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venerdì 16 giugno 2023

Sentenza della Cassazione. - Berlusconi

 


A questo personaggio sono stati attribuiti i "Funerali di Stato", quindi, a spese mie e di noi tutti.

Poiché non accetto che mi si impongano decisioni del genere, anche perché non intendo essere complice di nessuno che sia anche lontanamente invischiato con "cosa nostra" dico : 


"Non in mio nome!"

cetta

domenica 7 agosto 2022

In che Stato. - Marco Travaglio

 

Leggendo le motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, si capisce bene perché ci sia voluto quasi un anno: non potendo negare i fatti documentati, bisognava frammentarli, isolarli, selezionare quelli funzionali ad assolvere gli uomini dello Stato (per i boss pluriergastolani qualche anno non cambia nulla) e scartare i più imbarazzanti. Tipo il furto istituzionale dell’agenda rossa di Borsellino e il depistaggio istituzionale del falso pentito Scarantino: mai citati in 3mila pagine, come se il movente e la tempistica di via d’Amelio potessero prescindere da elementi così cruciali. Il livello politico-istituzionale della strategia stragista 1992-’94 scompare con i fatti che lo provano: resta il super-ego di Riina, che fa tutto da solo per mania di grandezza. E la trattativa del Ros di Mori e De Donno con Riina? Un’iniziativa privata, “improvvida”, ma a fin di bene: l’“interesse dello Stato” di “cessare le stragi”. Quale Stato l’avesse ordinata, con quali norme o direttive, non si sa. Non certo lo Stato che servivano Falcone, Borsellino e le loro scorte, uccisi perché con Cosa Nostra non trattavano, ma combattevano, purtroppo ignari dell’“interesse” di calare le brache a Riina dopo Capaci e financo “allearsi” con Provenzano dopo le stragi di Firenze, Roma e Milano. Lo Stato parallelo e fellone che tradisce i suoi servitori e cittadini, perché – disse Lunardi, ministro di B. – “con la mafia si deve convivere”.

Pazienza se già allora tutti sapevano (report Criminalpol e Dia) che le stragi miravano a piegare lo Stato a trattare, dunque cedere non le avrebbe fermate, ma incoraggiate e moltiplicate. Pazienza se gli artefici dell’“improvvida iniziativa” e di quelle conseguenti (mancata perquisizione del covo di Riina, mancate catture di Provenzano e Santapaola) non furono cacciati con disonore, ma promossi ai vertici dei Servizi, coperti con depistaggi e menzogne di Stato, difesi come eroi da governi e stampa di regime. Senza che nessuno, nemmeno gli ingenuissimi giudici della sentenza “spezzatino” che rinnega il metodo Falcone (un solo maxiprocesso per centinaia di delitti, per non frammentare le prove e perdere il quadro d’insieme), si domandi perché. Noi continueremo a domandarlo e a pretendere risposte dai magistrati. Per ora sappiamo che la trattativa ci fu: fra il Ros e Riina, fra Brusca, Bagarella, Mangano e Dell’Utri. La sentenza, pur minimalista, conferma quei fatti ripugnanti e non cancella una sola parola che abbiamo speso in questi anni per raccontarli. Chi parlava di trattativa “presunta” o “inesistente”, calunniando i pochi pm e giornalisti che ne parlavano, dovrebbe vergognarsi e scusarsi, come quei carabinieri e politici. Che non sono “improvvidi”, ma traditori.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/08/07/in-che-stato/6755189/

venerdì 4 febbraio 2022

MEDIA & REGIME Il Giornale sul tavolo di Angelucci. In dote alle nozze con Libero e Il Tempo porterebbe anche 2 milioni di debiti garantiti dallo Stato. - Gaia Scacciavillani

 

A fine luglio l'editrice di Paolo Berlusconi si aspettava una chiusura d'anno con un rosso di oltre 6 milioni, peggio del previsto. E a settembre i soci hanno deliberato l'ennesimo versamento in conto capitale. Intanto la concorrenza del "gruppo Belpietro" si fa sentire.

Il passaggio di mano del Giornale è a un bivio, secondo La Stampa che nel numero in edicola giovedì 3 febbraio dà per imminente l’addio della famiglia Berlusconi al quotidiano fondato da Indro Montanelli la cui parabola viene assimilata a quella dell’anziano leader di Forza Italia, con una cessione che il giornale degli Agnelli traduce in un simbolo della fine del berlusconismo. Tanto più che a comprare sarebbe la famiglia Angelucci, animata dall’intento di creare un polo editoriale di destra insieme ai suoi Libero e Il Tempo.

Bisogna vedere quale destra e con quali potenzialità, visto che la salviniana Verità di Maurizio Belpietro in edicola tallona Il Giornale da molto vicino e ha una potenza di fuoco, in termini di audience, che include anche le testate settimanali ex Mondadori a partire da Panorama. Senza contare i piani di espansione che, come lo stesso Belpietro ha recentemente dichiarato confermando le indiscrezioni di Dagospia, prevedono il lancio di un quotidiano finanziario.

E proprio la finanza è la nota stonata del nascente polo editoriale della destra targato Angelucci. La parabola del Giornale è infatti costellata di versamenti in conto capitale da parte degli azionisti, essenzialmente Pbf (Paolo Berlusconi) e Mondadori oltre al gruppo Amodei. Il 2020 si è chiuso con una perdita di 8,7 milioni, dopo il rosso di 15 milioni dell’anno prima. Tra i debiti bancari di 7 milioni di euro, la società editrice del quotidiano ne contava uno di 2,2 milioni con la Popolare di Sondrio garantito dalla società pubblica Sace in virtù del decreto liquidità.

A fine agosto 2021, poi, i conti della Società Europea di edizioni evidenziavano una perdita di quasi 5 milioni di euro, tanto che il 30 settembre l’assemblea ha approvato su proposta del cda di procedere a un versamento di altri 3 milioni in conto capitale, dopo i 9 deliberati nel 2020 e i 16 l’anno prima. Inoltre lo stesso cda a luglio 2021 si aspettava di chiudere l’esercizio con una perdita di 6,7 milioni, “in miglioramento rispetto all’esercizio precedente per € 2.002.000 ma peggiorativa rispetto al budget per € 931.000”. La previsione, si legge nel verbale del consiglio del 23 luglio, “registra una contrazione nelle vendite in edicola rispetto sia all’esercizio precedente sia al budget mentre prevede un sostanziale equilibrio come ricavi da raccolta pubblicitaria; complessivamente si rileva una riduzione dei ricavi di € 421.000 rispetto all’esercizio precedente e di € 626.000 rispetto al budget 2021”.

Poi bisognerà vedere la disponibilità del personale, che pure scende sensibilmente di anno in anno e a fine 2021 contava 36 poligrafici e 66 giornalisti, rispettivamente 4 e 12 in meno dell’anno prima, per un costo complessivo annuo di 11,7 milioni (-5 milioni sull’anno prima).

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/03/il-giornale-sul-tavolo-di-angelucci-in-dote-alle-nozze-con-libero-e-il-tempo-porterebbe-anche-2-milioni-di-debiti-garantiti-dallo-stato/6480383/

martedì 1 febbraio 2022

Frode bonus edilizi, la Guardia di finanza di Perugia sequestra 103 milioni di euro. -

 

L’operazione trae origine da un’attività di analisi condotta dal comando provinciale delle Fiamme gialle.

Sequestro da 103 milioni di euro legati alla cessione dei crediti d'imposta inesistenti relativi a bonus edilizi.

L’operazione è della Guardia di finanza di Perugia che ha scoperto una rete di società e persone fisiche che avrebbero generato e commercializzato, sull’intero territorio nazionale, fittizi crediti d’imposta relativi alle spese sostenute per interventi edilizi introdotti dal Governo per mitigare gli effetti economici della pandemia (bonus facciate, recupero patrimonio edilizio e bonus locazioni).

Uso distorto delle agevolazioni.

L’operazione trae origine da un’attività di analisi condotta dal comando provinciale delle Fiamme gialle, volta a individuare profili di rischio connessi all'utilizzo distorto delle diverse misure agevolative.

In questo contesto è emersa la posizione di una società che commercia auto operante nell’hiterland di Perugia che da preliminari riscontri risultava avrebbe comprato e rivenduto crediti d’imposta per importi rilevanti, verosimilmente riconducibili a condotte fraudolente.

La piattaforma delle Entrate.

Stando agli accertamenti, le comunicazioni di cessione dei crediti, inserite nella piattaforma informatica dell’agenzia delle Entrate, sono state qualificate come «altri documenti per operazioni inesistenti», fattispecie disciplinata dal decreto legislativo 74/2000.

Secondo il gip, che ha convalidato la misura dell’autorità giudiziaria, i crediti «sono da considerarsi inesistenti per il volume, per il fatto che la società (aveva) un’attività assolutamente slegata da quella relativa all’edilizia e alla ristrutturazione di immobili» e che «i soggetti coinvolti, cedenti e cessionari, presentano profili di criticità».

https://www.ilsole24ore.com/art/frode-bonus-edilizi-guardia-finanza-perugia-sequestra-103-milioni-euro-AEP1zTBB

venerdì 4 giugno 2021

Il silenzio è d’oro. - Marco Travaglio

 

Nel dibattito dadaista sulla scarcerazione di Giovanni Brusca dopo 25 anni di galera, si dice che è uno scandalo liberare chi ha ucciso Falcone e altre cento persone, tra cui un bambino sciolto nell’acido: peccato che a liberarlo sia una legge voluta da Falcone, senza la quale non sapremmo che Brusca ha ucciso Falcone e altre cento persone, fra cui un bimbo sciolto nell’acido. In un Paese serio, anziché di Brusca, tutti si preoccuperebbero delle sentenze della Cedu e della Consulta contro l’ergastolo “ostativo” (che poi è l’ergastolo vero, ma nel Paese della giustizia finta occorre specificare), che stanno per liberare non i mafiosi che hanno parlato, ma quelli che stanno zitti. I quali non avranno più alcun motivo per parlare. Ora però i garantisti alla vaccinara si sono inventati un nuovo mantra: “Brusca non ha detto tutto”. Possibile. Ma che hanno in mente per fargli dire tutto: la tortura? Un modo civile ci sarebbe: imitare gli Usa. Lì, se un criminale collabora, non ottiene sconti di pena: non viene proprio processato. E può parlare quando gli pare.

Invece noi, furbi, grazie a una legge criminogena del 2000 voluta dal centrosinistra, diamo ai pentiti sei mesi per dire tutto. Se si ricordano qualcosa dopo, non vale. Il che rende ridicola l’accusa a Brusca di “non aver detto tutto”: anche se avesse altro da dire, essendo i suoi sei mesi scaduti da 24 anni e mezzo, non potrebbe più dirlo. E, se lo dicesse dimostrerebbe di non aver detto tutto e rischierebbe di perdere i benefici e tornare dentro. Qualcuno vuole che dica il resto? Cancelli la regola dei sei mesi. Poi però il rischio è che Brusca abbia davvero altro da dire. E lo dica. Per esempio sui mandanti esterni delle stragi, sulla trattativa Stato-mafia (che svelò un anno prima che la confermassero Mori e De Donno), sul ruolo di B. e Dell’Utri che l’ha visto sempre reticente. Perché un mafioso pentito, soprattutto all’inizio, non dice tutto? Per due motivi: il desiderio di proteggere i suoi amici o parenti; e il timore di inimicarsi qualche rappresentante dello Stato che lo protegge e firma con lui il contratto di collaborazione. Gaspare Spatuzza smontò il depistaggio su via D’Amelio, scagionò il falso pentito reo confesso Scarantino, dimostrò di essere l’autore della strage: e fin lì applausi scroscianti. Poi però fece i nomi di B. e Dell’Utri sui rapporti del boss Graviano durante le stragi. Napolitano tuonò contro le “rivelazioni più o meno sensazionalistiche di soggetti, diciamo così, piuttosto discutibili”. Il governo B. gli levò la protezione. E Spatuzza non disse più una parola. Se davvero qualcuno vuole scucirgli la bocca, rimuova la regola dei sei mesi dalla legge sui pentiti e Forza Italia dal governo. Secondo voi, così a naso, lo faranno?

IlFQ

giovedì 4 marzo 2021

Frode nel settore energie rinnovabili, sequestro da 14 mln.

 

Operazione Gdf nel Crotonese, eseguite sei misure cautelari.


(ANSA) - ISOLA DI CAPO RIZZUTO, 02 MAR - Un intero complesso aziendale per oltre 14 milioni di euro è stato sequestrato a Isola Capo Rizzuto dalla Guardia di finanza di Crotone nell'ambito di un'operazione coordinata dalla Procura di Catanzaro per frode nel settore delle energie rinnovabili e del traffico illeciti di rifiuti. I militari del Nucleo di Polizia economico-finanziaria e della Sezione operativa navale di Crotone, hanno eseguito sei misure cautelari, emesse dal Gip del tribunale di Catanzaro, Pietro Carè, nei confronti di altrettante persone.

In particolare il divieto di dimora a Isola Capo Rizzuto e l'interdizione per un anno dall'attività professionale riguarda S.A., di 55 anni, proprietaria di un'azienda agricola, il rappresentate legale C.A. (47) e due dipendenti amministrativi C.F. ( 57) anni e S.S. (42). Per altre due persone M.A., di 58 anni, e R.R. (50), è stato disposto l'obbligo di presentazione quotidiana alla p.g.. Il sequestro preventivo, anche per equivalente, ha riguardato oltre 14 milioni, quale profitto del reato conseguito dalla società.
I provvedimenti cautelari arrivano al termine di un'indagine, coordinata dal Procuratore. Nicola Gratteri e diretta dai sostituti Paolo Sirleo e Domenico Guarascio, che ha consentito di far luce sull'esistenza di un'associazione per delinquere, con al vertice i proprietari della società agricola coinvolta, finalizzata al conseguimento degli incentivi pubblici, erogati dal Gestore dei Servizi Energetici (G.S.E.), per la produzione di energie da fonti rinnovabili. Scopo di tale forma di incentivazione è quello di sostenere economicamente le imprese che producono energia mediante l'uso di fonti alternative. Secondo quanto emerso dalle indagini la società non avrebbe fornito dati veritieri sia nella fase di progettazione e costruzione dell'impianto di biogas, di Capo Rizzuto con il percepimento indebito, dal 2011 al 2018, di incentivi pubblici per oltre 14 milioni di euro. Inoltre è stato verificato anche l'utilizzo di biomasse di origine animale e vegetale in difformità alla normativa che prevede la non utilizzabilità nel ciclo di produzione di energia pulita.

C'è anche Antonella Stasi, ex presidente facente funzioni della Regione Calabria, tra gli indagati dell'operazione Erebo condotta dalla Guardia di Finanza di Crotone. Stasi, già vicepresidente e che nel 2014 subentrò nella carica a Giuseppe Scopelliti, è stata raggiunta da una misura cautelare di interdizione per un anno dall'attività professionale e divieto di dimora nel comune di Isola Capo Rizzuto, emessa dal gip del Tribunale di Catanzaro su richiesta della procura distrettuale guidata da Nicola Gratteri con l'accusa di per avere fatto parte di un'associazione per delinquere finalizzata ad una truffa per indebita percezione di erogazioni statali e traffico illecito di rifiuti. Tutto parte da una società agricola, della quale Antonella Stasi è titolare e che produce energia elettrica tramite una centrale a biogas prodotta dalla digestione anaerobica di biomasse vegetali ed animali. Secondo le indagini ci sarebbero delle "violazioni rilevanti" per la costruzione e l'autorizzazione dell'impianto a biogas tramite il quale si produceva energia elettrica rinnovabile che - tramite una convenzione - è stata venduta al Gestore servizi energetici spa per 15 anni ad un prezzo di 28 cent per kwh. Il traffico illecito di rifiuti è contestato per le modalità con le quali la società si riforniva presso terzi di escrementi di animali e per i metodi di smaltimento del digestato (si tratta di letame in uscita dall'impianto biogas) che veniva sversato sui terreni senza un piano di utilizzo agronomico. Stasi ha ricevuto la notifica della misure cautelare insieme ad altre tre persone, il rappresentate legale della società, Anna Crugliano (47 anni) e due dipendenti amministrativi: Francesco Carvelli (57) anni e Salvatore Succurro (42). Per altre due persone, Antonio Muto 58 anni, e Raffaele Rizzo (50), è stato disposto l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

https://www.ansa.it/calabria/notizie/2021/03/02/frode-nel-settore-energie-rinnovabili-sequestro-da-14-mln_b541b6ee-8761-45c4-9f86-82223775a1a3.html

martedì 5 gennaio 2021

Trattativa Stato-mafia: solo il buon giornalismo ne parla. - Marco Lillo

 

La trasmissione Report dedicata ieri alle stragi e alla trattativa Stato-mafia è una prova di grande giornalismo e “servizio pubblico”. L’inchiesta firmata da Paolo Mondani e Giorgio Mottola ha messo in fila elementi già esaminati dal Fatto, dai nostri documentari Sekret (su www.iloft.it) e nei libri La Repubblica delle stragi e Padrini fondatori, editi dalla nostra PaperFirst.

Il grande merito di Report è stato lavorare sodo su quella base di informazioni per tirar fuori un racconto inedito pieno di rivelazioni, che mette in sequenza la storia della politica italiana, della mafia, della massoneria e delle stragi.

Mondani e Mottola finalmente hanno riunito due film che finora scorrevano su schermi paralleli. C’erano le trasmissioni sulle stragi solitamente in occasione degli anniversari della morte degli eroi antimafia. E c’erano i documentari sull’evoluzione della politica italiana. Accostare le due storie era un tabù, finalmente rotto in prima serata sulla Rai. Tutti i giornalisti dovrebbero cercare risposte alle troppe domande poste dai misteri del periodo 1992-1994 e dai legami tra questi misteri e quelli del decennio precedente.

Finora invece i media mainstream hanno delegato questo compito ai magistrati di Palermo e Reggio Calabria e a pochi giornalisti ‘eretici’ come quelli del Fatto. Report, diretto da Sigfrido Ranucci, e la Rai3 diretta da Franco Di Mare, hanno avuto il merito di non ‘evitare’ gli snodi più sensibili politicamente.

La trasmissione di ieri segna un punto di non ritorno. Non si potrà più parlare delle stragi da un lato e delle indagini su Berlusconi e Dell’Utri senza spiegare perché i due fondatori di Forza Italia siano indagati per le stragi del 1993 a Firenze e Milano e per gli attentati di Roma, fatti dalla mafia. Il Fatto ha approfondito più volte i retroscena e le ragioni che hanno portato i pm a iscrivere nel registro degli indagati per le stragi del 1993 il politico che ha dominato la scena imprenditoriale e poi quella politica per decenni. Si tratta di ipotesi di accusa che fanno tremare i polsi e che vanno verificate tenendo sempre a mente la presunzione di innocenza, ma non si può ignorarle. Le grandi tv e i grandi quotidiani invece hanno sempre ignorato questi temi. Se nomi come Graviano, Bellini o Ilardo sono semisconosciuti al pubblico è merito di questa congiura del silenzio.

Sigfrido Ranucci, il conduttore e ‘capo’ di Report, ha avuto il coraggio di rompere questo tabù. Così ha una valenza simbolica la trasmissione di parte dell’intervista a Paolo Borsellino in cui il magistrato parla nel 1992 a due giornalisti francesi di Berlusconi e dei rapporti di Dell’Utri con il mafioso Vittorio Mangano. Proprio Ranucci scovò quell’intervista scomparsa e la trasmise 20 anni fa con grande difficoltà a tarda notte per pochi intimi solo su Rainews. Poi Marco Travaglio ne scrisse e ne parlò nella trasmissione Satyricon di Daniele Luttazzi, mentre Enzo Biagi osò citarla. Infine Michele Santoro la trasmise più ampiamente facendo infuriare in diretta Berlusconi.

Dopo la vittoria alle elezioni nel 2001 tutti sparirono dagli schermi: Biagi, Santoro e Luttazzi.

Ranucci proseguì la sua ricerca in un libro sull’uccisione di un confidente, Luigi Ilardo, che stava raccontando i retroscena della trattativa al colonnello del Ros Michele Riccio (Il Patto, Chiarelettere, con Nicola Biondo). Ieri nella puntata di Report, proprio Ranucci ha trasmesso quell’intervista sparita al giudice. E nello speciale c’era anche l’intervista di un ex detenuto che metteva in guardia proprio Ranucci nel 2016 perché il boss Madonia, a suo dire, voleva ucciderlo proprio per quel libro.

Chi scava nei rapporti tra mafia, apparati dello Stato e politica rischia molto. Non solo la vendetta della mafia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/05/trattativa-stato-mafia-solo-il-buon-giornalismo-ne-parla/6055666/

giovedì 24 dicembre 2020

“Aspi, tentata truffa allo Stato da 18 milioni”. M.G.

 

La nuova accusa ha preso campo nelle ultime settimane e ha assunto la forma di una grande tentata truffa: 18,7 milioni di euro che, secondo la Procura e la Guardia di Finanza di Genova, Autostrade per l’Italia intendeva farsi rimborsare dallo Stato per lavori mai fatti. Un “retrofitting”, cioè un miglioramento strutturale delle barriere antirumore, che in realtà non è mai avvenuto, se non nelle pieghe dei documenti contabili. Esisteva invece eccome, ma era stato nascosto, l’antefatto: l’errore commesso dal gruppo concessionario nella progettazione delle barriere che per questa ragione venivano abbattute dal vento e non reggevano ai test anticrash, oltre a essere fissate con una resina non a norma (“sono incollate con il Vinavil”, copyright di uno dei progettisti). La tentata truffa dunque è il nuovo reato che la Procura contesta all’ex ad Giovanni Castellucci e ai suoi collaboratori, Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti (tutti già indagati anche per attentato alla sicurezza dei trasporti e frode in pubbliche forniture).

Secondo la procura sapevano che le barriere antirumore erano un obbligo per la concessionaria, previste da un piano sottoscritto con la concessione. Occorreva dunque cambiare tutto, ma sarebbe costato “150 milioni di euro”. Per questo Donferri aveva caldeggiato la soluzione “aziendalista”: abbassare le “ribaltine”, ovvero la parte superiore delle barriere, abbassate così da 5 a 3 metri, dunque meno esposte alle folate di vento. Così piegate “sembrano disegnate da Renzo Piano”, scrive divertito Castellucci in un sms a Berti. Non solo quell’intervento non riduceva il rischio crollo, ma di fatto riproponeva il problema del rumore. Così, quando i residenti si lamentavano, una nuova squadra andava a rimetterle come erano prima. Ciò che emerge ora, è il secondo tempo di quella vicenda. Nelle pieghe dei bilanci è emerso infatti che quell’attività senza meta (le ribaltine abbassate e poi rialzate) era diventata un progetto di “retrofitting”: una ristrutturazione, per cui la concessionaria rivendicava il diritto a detrarne i costi. Il trucco è spiegato in un’informativa della Finanza: “I costi per il ripristino delle barriere sono stati scomputati alla voce F2”. La voce di bilancio che indica i miglioramenti strutturali. “Un po’ come se un inquilino facesse passare spese di manutenzione ordinaria per spese straordinarie e strutturali – semplifica un investigatore – per poi accollarle al proprietario di casa”. Nell’informativa la presunta ristrutturazione viene definita senza mezzi termini “un escamotage”.

Ecco il dettaglio. “Nel novembre del 2017 (per una spesa del 2018), il direttore di tronco di Genova Stefano Marigliani presenta un primo preventivo di 55mila euro per il 2018, e di 5 milioni per gli anni successivi. Un lavoro indicato come potenziamento degli ancoraggi e inserito alla voce F2”. Marigliani viene allontanato dopo l’avvio dell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi. La questione dei rimborsi attraversa quindi la vecchia e la nuova gestione. Gli ultimi sono infatti stati richiesti dopo l’addio di Castellucci e lo spostamento o il licenziamento dei dirigenti investiti dalle indagini. Dopo aver sentito il nuovo management, i giudici riconoscono ai nuovi dirigenti di essere stati “ragionevolmente all’oscuro” di quanto loro stessi hanno domandato indietro allo Stato. Così dice Mirko Nanni, successore di Marigliani, che per il 2020 firma una richiesta fotocopia a quella precedente: 994mila euro per il 2020, 2 milioni 900mila euro per gli anni successivi. “Ho scoperto che quelle barriere erano difettose dalla Procura”, ha detto a verbale.

E il ministero, come controllava? Sentito a verbale come testimone, Carmine Testa, il responsabile dell’ufficio territoriale del ministero delle Infrastrutture spiega di essere stato ingannato: “Non sono in grado di dire dove si collochi la voce F2”. E ancora: “Nessuno mi aveva riferito di un adeguamento e potenziamento delle barriere”. A sgombrare il campo dai dubbi è il dirigente del Mit, Felice Morisco: “Se la concessionaria commette un errore le conseguenze rimangono a suo carico”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/23/aspi-tentata-truffa-allo-stato-da-18-milioni/6045939/

domenica 15 novembre 2020

Autostrade mentì allo Stato che non ha mai controllato. - Carlo Di Foggia e Valeria Pacelli

 

I controlli su Autostrade per l’Italia da parte della vigilanza del Ministero delle Infrastrutture dal 2016 al 2019 sono stati “cartolari”, ossia si basavano sui documenti forniti dalla concessionaria. Peccato però che, come ricostruito nelle carte dell’inchiesta della Procura di Genova, nella documentazione inviata al Ministero la reale situazione delle barriere fonoassorbenti (per i pm pericolose e sostitute tardi) veniva occultata. Lo scrive il Gip di Genova Paola Faggioni nell’ordinanza di misura cautelare ai domiciliari emessa per l’ex Ad di Autostrade Giovanni Castellucci e i manager Michele Donferri Mitelli e Paolo Berti. L’inchiesta riguarda le barriere fonoassorbenti e antivento installate in tutta Italia da Aspi (il modello “Integautos”). Secondo le accuse, nonostante il vecchio management fosse consapevole della loro pericolosità non ha provveduto a sostituirle subito. Questo per evitare “gli ingentissimi costi che tali attività avrebbero comportato”.

Si deciderà di sostituirle solo a partire da gennaio scorso dopo che il consulente della procura di Genova, l’ingegnere Placido Migliorino, capo dell’ufficio ispettivo di Roma, stila una pesante perizia sulle criticità. Il tecnico fa a pezzi l’operato della concessionaria: errori progettuali; materiali di ancoraggio “non certificati” (sono “incollate col Vinavil”, dice un manager intercettato); difetti nella posa in opera; consegna al ministero di perizie incomplete; omissione degli atti di collaudo e via discorrendo. A parere di Migliorino, il problema poteva “essere risolto in maniera definitiva solo con l’integrale sostituzione”.

Il caso delle barriere è noto ad Aspi da novembre 2016, quando alcune si staccarono dal viadotto Rezza per il vento. Ma perché si è dovuto aspettare l’intervento dei pm? Mercoledì dal ministero hanno fatto sapere di aver “imposto il monitoraggio effettuato da società terze” perché “prima i controlli venivano effettuati da società interne agli stessi concessionari”, che nel caso di Aspi era Spea Engineering. E di aver istituto “l’agenzia di sicurezza Ansfisa” con 50 persone in più della direzione concessioni dedicate alla “verifica e all’approvazione dei programmi di manutenzione”. L’agenzia, voluta due anni fa dall’allora ministro Toninelli non è però ancora operativa ed è stata azzoppata da un emendamento che l’ha resa solo ‘promotrice’ della sicurezza e non ‘responsabile’ come pensato quando fu istituita.

Stando alle indagini di Genova, i documenti inviati da Aspi al ministero fornivano una visione distorta della condizione delle barriere. Il gip parla di “sistematico occultamento della situazione, attuato anche attraverso vari artifici quali l’abbassamento delle ribaltine adducendo motivi fittizi, il rialzo delle stesse nei casi nei quali le proteste richiamavano l’attenzione, l’omessa comunicazione delle problematiche allo Stato e addirittura anche il tentativo di aggiustamento di atti presso la Polizia Stradale”. Delle mancate comunicazioni al Ministero parla anche un ex responsabile dei lavori di Aspi. Ai pm dice – sintezza il gip – che “le disposizioni di servizio che ordinavano l’abbattimento delle ribaltine nell’area ligure sono state inviate al primo Tronco di Aspi e a Spea…, ma non al Mit”.

L’indagine della procura di Genova riguarda 30 km di barriere installate in Liguria da Autostrade (60 in tutta Italia), ma negli atti si parla di strutture molto più estese sul territorio. Per il Gip, da un’intercettazione, emerge che erano 400 i chilometri da adeguare. La domanda è: oltre la Liguria, ci sono altre tratte sulle quali intervenire? La palla passa al Ministero che potrebbe effettuare verifiche più estese e non “cartolari”, come fatto finora.

Intanto l’inchiesta complica la trattativa tra Atlantia e il governo per cedere il controllo di Aspi alla Cassa depositi e a due fondi speculativi. Mercoledì, dopo gli arresti, in un teso vertice video il Tesoro avrebbe fatto presente agli uomini della holding che il prezzo dovrà calare. Risposta: non se ne parla.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/13/autostrade-menti-allo-stato-che-non-ha-mai-controllato/6001942/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-11-13#

giovedì 1 ottobre 2020

Coronavirus, Conte: 'Proporremo proroga dello stato d'emergenza'.

 















La proposta riguarda uno slittamento dei termini fino al 31 gennaio.

Il Governo starebbe valutando l'ipotesi di una proroga dello stato d'emergenza per il Covid-19 fino al 31 gennaio.
La proroga al momento scade il 15 ottobre, ma il perdurare dell'emergenza ha suggerito agli esperti del Cts di allungare i tempi dello stato d'emergenza.

E il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte ha confermato quella che era fino a questa mattina solo un'ipotesi. "Andremo in Parlamento a chiedere la proroga dello stato di emergenza fino al 31 gennaio" ha detto il premier ai giornalisti a margine della visita alla scuola media 'Francesco Gesuè' a San Felice a Cancello (Caserta).

Il premier nella stessa occasione ha ribadito che per il Governo "Quota 100 scadrà nel 2021" e ha annunciato "altre formule per gestire un problema che è oggettivo". Rispondendo alla domanda di un giornalista, Conte ha detto: "Non è che ho rinunciato a quota 100, è che ho sempre annunciato che si tratta di una misura triennale, in scadenza nel 2021. Troveremo poi altre formule - ha proseguito - per gestire questo problema. Con il ministro Catalfo, siamo al lavoro sull" APE sociale e su altri provvedimenti". E sulla sua pagina Facebook, il presidente del Consiglio ha fatto sapere che "oggi entrerà in vigore la "Fiscalità di vantaggio" per tutte le aziende del Sud. Tutte le imprese che operano nelle regioni del Mezzogiorno potranno contare su un taglio del 30% del costo lavoro per tutti i loro dipendenti. I lavoratori non subiranno nessuna riduzione delle proprie retribuzioni". "E' una misura che abbiamo introdotto anche grazie all'impegno del Ministro Peppe Provenzano. Vogliamo rendere questa boccata di ossigeno stabile e duratura in modo da favorire la ripartenza e il rilancio produttivo del Sud. Un Sud più solido e competitivo renderà più forte l'Italia intera", aggiunge.

"Da quanto ho capito, si protrarrà". Così Roberto Fico, presidente della Camera, risponde in merito a una proroga dello stato di emergenza, legato alla pandemia da coronavirus. "È una cosa - ha affermato - di cui si occuperà il Governo. 

"Sulla proroga dello stato di emergenza discuteremo in Parlamento molto presto come è giusto che sia e io sarò in Aula all'inizio della settimana. Io sono sempre per la linea della massima prudenza e ho sempre mantenuto questa impostazione ma credo che sia corretto che ne discuta il Parlamento e che se ne discuta nel governo perchè in una grande democrazia si fa così". Lo ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, in visita allo stabilimento Sanofi di Anagni, dove partirà la produzione del vaccino anti-Covid a cui stanno lavorando in collaborazione le multinazionali Sanofi e Gsk.

Il ministro della Sanità Roberto Speranza terrà nell'Aula del Senato comunicazioni sul nuovo DPCM sull'emergenza coronavirus nel pomeriggio del prossimo 6 ottobre. Sulle comunicazioni saranno votate risoluzioni dall'Assemblea. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama.

(Nella foto ANSA Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in visita alla scuola Francesco Gesue' di San Felice a Cancello)

https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2020/10/01/ipotesi-di-proroga-dello-stato-demergenza-al-31-gennaio_5b4c2437-a8f2-4be7-b827-299e74275cc8.html

martedì 4 agosto 2020

Comunione e liberazione: il peggior cattolicesimo. - Ettore Boffano

Comunione e Liberazione - Diocesi di
“Anima persa” del cattolicesimo italiano, tra l’inizio e la fine della Chiesa di Karol Wojtyla, Comunione e Liberazione è stata una vera e propria “testa di cuoio” del collateralismo religioso a favore del ventennio berlusconiano. Appoggiata, usata e incentivata soprattutto dalle scelte dell’allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, in una commistione tra il Vangelo e gli interessi politici e affaristici degli “atei devoti”.
Eppure, che cosa fosse Cl, e che cosa fosse in particolare il suo Movimento Popolare, era ben chiaro già negli anni 70 e 80 sia al laicato cattolico sia ad alcune gerarchie della Chiesa italiana che, dopo il Concilio Vaticano II, avevano dato il via a una riflessione sulla necessità di un rinnovamento del ruolo dei credenti nella politica, a cominciare dalla “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica sotto la guida di Vittorio Bachelet.
C’è un episodio, tenuto perlopiù nascosto dalla pubblicistica (e divulgato unicamente da siti stranieri, mai però smentiti) che risale al 13 aprile 1980 e alla prima visita di Giovanni Paolo II a Torino, nei giorni del terrorismo delle Brigate Rosse. Cardinale della città era Padre Anastasio Ballestrero, un carmelitano scalzo che, nel 1975, era stato eletto presidente della Cei. Forse l’oppositore più strenuo della volontà di Wojtyla di dare pieno riconoscimento ecclesiale a Cl. Quella domenica, dopo la messa, lui e il papa si incontrarono nella sagrestia. Unico testimone fu padre Giuseppe Caviglia, anche lui un carmelitano scalzo e segretario di Ballestrero, che poi mantenne per molti anni la riservatezza su quanto ascoltò. Le ricostruzioni raccontano di una domanda aspra del papa, “Eminenza, perché lei è così ostile a Comunione e Liberazione?”, e di una risposta altrettanto esplicita: “Santità, lo capirà quando si sarà accorto che è la parte peggiore del cattolicesimo italiano”. Parole profetiche, rileggendo gli ultimi 40 anni di storia del nostro Paese. Parole, però, non ascoltate. Poco dopo, infatti, il riconoscimento a Cl arrivò assieme alla grande occasione per Ruini e per il suo modo di intendere “il ruolo dei cattolici nella politica italiana”. Come ha scritto Alberto Melloni: “Ruini intuisce che, nel venir meno della credibilità dei partiti e nel disfarsi del tessuto della rappresentanza politica, lui ha una grandissima chance”. I giornalisti e gli intellettuali ciellini serviranno poi, come una clava, per abbattere qualsiasi altra voce cattolica di dissenso: bollata con le accuse quasi eretiche di “relativismo” o addirittura di “gnosticismo”.
Il ruolo di Comunione e Liberazione in quell’arco di tempo avrà il suo occaso e il suo tramonto nella parabola di Roberto Formigoni, l’enfant prodige della creatura di don Luigi Giussani: fondatore e presidente del Movimento Popolare, parlamentare prima della Dc e poi delle sue varie frammentazioni, fino ad approdare nella galassia del Partito delle Libertà di Silvio Berlusconi. Il “Celeste” che viveva con i “memores domini”, ma che da presidente della Regione Lombardia è finito in carcere ed è stato condannato a 5 anni e sei mesi: i pm del processo di primo grado parlarono di lui come “il capo di un gruppo criminale”. Un terremoto per la credibilità di Cl e di tutte le sue diramazioni (e a discapito di migliaia di militanti e credenti), compresa la Compagnia delle Opere: il suo braccio economico. Un potere politico (ma sorretto dalla religione) che, in Lombardia, ha conquistato, assieme alla Lega, una sanità pubblica sempre più spostata verso i privati, nel nome della “sussidiarietà” (quella stessa sanità disastrata dell’emergenza Covid-19) e, in Italia, quasi il monopolio delle mense scolastiche e universitarie.
Una difficoltà rivelata finalmente, negli ultimi anni, da un imbarazzato silenzio mediatico attorno al movimento, nonostante il perdurare di certe attenzioni e, soprattutto, di certe autocensure, persino nei giornali di sinistra. Una prudenza che aveva coinvolto anche il Meeting di Rimini, per due decenni vera e proprio talk show dal vivo della politica estiva, soprattutto in chiave berlusconiana. Sino a qualche giorno fa, però, quando con l’annuncio dell’edizione 2020, è stato anche svelato che sarà Mario Draghi a inaugurarla. Presentato così da Bernhard Scholz, il presidente tedesco della manifestazione: “È importante ascoltare persone che hanno saputo prendere decisioni coraggiose e di grande competenza in momenti storici di difficoltà”; parole subito seguite da un ragionamento politico: “Se si vuole parlare di un governo di unità nazionale, occorre prima di tutto superare il clima di continua campagna elettorale”. Qualcosa che di certo avviene a insaputa di Draghi, ma che svela ancora una volta il vizio irrefrenabile della “parte peggiore del cattolicesimo italiano”.

mercoledì 3 giugno 2020

Nel nome di Cassese: i tentacoli nello Stato. - Carlo Tecce

Nel nome di Cassese: i tentacoli nello Stato

L’Emerito - Dalla cattedra di Diritto amministrativo e dal suo Istituto Irpa, ha costruito un sistema di legami e “allievi”: dai cda alla Consulta, fino ai ministeri e a Chigi.
Assiso davanti ai suoi allievi provenienti dalle università di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Catania e Siena per la presentazione della sua rivista giuridica, lo scorso anno, Sabino Cassese sentenziò: “La Pubblica amministrazione è il tramite fra la società e lo Stato”. Il tramite, spesso, sono Cassese e i suoi allievi, radicati ovunque, negli atenei, nei ministeri, nelle autorità di controllo, nelle aziende statali. E poi chiosò: “Oggi la Pubblica amministrazione è in una morsa”. Succede quando Cassese e i suoi allievi, cura e corpo dello Stato, luminari di diritto amministrativo, fustigatori della burocrazia, si sentono spodestati o non valorizzati dalla politica incapace di perseguire il meglio. Succede adesso. Cassese e i suoi allievi sono una corporazione, ben istruita, che si ritrova nelle strutture di governo e si riunisce all’Istituto per le ricerche sulla Pubblica amministrazione e nei seminari con le locandine enciclopediche in cui si saggiano futuri ministri e capi di gabinetto.
Curriculum in sella tra Lottomatica e Generali.
Il curriculum di Cassese scritto da Cassese è lungo due pagine, circa 7.500 caratteri. Non è la versione più aggiornata, neanche la più estesa. Si tratta di una volgare epitome. Più volte compare la parola emerito. Si intende docente emerito di diritto amministrativo e si riferisce alla cattedra all’Università Sapienza e al magistero perpetuo negli atenei italiani e stranieri. Ha studiato per mezzo secolo la Pubblica amministrazione, durante gli studi ne ha creato un tipo a sua immagine. Non a somiglianza perché nessuno davvero gli somiglia.
Fratello maggiore di Antonio, che fu giudice internazionale e accademico, Sabino nacque nel ’35 in Irpinia da Leopoldo, stimato archivista e storico. Nell’autunno del 2004, quasi a settant’anni, finiti i mandati nei consigli di amministrazioni di Lottomatica, Autostrade per l’Italia e Assicurazioni Generali e non ancora elevato alla Corte costituzionale, Cassese ha fondato l’Istituto per la ricerca sulla pubblica amministrazione, in breve Irpa, e l’ha dedicato a Cassese e ai suoi allievi. Irpa ha sede nel palazzo di Generali di piazza Venezia a Roma, di fronte al fatidico balcone. Non è proprio una sede, ma un indirizzo ufficiale, poiché viene ospitata dagli affittuari di Civita, l’associazione culturale presieduta da Gianni Letta. Il primo insegnamento che Cassese ha impartito ai suoi allievi è che l’alfabeto comincia dalla lettera c. L’esclusivo elenco soci di Irpa parte da Cassese Sabino e riprende da Agus Diego. In Irpa si entra per cooptazione, a oggi i posti sono 104, si paga un obolo di un paio di centinaia di euro, si va in ritiro a Sutri, provincia di Viterbo, con lo scoccare della raccolta delle castagne. Irpa raduna un gruppo ristretto di professionisti, di nobile lignaggio o di prestigiose carriere, interi blocchi di facoltà di giurisprudenza, docenti ordinari a trent’anni, associati a dottorati appena conclusi, ragazzi svezzati a vent’anni nei ministeri, avvocati dalle parcelle dorate. Tutti uniti da un legame con Cassese o da una venerazione per Cassese, un mentore che ha costruito attorno a sé una classe dirigente, in prosa, un gruppo di potere e di lobby, che negli anni ha proliferato compatto nelle università Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss di Confindustria e negli apparati di governo di ogni colore politico. Gli allievi di Cassese di Irpa si assembrano spesso. Da uno, a caso, si diramano gli altri. Più che un gioco di ruolo, è un gioco di Stato. Stefano Battini collabora col professor Cassese dal ’91, è ordinario di Diritto amministrativo all’Università della Tuscia. Nel 2017 il governo Gentiloni l’ha nominato al vertice di Sna, la Scuola nazionale dell’amministrazione. Per una docenza in Sna (40.000 euro), Battini ha reclutato Lorenzo Casini, eclettico e brillante giurista, classe ’76, già presidente per un anno di Irpa e da settembre capo di gabinetto di Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, nonché prof di Diritto amministrativo alla Imt alti studi di Lucca.
il labirinto discepoli vista Quirinale
Battini e Casini, in quest’ordine, si palesano fra i prof del master interuniversitario – Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre, Luiss più Sna – di secondo livello in diritto amministrativo chiamato Mida. Battini, Casini e poi Davide Colaccino, iscritto di Irpa e soprattutto direttore affari istituzionali di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). I soci di Irpa e i prof. di Mida sono sovrapponibili: pleonastico. Non solo Colaccino. Cdp in Irpa è ben rappresentata, o viceversa. Alessandro Tonetti, già vicecapo di gabinetto al Tesoro col ministro Padoan, è al vertice dell’ufficio legale di Cassa dal 31 marzo 2016. Un anno dopo Cassese è stato scomodato da Cdp per una consulenza legale in “merito alla posizione di Cassa e al suo Statuto” per 39.000 euro. Nel 2018 Susanna Screpanti è stata collocata agli “affari normativi e ai progetti speciali presso la direzione legale” di Cdp. Socia di Irpa, Screpanti è dottore di ricerca in diritto amministrativo a Roma Tre nel feudo del prof. Giulio Napolitano, figlio di Giorgio. Napolitano è stato presidente di Irpa prima di Casini e dopo l’avvocato Luisa Torchia. Nel 2018 Giulio ha ottenuto due incarichi legali da Cdp per un totale di 28.000 euro. Irpa in Consob, la commissione nazionale che vigila sul mercato borsistico, un tempo si fregiava del segretario generale Giulia Bertezzolo, decaduta il 29 marzo 2019 dopo le dimissioni del presidente Massimo Nava. In compenso, sempre nel 2019, il 20 febbraio, Napolitano è stato accolto in Consob nel comitato degli operatori e gli investitori. In Irpa il dibattito sulle concessioni autostradali sarà molto partecipato e si presume univoco. Cassese si è battuto sin da subito, dopo la tragedia del ponte Morandi, contro la revoca totale della concessione per Autostrade della famiglia Benetton. L’ha definita “sproporzionata”. Alcuni maliziosi hanno rievocato la sua esperienza nel cda di Autostrade. Di sicuro Cassese sarà in sintonia con l’amica giurista Torchia (Roma Tre), avvocato di Autostrade e in passato consigliere di Atlantia, la cassaforte dei Benetton. Sull’altro fronte, o almeno in una posizione di neutralità, in Irap c’è Lorenzo Saltari, che Danilo Toninelli, allora ministro dei Trasporti, indicò tra i membri della commissione tecnica per esaminare l’ipotesi di revoca della concessione. E in Irpa c’è anche Massimo Macrì, responsabile dei rapporti legali di Autostrade con il ministero dei Trasporti. A differenza di Macrì, Torchia e Saltari, Alberto Stancanelli, capo di gabinetto del ministro Paola De Micheli, successore di Toninelli, non è un socio di Irpa, ma a pieno titolo va considerato un allievo di Cassese. Ha trascorso vent’anni al suo fianco alla Sapienza. L’avvocato Torchia è stato il presidente più longevo di Irpa, sei anni, uno in più di Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio, ordinario di dDiritto amministrativo a Siena. Mattarella è stato per un biennio capo del legislativo del ministero della Pubblica amministrazione con Marianna Madia. Quel periodo, che ha coinciso col renzismo, è stato l’ultimo di massimo splendore per il proselitismo di Cassese. Come se fosse tornato alla Funzione pubblica dopo l’anno da ministro nel governo Ciampi. Mattarella al legislativo, Pia Marconi alla guida del dipartimento, Elisa D’Alterio all’unità per la semplificazione: una colonna di Irpa al dicastero. Il governo giallorosa può vantare un altro socio di Irpa, però molto trasversale: Luigi Fiorentino, capo di gabinetto al ministero dell’Istruzione (mentre Saltari è al legislativo). Alla Presidenza del Consiglio ci sono i dirigenti Carlo Notarmuzi Chiara Lacava. Cassese e i suoi adepti vanno oltre Irpa. Tra gli allievi va annoverato Giacinto Della Cananea (Tor Vergata), che fu estensore del programma di governo dei 5 Stelle. L’esecutivo renziano ha rottamato l’Isfol con l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche (Inapp). Cassese apprezzò. Stefano Sacchi, il presidente, ne fu orgoglioso. Cassese fu presto coinvolto con un parere legale (25.000 euro) e con la presidenza del comitato editoriale della rivista (15.800) di Inapp. La modesta pecunia non c’entra. Le cose in Italia accadono con rigore scientifico. Se le fanno accadere Cassese e i suoi allievi.

giovedì 3 ottobre 2019

UNO STATO ESTORSORE E CRIMINALE. - Gianni John Tirelli

Risultati immagini per oppressione fiscale

Quelle che con un eufemismo lo Stato chiama “le tasse”, in realtà sono vere e proprie tangenti. Ci viene richiesto il “pizzo” su ogni bene primario e inalienabile diritto naturale di nascita, e su altri beni che, nel tempo, si sono attestati a irrinunciabili bisogni della società civile.
Così ci viene estorto denaro quando acquistiamo una casa di abitazione, costretti in seguito a pagare annualmente e per il resto della nostra vita la fatidica IMU. Ci viene imposta una tangente “tassa sulla spazzatura”, che siamo costretti a pagare annualmente finche morte non ci separi dal mondo. E poi le quote fisse bimestrali, relative al consumo di acqua, di luce, gas, e telefonia fissa; veri e propri vitalizi che versiamo a società private dal momento in cui abbiamo scelto di abitare in una casa con un tetto sopra la testa, preferendola all’addiaccio, al sotto di un ponte o a una baracca di lamiera e cartone.
Quote fisse, queste, che dovremo onorare comunque per tutta la vita, anche nel momento in cui decidessimo di azzerare ogni consumo energetico o ridurlo al minimo.
E se dopo un’animata riunione famigliare, decidessimo imprudentemente di optare per l’acquisto di un’auto vettura, preferendola ad una bicicletta, ad un’asino, o a un carro trainato da buoi, dobbiamo mettere nel conto tutta quella lunga lista di tangenti (bollo, RCA, revisione, caro benzina, pedaggio autostradale, passaggio di proprietà, ecc..) che scattano automaticamente al momento dell’acquisto, e che ci perseguiteranno per tutta la vita, o per tutto il tempo durante il quale risultiamo possessori di quel maledetto e diabolico bene – anche quando decidessimo di limitare all’essenziale l’uso del veicolo e i suoi consumi.
Ma la lista delle tangenti attraverso le quali lo Stato democratico ci ricatta e ci dissangua al pari di un’organizzazione mafiosa, è talmente lunga e così ben distribuita all’interno del labirinto burocratico e legislativo, che ogni proposito di elencarle tutte risulterebbe retorico e pedante.
Lo Stato si comporta al pari di un’organizzazione criminale (di fatto lo è, anche se ben celata dietro travestimenti di facciata) quando, venendo meno il pagamento della “tangente” richiesta, automaticamente blocca l’accesso ai tuoi beni e ai tuoi bisogni primari, isolandoti dalla società, umiliandoti, e derubandoti della dignità. Il suo potere di vita e di morte sul cittadino, gli consente di toglierti luce, l’acqua, il gas, di bloccare la tua macchina, di ipotecare la tua prima casa e di metterla all’asta. Le sue leggi gli permettono di buttarti in mezzo ad una strada, tu e tutta la tua famiglia, di ridurti in miseria fino all’accattonaggio.
In questo caso, per accelerare le pratiche di recupero e renderle operative, si avvale del più spietato estorsore legalizzato in circolazione: Equitalia. Un facsimile della “Gestapo”, che pur di incassare la sua tangente, è disposto a qualsiasi crudeltà e nefandezza, al fine di riscuotere il credito che ritiene dovuto.
In altri casi, al contrario, ti è concesso tutto il tempo necessario per poi, dopo dieci o quindici anni, essere raggiunto da una raccomandata, da una bella cartella esattoriale, il cui importo è cento volte quello che in realtà dovuto; e se non paghi entro i termini previsti, puoi dire addio alla tua vita. Loro non vogliono i tuoi soldi subito – “Tu sei il loro più redditizio investimento e guai a te se paghi a tempo debito”.
Ciò che è inverosimile e inaccettabile, è il persistere a chiamare “democrazia” una struttura che ha le connotazioni di uno stato di polizia, e che non ha nulla da invidiare ai peggiori regimi del passato. Anzi… è ben più peggiore…!
Questo Stato va al più presto smantellato, azzerato, e ricostruito dalle fondamenta, per essere certi di avere rimosso tutto quel marciume che per decenni ha messo a ferro e fuoco questo paese, trascinandolo dentro una deriva etica, morale, economica e ambientale senza precedenti.

lunedì 18 marzo 2019

IL PATTO STATO -MAFIA, DA GARIBALDI A ROCCO CHINNICI. - Vittoria Longo



Il termine Mafia pare che sia stato associato per la prima volta a un gruppo di delinquenti nel 1863, allorché fu rappresentata con grande successo un’opera teatrale intitolata "I mafiusi di la Vicaria"
La vicenda, ambientata nel carcere di Palermo (la Vicaria, appunto), aveva come protagonisti alcuni criminali, che dopo essersi macchiati di vari delitti si pentono (uguale a oggi).
Il termine fu utilizzato anche nel 1865, dal marchese Filippo Antonio Gualterio, prefetto di Palermo, in un rapporto sulla situazione politica del capoluogo siciliano, inviato al ministero degli Interni. La grafia usata era
Maffia diversa da quella che poi si impose nell’uso, e designava chiunque si opponesse al nuovo Stato nazionale;
Giordano Bruno Guerri, ricorda nel suo libro "Il sangue del sud" che il Gualterio affermò, in una delle sue opere: il popolo che abitava l'Italia meridionale (ex Regno delle Due Sicilie) era separato dal progresso non per motivi storici ma "per diversità razziale"
In Sicilia,nel maggio del 1860, allo sbarco di Garibaldi, accorsero in aiuto dei garibaldini i famosi "picciotti” e i più capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, Santo Mele e Giovanni Corrao. Quest'ultimo, diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 in un agguato.Lo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro ”Storia della mafia”,racconta l'impresa di Garibaldi e come sia stato determinante la presenza e l'aiuto dei mafiosi in Sicilia, poichè senza di loro, l'eroe dei due mondi non avrebbe potuto assolutamente avanzare. Come, del resto, sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi Tore de Crescenzo , Michele “o chiazziere” e tanti altri. Un' aiuto determinante da parte dei mafiosi (cosa potevano fare, quale impresa eroica potevano compiere 1000 "giubbette rosse"?) che,oggi, piaccia o non ai risorgimentalisti, ci fanno capire che la malavita diede, per sua convenienza, un fortissimo contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo, ignorato dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale come, d'altronde, tutta la storia del Risorgimento. Una testimonianza la da il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo( paese conosciuto per la forte repressione del 1862 e la fucilazione di Angelina Romano), Giuseppe Bonanno, conosciuto come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico “Uomo d’onore”, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina. “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra ‘tradizione’ (mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Con l’Unità d’Italia, quindi, e con il contributo delle "Giubbette Rosse" la mafia, tenuta a distanza e soffocata dai Borbone nell'italia pre-unitaria, esce allo scoperto, legittimandosi a tutti gli effetti. Da quel momento diverrà una piovra dai tentacoli lunghissimi, che invaderà l'intero stivale. Un Cancro maligno, le cui metastasi sono dappertutto e non si riesce a trovare la cura

(o, forse, le "case farmaceutiche" hanno buoni motivi per non trovarla?! Mah!) Di questa trasformazione della mafia, dall’Italia pre e post unitaria, ne era convinto il giudice Rocco Chinnici, il fondatore del pool antimafia di cui allora fecero parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello.In un convegno a Grottaferrata nel 1978, organizzato dal Consiglio Superiore della magistratura ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia”. Ed ancora in un intervista:“La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Distrutto il potere, distrutta la mafia?!
P:S:
( fonti utlizzate per l'articolo: "Il sangue del sud" di G.B. Guerri, Linksicilia giornale on -line, "I mafiusi della Vicaria" opera in atti anno 1863, "La camorra" di Marc Monnier, La camorra e le sue storie di Gigi di fiore, "Origini della mafia in sicilia" di Percorsi di storia locale alcuni brani tratti dalle interviste del giudice Chinnici)

https://briganterocco.blogspot.com/2015/11/il-patto-stato-mafia-da-garibaldi-rocco.html?spref=fb&fbclid=IwAR1Cg53-mq5P54MCY9mqzSp-8GG6ZpBL9q9UIx-nESoEmnAUpdTFpXsj3Uk