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giovedì 12 dicembre 2013

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa, Brusca: “Il papello a Mancino. Capaci strage anche contro Andreotti”


Ci sono tutti i retroscena del patto tra Cosa nostra e le Istituzioni nella deposizione di Giovanni Brusca, l'ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d'assise di Palermo in trasferta all'aula bunker Milano. Dove non c'era per le minacce ricevute il pm Di Matteo.

Il papello con le richieste di Riina consegnato a Mancino e la strage di Capaci anticipata per scalzare Giulio Andreotti nella corsa al Quirinale. Dopo quel botto spaventoso, gli uomini di Cosa Nostra brindarono due volte. Ci sono tutti i retroscena della Trattativa Stato – mafia nella deposizione di Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, uno dei testimoni chiave, interrogato per tre udienze consecutive dalla corte d’assise di Palermo in trasferta all’aula bunker Milano.
“Riina diceva che ad Andreotti dovevamo rompere le corna, ostacolandolo, non facendolo diventare presidente della Repubblica. E ci siamo riusciti, anche anticipando la strage Falcone. Dopo il 23 maggio, Riina mi disse: con una fava abbiamo preso due piccioni” ha detto il pentito, nella prima delle tre udienze milanesi programmate per la sua deposizione. L’ex padrino di San Giuseppe Jato è diventato collaboratore di giustizia nel 2000, iniziando a raccontare dei rapporti di Cosa Nostra con la politica soltanto alcuni anni dopo. “Perché non raccontai subito dei rapporti con Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri? Decisi di dire tutto quello che sapevo dopo aver incontrato Rita Borsellino che voleva sapere la verità sulla morte del fratello. A lei io diedi l’anima e da quel momento non mi interessò più di mafia, di giustizia, di niente” ha detto Brusca, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi.
Sui banchi dell’accusa svetta l’assenza del pm Nino Di Matteo: l’uomo che forse più di tutti conosce i vari rivoli del processo sul patto Stato – mafia è stato bersaglio continuo di pesanti minacce di morte da parte del boss Totò Riina, che proprio a Milano è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera. Il nome del boss corleonese è citato a più riprese da Brusca, che ha raccontato alla corte i retroscena del biennio stragista, prequel del nuovo patto Stato-mafia.
Tutto comincia nel 1991, quando Riina illustra ai suoi luogotenenti il piano di aggressione allo Stato. “Nel corso di una riunione, nel ’91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli, di Purpura. Disse: gli dobbiamo rompere le corna. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. La prima vittima della furia corleonese è Salvo Lima, assassinato il 12 marzo del 1992 sul lungomare di Mondello. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: si è trattato di una vendetta con effetto politico, in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima” ha spiegato il boss di San Giuseppe Jato, che all’epoca svolse un ruolo fondamentale nell’intelligence di morte interna a Cosa Nostra. “Mannino doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Anche l’ ex ministro Calogero Mannino – così come lo stesso Brusca, Riina e altre otto persone tra boss mafiosi, politici e ufficiali dei carabinieri – è accusato di violenza a corpo politico dello Stato nel processo sulla trattativa, ma ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Dopo i politici, Cosa Nostra decide di colpire Falcone, distruggendo nello stesso momento le residue ambizioni che Andreotti nutriva per il Quirinale. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio” ha spiegato Brusca, che in Cosa Nostra si era già guadagnato l’appellativo di Verru, cioè il porco. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone – continua Brusca – Toto’ Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Anche l’ex vicepresidente del Csm è imputato nel processo ma per falsa testimonianza. Brusca ha anche raccontato che dopo l’omicidio di Falcone, Riina ipotizzò di eliminare anche Pietro Grasso: attentato che poi per motivi tecnici non si fece mai.
È però la strage di Capaci lo spartiacque che terrorizza l’intero Paese. Brusca ha raccontato come l’omicidio di Falcone fosse in origine stato progettato fuori dalla Sicilia, a Roma, dove da qualche tempo il magistrato era andato a dirigere gli affari penali del ministero della Giustizia. “Siccome chi doveva farlo stava perdendo tempo Riina si rivolse a me e mi diede quel compito: voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato, infatti mi disse di impiegare mille chili di esplosivo”. Una decisione, quella di ammazzare Falcone in Sicilia, che contrappone, forse per la prima volta, le due anime di Cosa Nostra: quella di Riina e quella di Provenzano. “Avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità.Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: io lo devo uccidere qua”.
Il 23 maggio del 1992 a guardare le tre Fiat Croma blindate che sfilano sull’autostrada c’è anche Brusca: ha in mano un telecomando, che aziona quando mancano meno di tre minuti alle 18, scatenando quello che i boss definirono l’Attentatuni, il grande attentato per assassinare il loro più acerrimo nemico.

giovedì 21 marzo 2013

Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”.


Trattativa, pg Cassazione: “Azione disciplinare contro i pm di Palermo”


Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’ex ministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”.

Si aggiunge un nuovo capitolo alla vicenda trattativa Stato-mafia. Non è penale, ma di assoluto rilievo. Il procuratore generale della Cassazione ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del pm di Palermo Nino Di Matteo e, per una violazione minore, del procuratore del capoluogo Francesco Messineo. A Di Matteo si contesta l’avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’exministro dell’Interno Mancino e il capo dello Stato”. 
Nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, per cui nei giorni scorsi  il giudice per l’udienza preliminare di Palermo ha rinviato tutti gli imputati a giudizio, era emersa l’esistenza di conversazione tra l’ex presidente del Senato Mancino (all’epoca indagato, ndr) e Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica aveva sollevato un conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo – che ha sempre considerato quelle telefonate prive di rilievo. La Corte Costituzionale aveva quindi stabilito che il capo dello Stato, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Per questo i giudici aveva disposto la distruzione dei “nastri”.Che è stata disposta poco più di un mese fa dal gipLe conversazioni non sono state distrutte perché è stato presentato ricorso da parte degli avvocati di Massimo Ciancimino in Cassazione.
Nel provvedimento, notificato ai due magistrati tramite la Procura generale della Corte d’appello di Palermo, si contesta a Di Matteo, tra i titolari dell’ indagine sulla trattativa Stato-mafia, di “avere mancato ai doveri di diligenza e riserbo” in un’intervista rilasciata nel giugno scorso in cui il pm aveva “ammesso seppure non espressamente l’esistenza delle telefonate tra Mancino e Napolitano”. Secondo il pg in questo modo il magistrato avrebbe “indebitamente leso il diritto di riservatezza del capo dello Stato” riconosciuto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha accolto il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la procura di Palermo. Al procuratore, invece, si contesta di non avere segnalato le violazioni commesse da Di Matteo ai titolari dell’azione disciplinare.
La Consulta aveva stabilito che “non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
Per i magistrati della Corte Costituzionale “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente della Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri” non distruggendo immediatamente le conversazioni. I giudici osservavano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”.
La vicenda intercettazioni va avanti ormai da oltre un anno. Le telefonate risalgono infatti a fine 2011, ma la storia è divenuta pubblica solo nel giugno 2012. L’utenza messa sotto controllo su mandato degli inquirenti – vale la pena ricordarlo – era quella di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi diCosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90. Mancino, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha fatto diverse diverse telefonate contattando anche lo stesso Napolitano. Ma per chiudere la vicenda servirà ora anche il via libera definitivo della Suprema Corte. 

lunedì 10 dicembre 2012

E adesso Mancino parli. - Sandra Bonsanti



C’è un momento, un’ora in questa drammatica storia della trattativa tra Stato e mafia su cui Nicola Mancino conosce la verità e, se volesse, potrebbe finalmente dirla.
E’ il primo luglio del 1992. Paolo Borsellino, poco più d’un mese dopo la strage di Capaci, è a Roma e sta interrogando, in gran segreto, Gaspare Mutolo, il mafioso che sta cominciando a collaborare.
Mentre si sta svolgendo l’interrogatorio il magistrato riceve una telefonata: dal Viminale gli chiedono di recarsi a incontrare il nuovo ministro dell’Interno, Mancino, appunto, che vorrebbe salutarlo.
Borsellino interrompe l’interrogatorio. Va al Viminale, attende in anticamera e arriva Bruno Contrada, l’uomo dei servizi. Con una battuta gli fa sapere che lui sa che Mutolo sta parlando.
Poi Borsellino entra a salutare Mancino. Infine, torna a completare l’interrogatorio. Che riprende sugli intrecci Stato-mafia.
La sera, Borsellino telefona a Gioacchino Natoli che oggi presiede il tribunale di Marsala. Gli racconta l’accaduto. Gli dice che non sa come mai Contrada fosse informato. Gli dice: “Non siamo al sicuro”.
Diciotto giorni dopo anche Borsellino viene ucciso.
Mancino non ricorda: di aver visto Borsellino, quel giorno. Poi ammette che forse gli ha stretto la mano, uno fra tanti.
Mancino sa di cosa si parlò il primo luglio del ’92 al Viminale. E’ il suo segreto. Un segreto attorno al quale ruota da anni l’inchiesta sulla trattativa. Mancino sa e deve parlare. Tanto più ora, dopo la sentenza della Corte.
Mancino è stato un protagonista della vita politica nella Prima Repubblica, nel bene e nel meno bene.
Non può esser creduto quando sostiene di non ricordare.
L’insistenza con la quale cercava protezione dal Quirinale, mettendo nei guai anche il Capo dello Stato, ci dice qualcosa. E’ la spia della volontà o della necessità di mantenere un silenzio.
Bisogna che oggi trovi il coraggio di raccontare cosa accadde quel primo luglio del ’92 nel suo nuovo ufficio al Viminale: chi era presente, cosa si disse, cosa gli fu detto sull’uccisione di Falcone e sulle richieste della Cupola.
Da oggi Nicola Mancino deve ricordarsi davvero tutto, a partire dal terrore dei politici democristiani dopo l’uccisione di Salvo Lima, dopo la morte di Falcone; di quei minuti che segnarono forse la vita anche di Paolo Borsellino.
E degli altri che morirono nelle stragi del 1993.
Bisogna che finalmente su questa pagina tremenda della nostra storia si faccia verità e giustizia.


http://www.libertaegiustizia.it/2012/12/05/e-adesso-mancino-parli/

giovedì 6 dicembre 2012

Stato-mafia, la Procura: "Tratteniamo le intercettazioni del Quirinale".




Palazzo di giustizia di Palermo
La Procura di Palermo sta valutando l’esecutività del provvedimento con cui la Corte costituzionale ha sostanzialmente imposto la distruzione delle conversazioni telefoniche, intercettate casualmente, fra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha reso noto il capo della Procura del capoluogo siciliano, Francesco Messineo, dopo che stamattina il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Roberto Tartaglia hanno studiato il caso. Sono stati consultati anche alcuni costituzionalisti.
Due le ipotesi: la prima è quella di attendere le motivazioni della decisione della Consulta, che arriveranno a gennaio, dunque tenendo tutto fermo per un mese ancora. La seconda si basar sul comunicato in cui la stessa Corte ha sintetizzato i contenuti della sentenza. “Il comunicato – obiettano pero’ i componenti del pool – non ha valore giuridico, né efficacia vincolante”.
Messineo però resta cauto: “Se dovessimo accertare che questa nota è immediatamente esecutiva, dovremmo attivare la procedura subito e mandare tutto al gip. Il problema è squisitamente giuridico”.
Le intercettazioni però, allo stato attuale, non sono state distrutte e si trovano ancora in Procura. Una volta che passeranno al Gip, sarà quest’ultimo a decidere.
Non pochi dubbi e perplessità su una situazione che non ha eguali e su cui, come dice Messineo, “stiamo cercando, se ce ne sono, eventuali precedenti”.
Costituzionalmente ragionando è possibile ignorare la decisione della Consulta poichè la Magistratura è un organo di Governo istituzionale indipendente. Resta solo da stabilire se la Consulta ha potere decisionale sulla Magistratura, cosa che mi sembra improbabile.
Art. 101. della Costituzione
La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
cetta.

sabato 13 ottobre 2012

Romanzo Quirinale, the end. - Marco Travaglio.


Finalmente, dopo tre mesi di sanguinose accuse fondate sul nulla, anzi sul falso, la Procura di Palermo può difendersi alla Corte Costituzionale dal conflitto di attribuzioni scatenato dal presidente Napolitano.
La questione, come i nostri lettori ben sanno, nasce dalle telefonate (quattro, si apprende ora) fra il capo dello Stato e Nicola Mancino, indirettamente e casualmente intercettate sui telefoni di quest’ultimo, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Secondo il Quirinale, incredibilmente spalleggiato dall’Avvocatura dello Stato, la Procura avrebbe dovuto procedere all’“immediata distruzione delle intercettazioni casuali del Presidente” perché The Voice è inintercettabile e financo inascoltabile. La Procura non le ha fatte trascrivere né utilizzate, giudicandole penalmente irrilevanti, e si è riservata di chiederne la distruzione al gip secondo la legge: cioè in udienza alla presenza degli avvocati dei 12 imputati che possono ascoltarle ed eventualmente chiedere di usarle per esercitare i diritti di difesa. La cosa ha fatto saltare la mosca al naso a Napolitano e ai suoi cattivi consiglieri, terrorizzati dal rischio che un avvocato, dopo averle ascoltate, ne divulgasse il contenuto. Che, per motivi misteriosi (almeno per noi cittadini), deve restare un segreto di Stato. Di qui il conflitto con cui Napolitano, tramite l’Avvocatura, chiede alla Consulta di censurare i pm di Palermo per un delitto da colpo di Stato: “lesione” e “menomazione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” perpetrata sia con “la valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione”, sia con “la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento”, sia con “l’intento di attivare una procedura camerale” regolata dal contraddittorio tra le parti.
A lume di Codice, ma soprattutto di logica e di buonsenso, abbiamo più volte scritto che la pretesa del Colle è insensata. Ora l’insensatezza è autorevolmente confermata dalla memoria della Procura, firmata dall’ex presidente dell’Associazione dei costituzionalisti italiani Alessandro Pace e dagli avvocati Serges e Serio. I quali, prim’ancora di avventurarsi nell’interpretazione delle presunte prerogative del Presidente, dimostrano come il Quirinale e l’Avvocatura abbiano sbagliato indirizzo: ammesso e non concesso che le telefonate andassero distrutte subito, non poteva farlo la Procura, visto che quel potere è affidato in esclusiva al giudice. Cioè: eventualmente il conflitto andava sollevato contro il gip. Non solo: se, come ammette la stessa Avvocatura per conto del Colle, le intercettazioni furono “casuali” quindi involontarie, come si può sostenere che erano “vietate”? S’è mai vista una norma che vieta qualcosa di involontario e casuale? Per questi due motivi preliminari il conflitto è “inammissibile”, con buona pace della Consulta che s’è affrettata a dichiararlo ammissibile.
Poi è anche infondato, per diversi motivi di merito. Intanto i pm dovevano valutare quel che diceva Mancino, a meno di regalargli un’”immunità contagiosa” derivante dal fatto che parlava con Napolitano. E poi nessuna norma costituzionale né procedurale ha mai stabilito la non intercettabilità indiretta (e nemmeno, in via assoluta, quella diretta) del capo dello Stato. Che non è un monarca assoluto, infatti è immune solo nell’esercizio delle sue funzioni. Dunque la prerogativa invocata dal Colle non esiste. Ergo i pm non hanno leso alcunché. Anzi avrebbero violato il principio costituzionale del contraddittorio e i diritti delle difese se avessero obbedito al Colle. A questo siamo: a un presidente della Repubblica (e del Csm) che istiga la magistratura a violare la legge e la Costituzione. A sua insaputa, si capisce.
Il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2012

venerdì 12 ottobre 2012

Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”.


Trattativa, i pm depositano memoria difensiva: “Immunità è solo per il re”


La procura di Palermo deposita la costituzione in giudizio di fronte alla Consulta per il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica. Dagli atti emerge che le telefonate - quattro in tutto su 9295 telefonate di Mancino captate - non sono mai state trascritte nei brogliacci della polizia giudiziaria. "L'immunità assoluta contraddice i principi democratico-costituzionali".

Se immune da ogni responsabilità il Capo dello Stato diventa un sovrano. E’ questa la tesi sostenuta dalla procura di Palermo nel costituzione in giudizio presentata questa mattina di fronte ai giudici della Consulta nel conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato. “Un’immunità assoluta” – si legge nel testo – può essere ipotizzata per il Capo dello Stato “solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irreponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali”. E una tale “irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di ‘inviolabile’ che caratterizza il Sovrano nelle monarchie ancorché limitate”. 
Come effetto, scrivono i magistrati di Palermo, una “vistosa serie di gravi conseguenze” potrebbe derivare da una “eventuale decisione di accoglimento” del ricorso del Quirinale. “Ci si deve chiedere – prosegue il testo – se una garanzia dell’immunità presidenziale – si legge nel documento firmato dai professori Pace, Serges e Serio – così irrazionalmente dilatata al di là dei limiti segnati per le intercettazioni legittime” da altre sentenze della Corte (n.390/2007; n.113 e n.114 del 2010) “non finisca per costituire una violazione dell’obbligatorietà dell’azione penale” (articolo 112 Costituzione) e “ciò per motivi privi di fondamento in Costituzione ed anzi contrari alla giurisprudenza di codesta Corte e tutt’affatto irrazionali”. 
Intanto, sempre leggendo la memoria della procura di Palermo – un documento di 32 pagine - si scopre che sono quattro le telefonate intercettate tra Nicola Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quattro su un totale di 9.295 conversazioni captate sulle utenze dell’ex ministro dell’Interno. 
E’ stata la stessa Corte Costituzionale, nell’ordinanza con cui ha ammesso il ricorso di Napolitano, a richiedere alla Procura di Palermo quante siano state le conversazioni di Napolitano indirettamente captate e in che date sono avvenute. Gli atti depositati dalla Procura di Palermo riferiscono che le telefonate effettuate da Mancino sono state registrate in un arco di tempo che complessivamente va dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012: sei le utenze messe sotto controllo. Le quattro telefonate al Capo dello Stato, indirettamente intercettate, sono state effettuate da Mancino nelle seguenti date: il 24 dicembre 2011 alle ore 9.40 (durata 3 minuti): il 31 dicembre 2011 alle ore 8.48 (durata 6 minuti); il 13 gennaio 2012 alle ore 12.52 (durata 4 minuti); il 6 febbraio 2012 alle ore 11.12 (durata 5 minuti).
Scrivono i pm nella costituzione in giudizio che “l’intercettazione della conversazione del Presidente della Repubblica che sia occasionale, del tutto involontaria, non evitabile e non prevenibile, non può per la ragione di tali caratteristiche, integrare in sè alcuna lesione di prerogative previdenziali quali che sia il contenuto della conversazione”.
Aggiungono inoltre i magistrati che Il verbale della polizia giudiziaria relativo alle intercettazioni indirette del Capo dello Stato è stato redatto “senza l’indicazione del contenuto della conversazione”. Era stata la stessa Corte Costituzionale a chiedere il verbale, il cosiddetto “brogliaccio”, delle intercettazioni. Si legge nella memoria che non è stato effettuato, “anche su disposizione della Procura della Repubblica di Palermo, alcuna trascrizione delle conversazioni tra il sen. Mancino e il Presidente della Repubblica le cui registrazioni sono tuttora custodite dalla Procura della Repubblica nell’ambito del procedimento 11609/08 nel quale sono state disposte ed eseguite. Deve quindi essere sottolineato – si legge ancora negli atti depositati oggi in Corte Costituzionale – che le conversazioni con il Presidente della Repubblica non hanno mai formato oggetto di deposito che determinasse la possibilità della conoscenza ad opera di qualsivoglia parte processuale”.