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martedì 9 marzo 2021

L’insostenibile costo della carne. Per ogni kg di bovino o maiale 19 euro in più: il vero prezzo, inclusi i danni ambientali e sanitari | LO STUDIO. - Luisiana Gaita

 

Ogni anno oltre 36 miliardi: è il costo per la salute e per l'ecosistema, generato dal ciclo di vita dei prodotti alimentari derivanti da bovini, suini e polli: si va dall'acidificazione terrestre all'insorgere di malattie legate al consumo di prodotti animali. Un danno e una spesa collettiva quantificati per la prima volta nella ricerca scientifica indipendente realizzata da Demetra per Lav. Ilfattoquotidiano.it la presenta in esclusiva e promuove una campagna per diffonderne i contenuti. Mercoledì 10 marzo alle 17 appuntamento in diretta sulla nostra pagina Facebook. E GLI UTENTI SOSTENITORI RICEVERANNO OGGI IL DOCUMENTO IN ANTEPRIMA.

Un hamburger di manzo da 100 grammi riposto nel carrello della spesa non costa solo il prezzo visibile sullo scontrino. C’è un costo ‘nascosto’, aggiuntivo, di almeno 1,9 euro, che corrisponde al valore economico dei danni ambientali (1,35 euro) e sanitari (54 centesimi) prodotti durante il ciclo di vita di quell’etto di carne di bovino. Significa 19 euro al chilo. Stessa cifra anche per la carne di maiale lavorata: in questo caso, però, un chilo di prosciutto, mortadella, wurstel o salame costa in media 5 euro per i danni ambientali, ma 14 euro per quelli sanitari. Per un chilo di carne di maiale fresca il sovrapprezzo è di oltre 10 euro (4,9 di costi ambientali, 5,4 di sanitari), mentre è di circa 5 euro per ogni chilo di pollo. Sono le stime a cui giunge uno studio indipendente realizzato per LAV (Lega Anti Vivisezione) dalla onlus Demetra, società di consulenza in ambito di ricerca scientifica sulla sostenibilità. Un lavoro che Ilfattoquotidiano.it presenta in esclusiva e offre in anteprima ai suoi Sostenitori (se non sei ancora Sostenitore scopri come diventarlo). Si tratta di una ‘traduzione economica’ dei danni causati da produzione e consumo di carne e che ricadono su ogni cittadino, indipendentemente dal suo consumo di carne e non solo da quel 90% di italiani, onnivoro, che ne consuma in media 128 grammi al giorno.

LE PAROLE DEL MINISTRO – La ricerca viene pubblicata a pochi giorni dalle parole pronunciate dal ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, nel suo intervento alla conferenza preparatoria della ‘Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile’, che ha suscitato le reazioni delle associazioni di categoria. Secondo il ministro “si dovrebbe diminuire la quantità di proteine animali sostituendole con quelle vegetali” oltre che per una questione di salute, anche perché “la proteina animale richiede sei volte l’acqua della proteina vegetale, a parità di quantità” e “gli allevamenti intensivi producono il 20% della CO2 emessa a livello globale”. Per Lav non c’è altra strada, se non quella di “una transizione alimentare, che veda ridursi drasticamente e rapidamente il consumo di proteine animali in favore di quelle vegetali” spiega a ilfattoquotidiano.it il direttore generale Roberto Bennati. Un cambio di rotta in un momento in cui “il settore zootecnico – aggiunge – si regge grazie a flussi continui di sussidi nazionali e provenienti dall’Unione Europea, per non parlare delle campagne pubblicitarie nelle quali non si fa cenno alla vita da cloni a cui sono costretti milioni di animali”.

IL COSTO ‘NASCOSTO’ DELLA CARNE – Lo studio si concentra sulle carni più diffuse nel nostro Paese: da bovino fresca e lavorata (bresaola e carne in scatola), maiale, maiale lavorato e pollo. Ogni giorno un italiano onnivoro mangia in media 61 grammi di carne di maiale (44,9 sono di carne lavorata), 33 di pollo, 29 di carne di bovino (27 grammi di carne fresca), oltre a circa 4 grammi di altre carni meno diffuse (conigli, cavalli, ovi-caprini). Secondo la ricerca, il costo nascosto della carne che ricade sulla collettività ammonta in media a 36,6 miliardi di euro all’anno, ossia quanto servirebbe potenzialmente per rimediare ai danni generati. Si tratta di 605 euro per ogni cittadino, con un range che varia dai 316 ai 1.530 euro a testa. Dovuti per il 48% a costi ambientali e per il 52% a quelli sanitari. Come ordine di grandezza, la cifra equivale alla somma di tre imposte attive in Italia: quella sull’energia elettrica e gli oneri di sistema (14,4 miliardi di euro nel 2017), l’addizionale regionale Irpef (11,8 miliardi), l’imposta sui tabacchi (10,5 miliardi). “Equivale all’incirca all’ammontare delle risorse annuali che avremo dal Recovery Plan, ossia quei 200 miliardi in sei anni” aggiunge Bennati. E si tratta verosimilmente, spiegano gli autori, “di una sottostima dell’effettivo costo nascosto” dovuta all’esclusione di alcune categorie ambientali e malattie direttamente o indirettamente collegate al consumo di carne, “per mancanza di una robusta letteratura scientifica” riguardo ai potenziali impatti.

QUASI 20 MILIARDI ALL’ANNO IN PIÙ PER LA CARNE LAVORATA – Considerando il valore economico dei danni cha ogni anno ricadono sui cittadini, il contributo principale (54%) arriva dal consumo di carne di maiale lavorata che costa 19,7 miliardi di euro all’anno, dato l’elevato consumo (46 grammi al giorno in media) e gli elevati impatti sanitari (per 14,4 miliardi). Segue la carne di bovino (31% del costo, includendo quello della carne lavorata), per cui la collettività paga 11,5 miliardi, 8 a causa dell’impatto ambientale degli allevamenti. Due i principali fattori: minor resa di conversione alimentare ed emissioni di metano generate dalla fermentazione enterica. La carne di pollo grava per circa 3,2 miliardi, 53 euro a testa. Nello studio sono tutti addebitati all’impatto ambientale ma, va sottolineato, per calcolare quello sanitario è stata considerata solo la relazione tra il rischio di contrarre le quattro malattie analizzate (carcinoma del colon-retto, diabete di tipo 2, ictus e malattie cardiovascolari) e il consumo di carne rossa o lavorata, le uniche per cui è stato trovato un rapporto causale suffragato da dati solidi. Eppure, quei 5 euro di danni ambientali per ogni chilo di prodotto, sono un valore doppio rispetto al costo medio del pollo all’ingrosso. La carne di maiale fresca (circa il 17% della carne di maiale consumata), invece, costa circa 37,5 euro all’anno per abitante e 2,3 miliardi alla collettività (sia per l’impatto ambientale, sia per quello sanitario, di poco maggiore). “Queste cifre rendono la produzione di carne economicamente insostenibile” spiega a ilfattoquotidiano.it l’ingegnere ambientale Guido Scaccabarozzi, ricercatore di Demetra e tra gli autori del rapporto. “Se fossi un allevatore e lo Stato mi chiedesse di compensare i costi ambientali e sanitari che contribuirei a produrre – aggiunge – lo considererei un forte deterrente”.

IL CICLO DELLA CARNE IN ITALIA – La tipologia di carne oggi più prodotta in Italia è quella di maiale, anche se la maggior parte di quella consumata arriva da animali nati o allevati all’estero. Nel nostro Paese si macellano circa 595 milioni di animali all’anno e sono quasi tutti polli (534 milioni). E se negli allevamenti la popolazione di animali ammonta a circa 200 milioni,150 milioni sono ancora una volta polli (il 73% degli animali vivi al momento del censimento). Per ogni persona residente in Italia, ci sono circa 2,5 polli vivi ma, data la loro breve vita, ogni anno ne vengono macellati quasi 9 a testa. “Sicuramente le emissioni di metano legate ai bovini vanno a incidere in modo fondamentale sui cambiamenti climatici, soprattutto se consideriamo i numeri di cui stiamo parlando – spiega Guido Scaccabarozzi – ma, proprio in tema di numeri, fa riflettere che la popolazione di polli sia superiore a quella dei cittadini”.

LE ALTERNATIVE VEGETALI – L’indagine confronta anche l’impatto dei diversi tipi di carne con possibili alternative vegetali, come piselli e soia. “L’obiettivo principale – aggiunge Scaccabarozzi – è quello di scattare una fotografia degli impatti generati oggi e aiutare consumatori e decisori politici a essere più consapevoli dei potenziali costi per la società e non è quello di stimare la variazione degli impatti qualora gli italiani decidessero di cambiare dieta, verso un’alimentazione a base di legumi. Per capire gli effetti di una ipotetica conversione verso la produzione vegetale sarebbe opportuno, infatti, condurre ulteriori studi, in quando entrerebbero in gioco diverse dinamiche”. Di fatto, il costo ambientale e sanitario dovuto al consumo di 100 grammi di legumi è di 5 centesimi di euro, più basso rispetto a quello generato da tutti i tipi di carne considerati nello studio. Anche escludendo i benefici sanitari derivanti da una dieta a base di legumi, il costo nascosto della carne risulta tra le 8 e le 37 volte quello dei legumi. Ancora di più, se il confronto è su base proteica. Perché su 100 grammi di prodotto, la soia ne contiene 36, i piselli 21,5, la carne di bovino 20, il pollo 17,5 e il maiale 16. Facendo i conti, 100 grammi di proteine da legumi costano alla collettività 17 centesimi di euro, 100 grammi di proteine da carne costano tra i 2 e gli 11 euro. Ma se, per esempio, producessimo più soia, non rischieremmo di eccedere nelle monoculture? “Oltre il 90% delle monocolture è impiegato proprio nell’alimentazione degli animali – replica il direttore generale di Lav, Bennati – senza parlare della soia transgenica che arriva dal Brasile e con la quale si alimentano i nostri polli”. In termini di rapporto tra consumo di suolo e proteine, come spiega la Fao, su un ettaro di terra è possibile produrre soia con un contenuto proteico di 1848 chili, ma se quello stesso spazio lo destiniamo al foraggio per alimentare i bovini, alla fine ne ricaveremmo appena 66 chili di proteine animali. “Ecco perché credo che la transizione porterebbe con sé la possibilità di tornare alla differenziazione e, quindi, a un’agricoltura rigenerativa del terreno, non basata su monocolture e modelli intensivi” aggiunge Bennati.

AMBIENTE, DALLA CARNE DI BOVINO IL MAGGIOR IMPATTO – Ma come si è arrivati a quei 36,6 miliardi all’anno di costi complessivi? Il potenziale costo ambientale è stato stimato tramite un’analisi dell’intero ciclo di vita della carne (Life Cycle Assessment – LCA), convertendo in costi economici per la società le emissioni generate in tutte le fasi (allevamento, macellazione, lavorazione, imballaggio, distribuzione, consumo e trattamento reflui) ma anche quelle generate dalla produzione di energia necessaria nei vari passaggi. Undici le categorie di impatto prese in esame, suggerite dalla Commissione Ue per gli studi LCA: cambiamenti climatici, riduzione dello strato di ozono, acidificazione terrestre, eutrofizzazione (in acqua dolce e marina), tossicità umana, formazione di smog fotochimico, formazione di particolato, eco-tossicità (terrestre, in acqua dolce e marina), radiazione ionizzante, occupazione di suolo e consumo di acqua. Il costo monetario espresso in euro indica la perdita di benessere per la società dovuto all’emissione di un chilogrammo di inquinante in ambiente, calcolato dal centro di ricerca CE Delft nel manuale dei prezzi ambientali (Environmental Prices Handbook). Per ognuna delle 11 categorie di impatto c’è un indicatore. La carne di bovino genera il maggior costo sulla società: se per ogni 100 grammi la società subisce danni per 1,35 euro (con una forbice che va da 0,56 a 3,61 euro), per una bistecca da 3 etti siamo oltre i 4 euro. Un etto di carne di maiale nasconde un costo extra che va dai 49 centesimi (per quella fresca) ai 51 centesimi (per la lavorata), mentre 100 grammi di carne di pollo costano almeno 47 centesimi. E se un chilo di carne di pollo o maiale genera 8 volte più costi per la società rispetto ai legumi, la stessa quantità di carne di bovino li genera ben 23 volte. Per un etto di prodotto, la produzione di piselli è quella con meno costi ambientali per la società (4,2 centesimi), mentre in termini proteici è la soia il prodotto che genera un minor costo ambientale (15 centesimi per 100 grammi di proteine).

IMPATTO SANITARIO, I COSTI ARRIVANO AL 90% DALLA CARNE LAVORATA – Per calcolare l’impatto sanitario, invece, in linea con studi epidemiologici, si è partiti dalle curve di rischio in funzione del consumo giornaliero in Italia di carne rossa (43,8 grammi al giorno) e lavorata (46 grammi). Utilizzando le stime sul totale degli anni di vita persi per ciascuna malattia, definite in studi di riferimento, come unità di misura è stato scelto il Daly (Disability-Adjusted Life Year), che esprime il carico complessivo della malattia, il numero di anni in salute persi a causa di problemi di salutedisabilità o morte prematura. I Daly sono stati moltiplicati per un valore medio europeo di 55mila euro, ossia la somma minima attribuibile a un anno di vita in salute perso. Il consumo dei due tipi di carne è responsabile di 53mila Daly persi a causa del carcinoma del colon-retto in Italia, con un costo per la società di 2,9 miliardi, di oltre 177mila Daly persi per diabete di tipo 2 con un costo di 9,7 miliardi, di quasi 116mila Daly persi per ictus (costo 6,3 miliardi) e di 103mila Daly persi per malattie cardiovascolari (5,7 miliardi). Ma è la carne lavorata il responsabile principale, contribuendo per quasi il 90% dell’impatto sanitario. Ripartendo la spesa tra i quantitativi di carne consumata ogni anno in Italia (1.060 kt/a di carne lavorata e 782 kt/a di carne rossa), si può stimare il costo generato dal consumo di un chilo o un etto di carne.

UN CHILO DI PROSCIUTTO COSTA 14 EURO IN PIÙ (PER GLI ANNI DI SALUTE PERSI) – Mostrando i dati sulle malattie cardiopatiche maggiori margini di incertezza, sono stati esclusi dalla stima finale dei costi sanitari (ancora una volta conservativa). Il risultato è che un etto di manzo costa alla collettività, come impatto sanitario, 54 centesimi, mentre un etto di prosciutto ne costa 1,40, ossia ben 14 euro al chilo. A livello nazionale, il costo medio per la collettività è di 19,1 miliardi (315 euro a testa). “A causa del consumo di carne, ogni anno in Italia vengono persi circa 350mila anni di vita” spiega il direttore generale di Lav, secondo cui un’alternativa c’è, ed è già il presente. Secondo lo studio, il consumo di 50 o 100 grammi al giorno di legumi non aumenta il rischio di contrarre nessuna delle malattie analizzate. “Siamo consapevoli – aggiunge Bennati – che non si tratta di cambiamenti da attuare da un giorno all’altro, ma le stime della FAO secondo cui il consumo di carne attuale nel 2050 raddoppierà arrivando a 465 milioni, ci indicano la direzione”. Per Lav la strada giusta è quella, per esempio, di una “progressiva e rapida riduzione, fino all’azzeramento, dei Sussidi ambientalmente dannosi” che riguardano la zootecnia, ma anche “una revisione della Politica Agricola Comunitaria” e un quadro di finanziamenti “della coltivazione di proteine vegetali specificamente destinate all’alimentazione umana”.

Cari sostenitori, partecipate a questa campagna, arricchitela con noi! Dite la vostra nel Forum a voi dedicato, scriveteci quanto pesa nel conto della vostra spesa l’acquisto di prodotti e derivati animali. Oggi riceverete in anteprima esclusiva la ricerca di Demetra per Lav: leggetela e partecipate mercoledì pomeriggio alle ore 17, alla diretta #carissimacarne in partnership con Lav sulla nostra pagina facebook. Le domande o le idee che lancerete nel Forum avranno la priorità e verranno discusse in diretta da Giulia Innocenzi e dagli altri ospiti.

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https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/03/09/linsostenibile-costo-della-carne-per-ogni-kg-di-bovino-o-maiale-19-euro-in-piu-il-vero-prezzo-inclusi-i-danni-ambientali-e-sanitari-lo-studio/6126244/

La carne è dannosa sia in termini economici che ambientali e salutari. Io ne ho ridotto il consumo al minimo, avendo un vegetariano in famiglia, e vi posso garantire che può essere sostituita con tanti alimenti tra cui la soia in granuli della quale faccio un uso esagerato, direi, specie quando voglio gustare un ragù, o delle polpettine, o le lasagne al forno, o cannelloni ripieni... provatela! Oltre che essere buonissima è un vero toccasana per l'organismo.

c.


giovedì 5 marzo 2020

Coronavirus, la sanità italiana definanzata da dieci anni. Tagliati 43mila dipendenti e i posti letto sotto la media Ue. Ecco tutte le criticità. - Fiorina Capozzi

Coronavirus, la sanità italiana definanzata da dieci anni. Tagliati 43mila dipendenti e i posti letto sotto la media Ue. Ecco tutte le criticità

Le risorse sono aumentate, ma meno dell'inflazione. Tutto è iniziato con il governo di Mario Monti. La stagione della spending review ha portato in dote una sforbiciata alla spesa sanitaria da 6,8 miliardi fino al 2015. Da allora le cose sono andate sempre peggio: sono scattati i piani di rientro per le Regioni con uno squilibrio nella sanità e i governatori hanno tagliato ancora. Intanto sono aumentati i ticket e i letti sono diminuiti a 3,2 per 1000 abitanti contro una media europea di 5. Le liste d'attesa sono rimaste lunghe e i livelli minimi di assistenza sono una chimera soprattutto al Sud.
Non bastava la riforma del Pronto Soccorso. L’emergenza Coronavirus dà la batosta finale al Sistema Sanitario Nazionale. L’allarme partito dalle Regioni più colpite dall’epidemia ha aperto un dibattito nazionale sullo stato di salute della sanità italiana. A partire dalla scarsa disponibilità di personale e di posti letto per far fronte ai casi che richiedono cure ospedaliere. Ma la politica da un decennio sta tagliando risorse alla sanità, penalizzando non solo gli ospedali pubblici, ma anche i privati convenzionati. In dieci anni sono sono stati sottratti al Ssn 37 miliardi.
Secondo uno studio del centro di ricerche indipendente Gimbe, fra il 2010 e il 2019 c’è stato un progressivo definanziamento della sanità pubblica. O meglio: c’è stato un aumento di risorse per 8,8 miliardi, ma l’incremento è stato inferiore al tasso d’inflazione producendo di fatto una decurtazione del budget. Inoltre, la politica ha favorito la nascita di assicurazioni e fondi sanitari per compensare il ridimensionamento della spesa in sanità andando a vantaggio solo di alcune categorie di persone e mettendo a rischio l’universalità del servizio.
I tagli di Monti – Tutto è iniziato con il governo di Mario Monti. La stagione della spending review ha portato in dote una sforbiciata alla spesa sanitaria da 6,8 miliardi fino al 2015. Nei desiderata dell’allora ministro Renato Balduzzi, il taglio della spesa avrebbe dovuto essere accompagnato da una migliore gestione delle risorse. Ma così non è stato: secondo quanto riferì Quotidiano Sanità, in soli due anni “la mazzata, batosta o che dir si voglia, c’è stata: meno posti letto: circa 7.000 che portano così i tagli totali di posti letto dal 2000 ad oggi (10 dicembre 2012, ndr) a quota 72.000”.
I piani di rientro regionali – Da allora le cose sono andate sempre peggio. In nome del risanamento dei bilanci locali e delle aziende sanitarie sono scattati i piani di rientro per le Regioni con uno squilibrio nella sanità superiore al 5 per cento del finanziamento complessivo. Così i governatori hanno tagliato ancora. Nel Lazio, ad esempio, Nicola Zingaretti ha cassato 3.600 posti letto e chiuso diversi ospedali. In compenso il bilancio regionale della sanità è tornato in positivo, ma il prezzo da pagare per la collettività è stato alto in termini di costi e servizi. Al posto degli ospedali, sono proliferate le più “economiche” Case della salute, strutture ambulatoriali sul territorio nate per offrire alcune cure primarie. Tuttavia, un focus sullo stato di salute della sanità pubblicato dall’Ufficio parlamentare di bilancio il 2 dicembre 2019 ha evidenziato tutti i limiti del nuovo modello messo in campo dai governatori: “L’insufficiente potenziamento dei servizi territoriali pone un’incognita sul successo dell’operazione, con segnali di razionamento delle prestazioni rispetto ai bisogni, che emergono in particolare nei servizi di emergenza”.
Risorse per il personale scese di 2 miliardi in otto anni – Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, le risorse per il personale sono scese di due miliardi fra il 2010 e il 2018. Ma per Gimbe le cose starebbero anche peggio: nello stesso periodo dei 37 miliardi di risparmi, almeno il 50% dei tagli è stato “scaricato” sul personale dipendente e convenzionato riducendo di fatto i servizi per i cittadini. “A questo andamento ha corrisposto un ridimensionamento del numero di lavoratori, compresi medici e infermieri, in particolare nelle Regioni in piano di rientro, e un peggioramento delle condizioni di lavoro”, scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare che raccontano come siano andati persi 42.800 dipendenti a tempo indeterminato.
Numero di posti letto sceso sotto la media europea – Il numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali è sceso di gran lunga sotto la media europea. Secondo il centro studi dell’ufficio parlamentare, l’indicatore era al 3,9 nel 2007 e al 3,2 nel 2017 contro una media europea diminuita da 5,7 a 5. La flessione maggiore è stata registrata nelle Regioni sottoposte per prime a piano di rientro. Inoltre, secondo dati Eurostat, il numero di posti letto in strutture residenziali per cure a lungo termine era pari a 4,2 per 1.000 residenti in Italia nel 2017, contro 9,8 in Francia, 11,5 in Germania e 8,2 nel Regno Unito, mentre la percentuale di soggetti che dichiarano di aver utilizzato servizi di assistenza domiciliare, riferita al 2014, risulta essere del 3,5 per cento in Italia, contro il 4 per cento della media europea.
Meno disavanzo, più ticket – Il disavanzo sanitario è stato ridotto, ma il ticket è progressivamente aumentato. In dieci anni, il gettito complessivo dei cosiddetti ticket, escluse le strutture accreditate dove il dato non viene rilevato, è passato da 1,8 miliardi nel 2008 a 3 miliardi nel 2018. “La riduzione dei disavanzi riflette anche l’aumento dei livelli delle compartecipazioni richieste ai cittadini e delle aliquote di imposta”, spiega uno studio dell’Upb sullo stato di salute della sanità dello scorso 2 dicembre 2019. Non solo: l’introduzione del superticket, cioè della quota fissa di 10 euro per ricetta sull’assistenza specialistica ambulatoriale introdotta nel 2011 “ha probabilmente rappresentato un rilevante fattore di riduzione della domanda di prestazioni pubbliche, spingendo verso la rinuncia alle cure o verso il privato”, come puntualizza lo studio sullo stato di salute della sanità italiana.
Raddoppiata la quota dei poveri che rinunciano a cure – Il costo della sanità sulle famiglie è invece aumentato ed è raddoppiata la quota dei più poveri che rinunciano alle cure. “L’aumento delle compartecipazioni alla spesa, in connessione con il peggioramento delle condizioni economiche delle famiglie in seguito alla crisi, ha contribuito a provocare un forte incremento della quota di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per il costo eccessivo, passata, secondo dati Eurostat (indagine EU-SILC), dal 3,9 per cento nel 2008 al 6,5 nel 2015” prosegue l’indagine. Ad avere la peggio, le fasce più deboli della popolazione: “Se si guarda al 20 per cento di popolazione più povera, si osserva addirittura un aumento della frequenza di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per motivi economici dal 7,1 per cento nel 2004 al 14,5 nel 2015”, evidenzia l’analisi. “Inoltre negli ultimi anni, mentre la spesa pubblica pro capite in termini reali passava da 2.266 dollari a parità di potere d’acquisto del 2012 a 2.235 nel 2018, quella privata out of pocket (compartecipazioni alla spesa e pagamenti diretti di servizi e prestazioni) e per assicurazioni volontarie aumentava in media da 710 dollari pro-capite a 776 (dal 2,1 al 2,3 per cento del pil)”, come sottolinea studio.
Livelli minimi di assistenza? Una chimera – Intanto le liste d’attesa sono rimaste lunghe e i livelli minimi di assistenza (lea) sono una chimera. Soprattutto nel Sud. “Le Regioni che, secondo il nuovo sistema di garanzia, non assicurano i Lea sono tutte quelle del Mezzogiorno, il Lazio, e anche la Provincia di Bolzano, la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia. Quest’ultima, in realtà, anche se in termini di punteggio complessivo supera la Regione Marche, considerata adempiente, presenta una valutazione insufficiente sulla prevenzione”, prosegue l’indagine dell’ufficio parlamentare.
L’aumento del costo delle prestazioni specialistiche ha allargato il mercato per fondi e assicurazioni, sostenuti dalla politica. Ad aggravare la situazione di discriminazione economica fra i cittadini nell’accesso alle cure mediche è poi arrivata anche alla decisione del governo Renzi di agevolare fiscalmente il welfare aziendale sottraendo indirettamente risorse al sistema sanitario nazionale .
Per il futuro ulteriore lieve riduzione dei fondi in rapporto al pil – E le prospettive non sono affatto rosee. “Per il futuro, le previsioni di spesa sanitaria a legislazione vigente contenute nella Nadef 2019 indicano una ulteriore lieve riduzione in rapporto al Pil, dal 6,6% del 2019 al 6,5% nel 2022”, precisa l’ufficio studi parlamentare. “Questa strategia politico-finanziaria documenta inequivocabilmente che per nessun Governo nell’ultimo decennio la sanità ha mai rappresentato una priorità politica – si legge nel report di Gimbe -. Infatti, quando l’economia è stagnante la sanità si trasforma inesorabilmente in un “bancomat”, mentre in caso di crescita economica i benefici per il SSN non sono proporzionali, rendendo di fatto impossibile il rilancio del finanziamento pubblico”. Una situazione insostenibile che emerge con forza nei casi di emergenza come quello del Coronavirus.