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mercoledì 18 marzo 2015

Assunzioni irregolari a “Sicilia e Servizi”: indagati Crocetta e Ingroia.



L’ex magistrato Antonio Ingroia, il governatore siciliano, Rosario Crocetta, l’ex ragioniere generale della Regione, Mariano Pisciotta, e sei assessori della prima Giunta, sono indagati dalla Procura di Palermo con l’accusa di abuso di ufficio.
L’inchiesta mira ad accertare se furono commesse violazioni alla legge sulle assunzioni fatte nella partecipata regionale "Sicilia e Servizi" di cui Ingroia è amministratore unico. L’indagine fu inizialmente iscritta a carico di ignoti e, a luglio scorso, la Procura di Palermo decise di chiederne l’archiviazione.
Le scorse settimane, però, il gip, bocciando la scelta dei pm, ha ordinato all’ufficio inquirente di iscrivere nel registro degli indagati tutti i personaggi indicati nel rapporto della finanza che aveva indagato sulle presunte irregolarità nelle assunzioni.
Nell’informativa delle Fiamme Gialle si facevano, appunto, i nomi di Ingroia, Crocetta, Pisciotta e degli assessori Antonino Bartolotta, Ester Bonafede, Dario Cartabellotta, Nelli Scilabra, Michela Stancheris e Patrizia Valenti, componenti della Giunta che diede il via libera alle assunzioni.
Il cuore dell’indagine ruota attorno ad una legge che disponeva il blocco delle assunzioni e che sarebbe, dunque, stata violata. Sulla vicenda è in corso anche un procedimento contabile: Ingroia si è sempre difeso sostenendo che le assunzioni erano necessarie per evitare la paralisi della società e che, comunque, aveva potuto contare su un parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato. Saranno ora i pm, coordinati dall’aggiunto Dino Petralia, a decidere se richiedere nuovamente l’archiviazione o sviluppare l’indagine.

martedì 25 marzo 2014

Sicilia, Ingroia licenzia 16 dipendenti. Compresi parenti di politici e mafiosi. - Giuseppe Pipitone

Sicilia, Ingroia licenzia 16 dipendenti. Compresi parenti di politici e mafiosi


L'ex pm è commissario della disatrata società regionale di informatica Sicilia e-Servizi. Tra le persone allontanate la figlia del boss Giovanni Bontate, il figlio dell'ex sindaco di Palermo Cammarata: "Non hanno i requisiti". La Uilm: "Crocetta ci aveva rassicurato".

Sedici dipendenti licenziati ad appena tre mesi dall’assunzione. Tra loro anche gente dal cognome ingombrante come Marilena Bontate, figlia di Giovanni, boss di Villagrazia assassinato nel 1988. Lo ha deciso Antonio Ingroia, l’ex pm ora commissario di Sicilia e-Servizi, la società della Regione che si occupa di informatica. “I licenziamenti arrivano dopo che una commissione super partes da me nominata ha esaminato i dipendenti: non hanno passato i test scritti e orali. E in certi casi non c’era nemmeno il requisito dell’affidabilità” dice l’ex procuratore aggiunto di Palermo a ilfattoquotidiano.it.
Tra i sedici defenestrati c’è infatti Marco Picciurro, genero di Bontate, avendone sposato la figlia, a sua volta licenziata. Nella lista dei non idonei anche Francesco Nuccio, arrestato nell’estate del 2012 perché  coinvolto in un’inchiesta sulle tangenti che giravano nel mondo degli appalti per l’energia eolica. Facevano tutti parte dei 76 dipendenti provenienti dalla società privata che insieme alla Regione Siciliana controllava Sicilia e-Servizi, e  che Ingroia aveva assunto a gennaio con un contratto da diciotto mesi. “Abbiamo deciso di assumere il personale proveniente dall’ex socio privato perché la Regione non ha tra i propri dipendenti le figure professionali per gestire il servizi: in questo modo abbiamo evitato il blocco del sistema informatico che avrebbe mandato in tilt la Regione” si era giustificato l’ex pm, dato che le assunzioni avevano suscitato roventi polemiche.
La lista degli assunti infatti era infarcita di parenti di politiciburocrati regionali, se non addirittura boss mafiosi, come nel caso di Bontate Junior. Tra gli assunti Ettore Nicosia, fratello dell’ex capo di gabinetto dell’assessore Salvatore Cintola, il figlio del pari grado di Totò Cuffaro Massimo Sarrica, e l’erede dell’ex sindaco di Palermo Piero Cammarata. E mentre la Corte dei Conti ha aperto un’inchiesta sulle assunzioni (ancora in corso), Ingroia ha varato una commissione super partes, composta da un docente di informatica e da due generali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri (uno dei quali in passato ha anche indagato sulla trattativa Stato-mafia, inchiesta coordinata dallo stesso ex pm) per valutare l’effettivo valore dei neoassunti. Valore che evidentemente non è stato riscontrato dalla commissione, che quindi ha messo alla porta sedici dipendenti su settantasei. “Ma potrebbero esserci anche altri licenziamenti: c’è ancora un mese di prova” avverte l’ex procuratore aggiunto. “Il governatore Crocetta aveva assicurato che nessun lavoratore sarebbe stato licenziato. Sulla vicenda chiediamo un incontro” protesta invece Giuseppe Di Liberto della Uilm.
Ingroia era stato chiamato a mettere ordine in Sicilia e- Servizi nel luglio scorso, dopo che dalla società era arrivata una richiesta di finanziamento per due milioni e mezzo di euro: sarebbero serviti per trasferire nuovamente sull’isola tutti i dati della Regione, dato che erano finiti in Val D’Aosta non si sa bene per quale motivo. Esasperato dai costosissimi pasticci della società informatica, Crocetta aveva deciso di chiuderla, nominando commissario liquidatore lo stesso Ingroia. A dicembre però è arrivato l’ennesimo passo indietro: in Finanziaria infatti è previsto un riordino delle società partecipate che diventeranno soltanto nove. Tra queste anche Sicilia e-Servizi, la società in grado in passato di polverizzare 150 milioni di fondi comunitari, che dunque riesce sempre a rinascere dalle proprie ceneri. Non sarà l’Araba fenice, ma poco ci manca.

venerdì 26 luglio 2013

“La Costituzione stravolta nel silenzio”. L’appello contro la riforma presidenziale

Costituzione


Lucarelli, Salvi, Ingroia, La Valle, Giulietti e altri chiedono una firma per fermare la procedura di modifica della Carta messa in opera dalla maggioranza delle larghe intese. Che affossa l'articolo 138, umilia i parlamentari e tiene all'oscuro l'opinione pubblica. Mentre il Porcellum resta.

Pubblichiamo l’appello contro il ddl di riforma costituzionale firmato da Alessandro Pace, Alberto Lucarelli, Paolo Maddalena, Gianni Ferrara, Cesare Salvi, Massimo Villone, Silvio Gambino, Antonio Ingroia, Antonello Falomi, Domenico Gallo, Raffaele D’ Agata, Raniero La Valle, Beppe Giulietti e Mario Serio.
Ignorando il risultato del referendum popolare del 2006 che bocciò a grande maggioranza la proposta di mettere tutto il potere nelle mani di un “premier assoluto”, è ripartito un nuovo e ancor più pericoloso tentativo di stravolgere in senso presidenzialista la nostra forma di governo, posponendo a questa la indilazionabile modifica dell’attuale legge elettorale. In fretta e furia e nel pressoché unanime silenzio dei grandi mezzi d’informazione la Camera ha iniziato a esaminare il disegno di legge governativo, già approvato dal Senato, di revisione della Costituzione in plateale violazione della disciplina prevista dall’articolo 138, che costituisce la “valvola di sicurezza” pensata dai nostri Padri costituenti per impedire stravolgimenti della Costituzione.
Ci appelliamo a voi che avete il potere di decidere, perché il processo di revisione costituzionale in atto sia riportato nei binari della legalità costituzionale. Chiediamo che l’iter di discussione del disegno di legge costituzionale presentato dal governo Letta segua tempi e modi rispettosi del dettato costituzionale (…). Chiudere, a ridosso delle ferie estive, la prima lettura del disegno di legge, contrastando con le finalità dell’articolo 138 della Costituzione, impedisce un vero e serio coinvolgimento dell’opinione pubblica nel dibattito. In secondo luogo vi chiediamo di restituire al Parlamento e ai parlamentari il ruolo loro spettante nel processo di revisione della nostra Carta.
L’aver abbandonato la procedura normale di esame esplicitamente prevista dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame delle leggi costituzionali, l’aver attribuito al governo un potere emendativo privilegiato, la proibizione di porre le questioni pregiudiziali, sospensive o di non passaggio agli articoli, l’ impossibilità per i singoli parlamentari di sub-emendare le proposte del governo o del comitato, la proibizione per i parlamentari in dissenso con i propri gruppi di presentare propri emendamenti, le deroghe previste ai regolamenti di Camera e Senato, costituiscono altrettante scelte che umiliano e comprimono l’autonomia e la libertà dei parlamentari e quindi il ruolo e la funzione del Parlamento.
Le conseguenze di tali scelte si riveleranno in tutta la loro gravità allorché, una volta approvato questo disegno di legge, l’istituendo comitato per le riforme costituzionali porrà mano alla riforma delle strutture portanti della nostra organizzazione costituzionale (dal Parlamento al presidente della Repubblica, dal governo alle Regioni) sulla base delle norme che oggi la Camera sta approvando in flagrante violazione dell’art. 138. (…) Vi chiediamo ancora che le singole leggi costituzionali, omogenee nel loro contenuto, indichino con precisione le parti della Costituzione sottoposte a revisione. (…) Non si tratta, in definitiva, di un intervento di “manutenzione” ma di una riscrittura radicale della nostra Carta non consentita dalla Costituzione, che apre ampi spazi all’arbitrio delle contingenti maggioranze parlamentari.
Chiediamo, infine, che nell’esprimere il vostro voto in seconda lettura del provvedimento di modifica dell’articolo 138, consideriate che la maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti le Camere per evitare il referendum confermativo, in ragione di una legge elettorale che distorce gravemente e incostituzionalmente la rappresentanza popolare, non coincide con la realtà politica del corpo elettorale del nostro Paese. Rispettare questa realtà, vuol dire esprimere in Parlamento un voto che consenta l’indizione di un referendum confermativo sulla revisione dell’articolo 138. È in gioco il futuro della nostra democrazia. Assumetevi la responsabilità di garantirlo.

giovedì 10 gennaio 2013

Perché Grillo cala (se cala). - Andrea Scanzi



Sembra che il Movimento 5 Stelle stia dando qualche segno di cedimento nei sondaggi. Se sarà calo o slavina, dipenderà da Grillo, dagli attivisti e dalla casta. Resta il fatto che questo movimento è una realtà anomala in un paese per nulla aduso alle novità: politicamente l’Italia è il paese più reazionario d’Europa. 

Il Movimento 5 Stelle è in calo. Lo dicono i sondaggi. Piepoli, da sempre il più timido nell’ammettere i boom degli attivisti 5 stelle, parla di una ripartizione simile: Pd 33%, Pdl 17% (altri centrodestra 7), Coalizione Monti 12%, M5S 11%, Lega 6, Sel 6 (altri centrosinistra 3), Ingroia 5. 

La sensazione è che Ingroia sia sovrastimato e che Monti e Pdl cresceranno ancora (siamo in Italia, baby). Bersani un mese fa aveva già vinto e da allora non ne becca una (la sua sottovalutazione di Monti ha del leggendario). Perdere sembra impossibile, ma il centrosinistra può farcela. C’mon.

Gli altri istituti danno il movimento di Beppe Grillo tra il 13 e il 16-17. Il più attendibile, sinora, si è rivelato Swg, costantemente rilanciato dalla trasmissione Agorà su RaiTre. E’ stato il primo a rivelarne la crescita e continua ad accreditargli un 17 percento circa. Il calo, rispetto alla cifre che venivano sparate tra la vittoria a Parma e quella (come lista) in Sicilia, è comunque innegabile. E ha spiegazioni chiare.

Anzitutto occorre intendersi su quale sia il potenziale reale del Movimento 5 Stelle. Fino a un anno fa, quasi tutti ritenevano sufficiente lo sbarramento del 4 percento per disinnescare il M5S. Neanche sarebbe entrato alla Camera e al Senato. Nel giro di sei mesi, una forza data genericamente al 3% (sotto la voce “altri”) era divenuta “sicuramente” la seconda realtà politica italiana, poco distante dal Pd. Dal tutto al niente. Un po’ di misura, no?

Il Movimento 5 Stelle è realtà anomala in un paese per nulla aduso alle novità. Politicamente l’Italia è il paese più reazionario d’Europa, nato e morto democristiano (se va bene): gli elogi orgiastici della stampa “riformista” alla Rifondazione Cristiana di Mario Monti ne sono prova. In un paese simile, suonerebbe quasi rivoluzionario se Grillo raggiungesse a febbraio un risultato a due cifre. In qualità di virus benefico da inoculare nella casta infettatissima della politica italiana, non cambia poi molto se il risultato sarà 9, 11 o 14%. Il Movimento 5 Stelle deve entrare in Parlamento non per governare, ma per fare (con Ingroia) seria opposizione. Esattamente ciò che mai è accaduto con i Violante e i Crisafulli (che continueranno a vivere e lottare in mezzo a loro: wow).
Sì, ma perché il M5S sta calando?

1) Nelle ultime settimane non ci sono stati scandali come quelli di Lusi e Fiorito. L’effetto Primarie (belle le prime, con più ombre che luci le seconde) ha ridato un po’ di verginità al centrosinistra. Se la casta non lo “aiuta”, la capacità grillista di sfondamento scema.

2) Grillo è rimasto sullo sfondo. Di lui si è parlato poco. E qualcuno si è allontanato.

3) Dopo le elezioni siciliane, Grillo ha sbagliato molto. L’allontanamento di Favia e Salsi, in sé, è irrilevante: martiri di professione erano, sono e saranno. Gne gne. Entrambi in scadenza di secondo mandato, quindi con bisogno legittimamente ambizioso di ricollocazione (azzardiamo: il primo con gli Arancioni, la seconda nel centrosinistra come Serracchiani 2.0). Espellendoli, senza peraltro chiarirne troppo i motivi, Grillo ha dato loro – e a chi li ha sfruttati, dai giornali potenti a quelli nati solo per tratteggiarlo come novello Stalin (questi ultimi son durati poco) – un assist mirabile. Il “fuori dalle palle” resta un autogol monumentale. Con queste mosse, e con delle Parlamentarie rabberciate, qualcuno se n’è andato. Non molti (il tema della “democrazia interna” attrae poco l’attivista 5 stelle). Ma qualcuno sì. Che è tornato da mamma Pd. Oppure a Sel. O si è avvicinato agli Arancioni.

4) Appunto, gli Arancioni. Grillo non ha nulla da temere da Bersani, Vendola o Monti: gli drenano pochissimi voti. Ingroia (e chi lo segue, forse sfruttandolo come foglia di fico e forse no) pesca invece nello stesso bacino elettorale. E’ buffo che gli attivisti 5 stelle, forse per esorcizzarne il rischio, lo neghino, sostenendo che la Rivoluzione Civile tolga voti unicamente a Vendola. Macché. Ne toglie eccome a Grillo. Non parlo tanto dei venti-trentenni cibernauti, quanto dei quaranta-sessantenni di sinistra (e delusi dalla sinistra) che in mancanza d’altro si erano lentamente avvicinati a Grillo. Penso, per esempio, al normotipo santoriano (nel senso di Michele Santoro) o floresiano (nel senso di Paolo Flores D’Arcais). Per loro Ingroia (e De Magistris, e Di Pietro, volendo pure Ferrero e Diliberto) rappresentano ora una prospettiva maggiormente gradita. Su Ingroia politico ho qualche perplessità (sull’uomo e sul magistrato no), ma è del tutto auspicabile che una forza che raccoglie anche le Agende Rosse di Borsellino e il Popolo Viola entri, o torni, in Parlamento. La prospettiva massima, a febbraio, sembra coincidere per molti con un 20 percento complessivo di attivisti 5 stelle e arancioni, che condurranno quasi sempre le stesse battaglie. Il timore è un effetto Sinistra Arcobaleno 2: se si fermeranno poco sotto il 4 percento, gli Arancioni saranno serviti unicamente a togliere eletti alla cosiddetta “antipolitica”.

5) Berlusconi. Sembra impossibile (ad alcuni: a me no) che ci siano ancora tanti disposti a rivotare un figuro sempre più impresentabile, nonché sinapticamente devastatissimo, ma questa è l’Italia. Berlusconi non è morto politicamente: ogni volta che stava per accadere, qualcuno lo ha salvato (D’Alema, Veltroni, Napolitano). A febbraio ne ripagheremo le conseguenze. Il Pdl, senza Lega, si attesterà – temo – poco sotto il 25: cifra inaudita, tenendo conto dei disastri compiuti. Se poi Berlusconi si alleerà con Maroni, al Senato avrà luogo un pareggio e l’inciucione Bersani-Monti (con Vendola a girarsi i pollici) sarà cosa certissima (certa lo è già). Questo conato di berlusconismo riguarda anche il M5S: non pochi delusi da destra, dopo aver flirtato con Grillo, si faranno nuovamente rincitrullire dal Bollito. Vamos.

6) Se Renzi avesse vinto le Primarie, il centrosinistra avrebbe stravinto, Berlusconi non avrebbe più appeal e il Movimento 5 Stelle sarebbe sceso molto di più. Il vero anti-Grillo non è Bersani (ahahah) e neanche Ingroia (che casomai è un Grillo 2), ma il sindaco di Firenze. Da non renziano, trovo inattaccabile la coerenza del Renzi post-primarie. Complimenti.

Nelle prossime settimane, facendo comizi ovunque (le piazze dei Firma Day e Massacro Tour erano piene: questa crisi M5S c’è davvero?), Beppe Grillo si giocherà tutto. Se resta in panchina si ammoscia, se sgomita nella mischia si esalta. Dopo le epurazioni è diventato più “conciliante”. Ha ammesso qualche sbaglio (che per lui, disabituato alla critica, è tantissimo). Ha recitato (per strategia e non solo) la parte del martire sulla vicenda-firme. E’ sembrato perfino più istituzionale (il discorso crepuscolare di Capodanno).

Prima di Parma, Pizzarotti era dato al 3 percento; prima delle regionali siciliane, Cancelleri al 7. I sondaggi sono anch’essi strumenti di propaganda elettorale e il M5S è realtà liquida. Se sarà calo o slavina, dipenderà da Grillo, dagli attivisti e dalla casta (per meglio dire: dal suo livello di masochismo inconsapevole).
Saranno settimane di guerriglia. Copritevi bene, che per la democrazia italiana sarà un inverno rigidissimo.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/03/perche-grillo-cala-se-cala/460169/

martedì 6 novembre 2012

Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia. - Giuseppe Pipitone


Trattativa, i pm: “Berlusconi e Dell’Utri approdo” del patto con la mafia


I magistrati depositano una memoria al processo di Palermo contro i 12 presunti responsabili del "patto scellerato" tra boss e uomini delle istituzioni. L'ex premier non è indagato, ma viene indicato come colui che, arrivato al governo 1994, assicura "garanzie" a Cosa nostra insieme al suo braccio destro. Nel documento di 22 pagine la ricostruzione, più storica che giudiziaria, di quei fatti.

La “travagliata” trattativa fra Stato e mafia “trovò finalmente il suo approdo”, nel 1994, “nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi. Lo scrivono i pm di Palermo, coordinati da Antonio Ingroia, nella “Memoria a sostegno di rinvio a giudizio” dei 12 imputati accusati di aver contribuito al perfezionamento del patto tra i boss di Cosa nostra e uomini delle istituzioni tra il 1992 e il 1994. Il documento di 22 pagine riassume 120 faldoni di prove, testimonianze, intercettazioni e documenti. E’ la summa dell’atto d’accusa, in cui l’espressione “Ragion di Stato” fa capolino fino alla fine. Nell’ultimo giorno da procuratore aggiunto a Palermo di Antonio Ingroia, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno depositato la memoria (qui il documento integrale) per meglio spiegare la richiesta di rinvio a giudizio, firmata nel luglio scorso, per i dodici indagati per quel “patto scellerato”. La settimana scorsa, davanti al gup Piergiorgio Morosini, si era tenuta la prima udienza preliminare del procedimento che vede per la prima volta alla sbarra importanti boss mafiosi insieme ad esponenti politici ed alti ufficiali del carabinieri. Un procedimento che si preannuncia difficile, soprattutto per la delicatezza del reato contestato a quasi tutti gli imputati, ovvero quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: violenza o minaccia al corpo politico dello Stato (“Trattativa, l’accusa e la difesa”: guarda l’infografica di ilfattoquotidiano.it).
Per meglio chiarire l’oggetto giuridico della loro inchiesta i pm Nino Di MatteoLia SavaFrancesco De Bene e Roberto Tartaglia, coordinati da Ingroia, hanno quindi deciso di fornire a Morosini anche una breve e stringatissima  ricostruzione dei fatti contestati agli imputati. Un analisi cronologica, più storica che giudiziaria, del biennio stragista 92-93, in cui i magistrati fanno un salto indietro  fino al 1989: prima del crollo del muro di Berlino, infatti, “la grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale”. Dopo invece si determina “la fine della giustificazione storica della collaborazione con la grande criminalità”. Ed è per questo che Cosa Nostra recide i rapporti con la politica dichiarando guerra allo Stato, lanciando contemporaneamente segnali di pace.
Una concatenazione di eventi che – secondo i pm – è interpretata da due frasi simbolo. “Una – scrivono – è quella di Riina, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». L’altra è del boss Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle»”. L’obiettivo strategico di Cosa Nostra è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché  fosse la mafia  “ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l’ingresso della mafia in politica, tout court”.
Per arrivare alla pace però c’è prima bisogno di fare la guerra. Una guerra in cui i protagonisti sono  “i boss mafiosi Riina, Provenzano, BruscaBagarella e il postino del papello Antonino Cinà, autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia a un corpo politico dello Stato, in questo caso il governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima. L’avvio di una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell’epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”.
La minaccia secondo i pm si è realizzata, prospettando  “agli uomini-cerniera (ovvero i politici come Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, e i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno n.d.a) perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del governo, l’organizzazione e l’esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”. È in questo contesto che finisce indagato Nicola Mancino per falsa testimonianza.  “Chi condusse la trattativa – scrivono sempre i pm – fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo Scotti era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre Mancino veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”.
Il ruolo di Parisi, nel frattempo deceduto, sarebbe per i pm molto importante nel periodo in cui l’oggetto principale della trattativa era l’alleggerimento del 41 bis. Il capo della polizia infatti era molto vicino all’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro “che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti Scotti-Mancino e Martelli-Conso, e nella sostituzione di Nicolò Amato col duo Capriotti-Di Maggio, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
La trattativa però non è stata soltanto una delicata partita di scacchi con singoli obiettivi tattici, come salvare la vita agli uomini politici inseriti nella black list di Riina, o alleggerire il 41 bis. “Ma – spiegano i pm – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia”.
E per questo che dalla fine del 1993 in poi la trattativa prosegue dietro le quinte, senza clamore. “Si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri -Berlusconi (come emerge dalle convergenti dichiarazioni di Spatuzza,  Brusca e Giuffrè)”.  I pm infatti mettono nero su bianco che il nuovo patto Stato-mafia fu siglato nel 1994 ,“non prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena insediatosi”.  Una paragrafo della memoria i magistrati lo dedicano anche a Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno a Cosa Nostra e calunnia, ma anche “fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose”.
Spazio anche alle nebulose testimonianze rese negli scorsi mesi dagli esponenti politici dell’epoca. “Questo Ufficio – scrivono i magistrati – è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi”. Un’amnesia dovuta forse a “una male intesa (perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali”. Una ragion di Stato che però non basta ad evitare il procedimento odierno. Il perché è tutto contenuto nell’ultima frase con cui i pm concludono la memoria: “Si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.