quel “patto scellerato”. La settimana scorsa, davanti al gup Piergiorgio Morosini, si era tenuta la prima udienza preliminare del procedimento che vede per la prima volta alla sbarra importanti boss mafiosi insieme ad esponenti politici ed alti ufficiali del carabinieri. Un procedimento che si preannuncia difficile, soprattutto per la delicatezza del reato contestato a quasi tutti gli imputati, ovvero quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: violenza o minaccia al corpo politico dello Stato (“Trattativa, l’accusa e la difesa”: guarda l’infografica di ilfattoquotidiano.it).
Per meglio chiarire l’oggetto giuridico della loro inchiesta i pm Nino Di MatteoLia SavaFrancesco De Bene e Roberto Tartaglia, coordinati da Ingroia, hanno quindi deciso di fornire a Morosini anche una breve e stringatissima  ricostruzione dei fatti contestati agli imputati. Un analisi cronologica, più storica che giudiziaria, del biennio stragista 92-93, in cui i magistrati fanno un salto indietro  fino al 1989: prima del crollo del muro di Berlino, infatti, “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Ed è per questo che Cosa Nostra recide i rapporti con la politica dichiarando guerra allo Stato, lanciando contemporaneamente segnali di pace.
Una concatenazione di eventi che – secondo i pm – è interpretata da due frasi simbolo. “Una – scrivono – è quella di Riina, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». L’altra è del boss Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle»”. L’obiettivo strategico di Cosa Nostra è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché  fosse la mafia  “ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l’ingresso della mafia in politica, tout court”.
Per arrivare alla pace però c’è prima bisogno di fare la guerra. Una guerra in cui i protagonisti sono  “i boss mafiosi Riina, Provenzano, BruscaBagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”.
La minaccia secondo i pm si è realizzata, prospettando  “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.a) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”. È in questo contesto che finisce indagato Nicola Mancino per falsa testimonianza.  “Chi condusse la trattativa – scrivono sempre i pm – fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Il ruolo di Parisi, nel frattempo deceduto, sarebbe per i pm molto importante nel periodo in cui l’oggetto principale della trattativa era l’alleggerimento del 41 bis. Il capo della polizia infatti era molto vicino all’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro “che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
La trattativa però non è stata soltanto una delicata partita di scacchi con singoli obiettivi tattici, come salvare la vita agli uomini politici inseriti nella black list di Riina, o alleggerire il 41 bis. “Ma – spiegano i pm – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia”.
E per questo che dalla fine del 1993 in poi la trattativa prosegue dietro le quinte, senza clamore. “Si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri -Berlusconi (come emerge dalle convergenti dichiarazioni di Spatuzza,  Brusca e Giuffrè)”.  I pm infatti mettono nero su bianco che il nuovo patto Stato-mafia fu siglato nel 1994 ,“non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi”.  Una paragrafo della memoria i magistrati lo dedicano anche a Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno a Cosa Nostra e calunnia, ma anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose”.
Spazio anche alle nebulose testimonianze rese negli scorsi mesi dagli esponenti politici dell’epoca. “Questo Ufficio – scrivono i magistrati – è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi”. Un’amnesia dovuta forse a “una male intesa (perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali”. Una ragion di Stato che però non basta ad evitare il procedimento odierno. Il perché è tutto contenuto nell’ultima frase con cui i pm concludono la memoria: “Si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.

sabato 13 ottobre 2012

Romanzo Quirinale, the end. - Marco Travaglio.


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte Costituzionale dal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunte prerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che diceva Mancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.
Il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2012