I parlamentari saranno poi incentivati a lavorare più e meglio, perché la loro attività legislativa – proposte di legge, emendamenti, interventi in aula, interrogazioni – sarà più incisiva. Con meno eletti, ciascuno avrà più peso nel dibattito interno ai partiti e in quello con le altre forze politiche, essendo più difficile delegare le responsabilità sugli altri.
2 Il taglio è un segnale di giustizia sociale.
Dopo parecchi anni di lacrime e sangue – come si diceva fino a qualche tempo fa – e di sacrifici imposti ai cittadini (tanto più con la crisi provocata dal Covid), il taglio dei parlamentari sarebbe uno dei rari casi in cui è la politica a mettersi a dieta. Un gesto simbolico, oltre che di sostanza. Non solo: da qualche tempo i partiti hanno accettato, talvolta loro malgrado, spesso su pressione o per paura del Movimento 5 Stelle, qualche taglio ai loro sprechi. Si sono tagliati i vitalizi (anche se al Senato tentano di farli rientrare dalla finestra), hanno abolito il finanziamento pubblico e infine hanno approvato la riduzione delle proprie poltrone.
Se vincesse il No, la Casta avrebbe ottimi motivi per tirare un sospiro di sollievo e considerare il risultato del referendum come un alibi per interrompere questo processo virtuoso di autoriforma contro i privilegi e gli sprechi, e magari sentirsi in diritto di riprendersi anche ciò che faticosamente era stato tagliato negli ultimi anni.
3 Abbiamo quasi 2mila “legislatori”: troppi.
Quando la Carta entrò in vigore, nel 1948, si pensò di legare la quantità di seggi in Parlamento al numero degli abitanti, rendendo quindi variabile la composizione di Camera e Senato a seconda della popolazione. Solo nel 1963 si arrivò, attraverso una riforma costituzionale voluta dalla Dc e dai suoi alleati, all’attuale formazione di 630 deputati e 315 senatori. Ma né nel 1963 né tantomeno nel 1948 esistevano i consigli regionali e il Parlamento europeo: istituzioni legislative che garantiscono ulteriore rappresentanza politica, da una parte con un ente intermedio tra Stato e Comune e dall’altra portando i nostri interessi nell’Unione. Ma che han fatto lievitare il numero dei legislatori eletti a 1918: 945 parlamentari, 76 eurodeputati e 897 consiglieri regionali.
Per i primi consigli regionali si votò nel 1970 e per il Parlamento europeo nel 1979. Circostanze che oggi consentono di ridurre quel numero di parlamentari nazionali deciso nel 1963, in un contesto che concentrava l’intera produzione legislativa e la rappresentanza a Roma: ora le leggi si fanno anche a Bruxelles e nelle Regioni.
4 Si apre la strada a una nuova legge elettorale.
Come sostiene la costituzionalista Lorenza Carlassare, il Sì permetterà – anzi imporrà, non foss’altro che per ridisegnare collegi più ampi – di “approvare una legge elettorale” che (si spera, e ci batteremo per questo) restituisca agli elettori il diritto e il potere di scegliersi i parlamentari. Il No invece lascerebbe intatto il numero degli eletti e dei collegi, non obbligherebbe il Parlamento a intervenire sulle regole del voto e sarebbe una pietra tombale su ogni altra riforma.
Il taglio permetterà anche di approvare correttivi già incardinati in Parlamento: il 25 settembre arriva alla Camera il “Brescellum”, un proporzionale sul modello tedesco con soglia di sbarramento al 5% e potrebbe essere l’occasione per reintrodurvi le preferenze; il 28 giungeranno a Montecitorio i due correttivi del deputato di LeU Federico Fornaro (superamento della base regionale del Senato e riduzione dei delegati regionali per eleggere il Capo dello Stato). Il Senato ha già approvato l’equiparazione dell’elettorato attivo delle Camere: i diciottenni potranno votare anche per il Senato.
5 Potremo controllare meglio i parlamentari.
Tagliare il numero dei parlamentari – meglio se con un buon sistema di scelta – sortirà un altro effetto positivo: gli eletti, essendo stati scelti da un maggior numero di elettori, saranno più rappresentativi e autorevoli e si sentiranno anche più autonomi dal controllo dei partiti. Non solo: essendo meno numerosi (da 945 a 600), ciascuno non potrà più nascondersi dietro gli altri 944 e approfittare dell’anonimato di un’assemblea pletorica per non lavorare: gli eletti sapranno cioè di essere più riconoscibili, dunque più controllabili dall’opinione pubblica e dai cittadini.
Quindi ridurre il numero degli eletti sarà un incentivo a lavorare di più e meglio. Molti elettori oggi non conoscono nemmeno il nome dei propri rappresentanti, un po’ per l’alto numero degli eletti, un po’ perché sistemi elettorali fantasiosi hanno reso difficile risalire a quale parlamentare sia stato scelto nel proprio collegio. Se saranno in 600 sarà molto più facile tenerli d’occhio: è il valore, britannico, dell’accountability.
6 Il taglio c’è già: non pagare gli assenteisti.
Secondo i dati Openpolis, nella scorsa legislatura “dei circa mille deputati e senatori, solo un centinaio è riuscito a influire sui lavori di Montecitorio e Palazzo Madama”. Tra il 2013 e il 2018, “il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni”.
Nella nuova legislatura le cose non vanno molto meglio, se si pensa a record clamorosi: alla Camera è eletta la forzista Michela Vittoria Brambilla, che però in aula è stata assente quasi il 99% delle volte: ha concesso al Parlamento cinque o sei apparizioni l’anno. Così ha fatto anche Antonio Angelucci, berlusconiano e dominus della sanità laziale, che supera il 94% di assenze in aula. Al Senato invece Tommaso Cerno ha mancato l’84% dei voti e Niccolò Ghedini il 69%. Casi limite che però non sono così fuori contesto, in un’assemblea che rinuncia già di fatto a centinaia di eletti ogni legislatura. Con la riforma, almeno, smetteremo di pagar loro lo stipendio.
7 Una riforma ampiamente condivisa.
Nonostante qualcuno, nelle ultime settimane, abbia associato la riforma al simbolo dell’anima “populista” e “antipolitica” del Movimento 5 Stelle (oltre che della Lega e di FdI), il taglio dei parlamentari è stato promesso per 40 anni – nella Prima e nella Seconda Repubblica a partire dalla commissione Bozzi del 1983 – da tutti i partiti e ha sempre riscosso il favore della maggioranza degli italiani, stando ai sondaggi. Centrosinistra e centrodestra hanno più volte inserito la riduzione dei parlamentari nei loro programmi elettorali, certi di solleticare i propri simpatizzanti su un tema largamente apprezzato. Nel 2008 il Pd presentò un disegno di legge identico a quello di oggi. Anche quando questa riforma è arrivata in Parlamento il consenso è stato ampio: nelle precedenti legislature e ancor più nell’attuale, quando nell’ultima lettura alla Camera il testo è stato approvato col 98% dei votanti e soltanto 14 contrari. Solo in un secondo momento alcuni ci hanno ripensato, promuovendo il referendum e iniziando la campagna per il No.
8 Così ci allineiamo agli altri paesi europei.
Con il taglio, l’Italia si uniforma agli altri Paesi europei per i costi e i numeri del Parlamento e per le riforme in materia. In primo luogo, secondo i bilanci di previsione della Camera, il Parlamento italiano è il più caro d’Europa se paragonato agli altri Paesi omogenei al nostro: solo la Camera costa 970 milioni l’anno (16,2 euro a cittadino), contro i 970 della Germania (14,1 a cittadino), ai 517 della Francia (7,7), 226 milioni della Gran Bretagna (3,7), 85 della Spagna (1,8). Se nel conteggio aggiungiamo poi anche il Senato, elettivo solo in Italia, il costo annuale del Parlamento sale a 1,5 miliardi, pari a 25 euro per ogni contribuente.
Anche sulle riforme, l’Italia si allineerebbe agli altri Paesi che stanno approvando progetti di legge simili: la Germania vuole modificare i distretti elettorali (e quindi gli eletti del Bundestag) da 298 a 280, la Francia progetta di ridurre i rappresentanti dell’Assemblea Nazionale del 25% (da 577 a 404) e la Gran Bretagna i deputati da 659 a 600.
9 Si risparmia il 7% dei costi del parlamento.
Il taglio di 345 parlamentari su 945 produrrà un risparmio sui conti pubblici. Le stime sono diverse: secondo l’osservatorio dei Conti Pubblici di Carlo Cottarelli, il risparmio ammonta a 57 milioni l’anno, pari a circa 300 milioni di euro per legislatura. Per Roberto Perotti, docente di Macroeconomia alla Bocconi, si risparmia circa il doppio: 100 milioni all’anno, di cui 22 per le indennità, 35 per rimborsi spese, diaria e assistenti, 20 per vitalizi e doppia pensione e altri 20 per i costi variabili, dalla pulizia dei locali alla carta prodotta per leggi, emendamenti e dossier. Con questo calcolo il risparmio arriva a quota mezzo miliardo a legislatura. Ma c’è chi, come il sottosegretario 5Stelle Riccardo Fraccaro, fa notare che le spese scenderanno ancora di più, tenendo conto dei contributi ai gruppi parlamentari.
In ogni caso, prendendo per buono il calcolo di Perotti, gli italiani risparmierebbero circa il 6-7% sui costi del Parlamento. Una cifra che, se eguagliata da tutte le altre Pubbliche amministrazioni, inciderebbe sulla spesa pubblica per svariate decine di miliardi.
10 Se vince il sì, possibili altre buone riforme.
Il taglio del numero dei parlamentari può essere l’inizio di un percorso volto a migliorare l’efficienza del Parlamento e la selezione dei nostri rappresentanti. Per questo, in caso di vittoria del Sì, il giorno dopo il referendum Il Fatto avvierà una campagna per promuovere altre due riforme, attraverso la legge ordinaria. La prima affinché, una volta tagliate le poltrone, i parlamentari si riducano gli stipendi, adeguandoli alla media degli altri Paesi europei: oggi, infatti, i parlamentari italiani sono i più pagati al mondo. La seconda, affinchè si approfitti dei necessari correttivi imposti dal taglio alla legge elettorale (andranno anzitutto rivisti i confini di collegi e circoscrizioni, ma non solo), scrivendo una nuova legge elettorale che cancelli il peccato mortale delle ultime tre approvate da destra e sinistra (Porcellum, Italicum e Rosatellum): le liste bloccate che dal 2005 in poi hanno espropriato noi cittadini del potere di scegliere i nostri rappresentanti, consegnandolo a capipartito e capibastone.
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