Per i non-economisti, è difficile capire quanto fossero strani i modelli macroeconomici dominanti. Molti di essi presupponevano che la domanda doveva essere pari all'offerta, vale a dire che non poteva esserci disoccupazione (in questo momento, tanta gente si sta godendo una dose di svago in più, e la sua infelicità è una questione che riguarda la psichiatria, non l'economia). Molti si basavano su "agenti rappresentativi", su individui presunti tutti identici, vale a dire che non potevano esserci mercati finanziari significativi (chi avrebbe prestato denaro a chi?).
Né c'era posto per l'informazione asimmetrica, la chiave di volta dell'economia moderna, ovviamente le asimmetrie si sarebbero prodotte solo se gli individui fossero stati affetti da schizofrenia acuta, un assunto incompatibile con un altro, fondamentale: erano totalmente razionali.
I cattivi modelli portano a cattive politiche, per esempio le banche centrali si sono occupate soprattutto di piccole inefficienze economiche dovute all'inflazione, senza badare a quelle ben maggiori dovute alle disfunzioni dei mercati finanziari e alle bolle dei prezzi degli asset. D'altronde i modelli dicevano che i mercati erano sempre efficienti. Fatto degno di nota, i modelli macroeconomici standard non comprendevano neppure un'analisi adeguata delle banche. Perciò nel suo famoso mea culpa, Alan Greenspan, l'ex governatore della Federal Reserve, s'è detto sorpreso dal fatto che le banche non avessero mostrato più competenza nel gestire i rischi. La vera sorpresa è stata la sua: bastava un'occhiata veloce agli incentivi perversi offerti alle banche e ai loro direttori per prevederne il comportamento miope mentre correvano rischi eccessivi.
Ai modelli standard andrebbero assegnati voti in base alla loro capacità predittiva, e in particolare nelle circostanze che contano. È meno importante disporre di previsioni più accurate in tempi normali (sapere se la crescita economica sarà del 2,4 o del 2,5%) che di una buona misura del rischio di forte recessione. Su questo punto i modelli sono falliti miseramente e la loro credibilità è stata completamente minata dalle decisioni prese dai policy-maker che li hanno usati. Questi ultimi non hanno visto arrivare la crisi, dopo che era scoppiata la bolla hanno detto che i suoi effetti erano contenuti, hanno pensato che le conseguenze sarebbero state transitorie e meno severe di come sono state in realtà.
Per fortuna, mentre quei modelli fallaci andavano per la maggiore, numerosi ricercatori si occupavano di sviluppare alternative. La teoria economica aveva già dimostrato che molte delle conclusioni centrali dei modelli standard non erano robuste, nel senso che minimi cambiamenti negli assunti facevano variare di molto le conclusioni. Asimmetrie anche piccole dell'informazione, o imperfezioni nei mercati dei rischi, indicavano che i mercati non erano affatto efficienti. E venivano contraddetti risultati famosi, come la mano invisibile di Adam Smith: quella mano era invisibile perché non c'era. Oggi sono rimasti in poche le persone pronte a sostenere che i manager delle banche, nel perseguire il proprio interesse, hanno fatto il bene dell'economia.
La politica monetaria influisce sull'economia attraverso la disponibilità del credito e i termini con i quali viene messo a disposizione di piccole e medie imprese. Per capirlo occorre analizzare le banche e le loro interazioni con il settore creditizio ombra. La divergenza fra il tasso determinato dal Tesoro e quello praticato può variare notevolmente. Con rare eccezioni, le banche centrali hanno prestato scarsa attenzione al rischio sistemico e a quelli generati dalle interconnessioni del credito. Anni prima della crisi, alcuni ricercatori hanno studiato proprio questi problemi, compresa la possibilità di bancarotte a cascata che nella crisi avrebbero avuto un ruolo così determinante. È un esempio dell'importanza di creare modelli accurati delle interazioni complesse tra gli agenti economici (famiglie, società, banche), interazioni impossibili da studiare nei modelli in cui gli agenti siano tutti uguali. È finito sotto tiro persino l'assunto sacrosanto della razionalità: esistono deviazioni sistemiche dalla razionalità e conseguenze sul comportamento economico che vanno esplorate.
È arduo cambiare paradigma perché ci sono stati troppi investimenti nei modelli sbagliati. Com'è accaduto con i tentativi tolemaici di conservare una visione geocentrica dell'universo, verranno fatti sforzi eroici per complicare e affinare quello attuale. Forse ne risulteranno modelli migliori e forse serviranno per politiche migliori, ma è molto probabile che falliranno di nuovo. Ci vuole niente di meno di un nuovo paradigma e credo che sia a portata di mano. I mattoni intellettuali ci sono, e l'Institute for new economic thinking è l'ambito nel quale un gruppo variegato di studiosi sta cercando di costruirlo. In palio, ovviamente, c'è ben più della credibilità della professione, o dei policy-maker che ne usano le idee, ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie.
(Traduzione di Sylvie Coyaud)
© FINANCIAL TIMES
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