mercoledì 4 luglio 2012

“Quelle donne che restano con il marito violento”. - di Michela Marzano



“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”. 
Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.

La Repubblica 04.07.12


E c'è un altro tipo di violenza, molto più sottile, quella che non lascia lividi sul corpo, ma indelebili ematomi nell'anima: la violenza psicologica. Cetta.

1 commento:

  1. Continuo ad essere convinta che è solo e tutto un fatto culturale. In questo paese si continuano ad educare i figli come cinquanta, cento anni fa, le femmine da una parte e i maschi da un'altra. Si continua ad affibbiare un ruolo ai figli in base alla diversità di genere, le femmine aiutano ad apparecchiare mentre i maschi sono autorizzati a spalmarsi sul divano con papà. Aggiungiamoci poi che i genitori trascorrono sempre meno tempo coi figli riempiendosi di sensi di colpa e permettendogli poi a fare praticamente tutto per espiarli e il quadro è completo. Ed è chiaro che quando questi bambini diventano prima ragazzi e poi adulti - qui parlo dei maschi - l'idea che hanno delle ragazze e poi delle donne è quella di un'accondiscendenza illimitata; nessun no, quindi. Una donna spesso non si salva nemmeno quando è ex perché nessuno le ha insegnato le tecniche per difendersi dagli uomini violenti, ad allontanarli alle prime avvisaglie, per molte madri italiane è importante che una figlia trovi il buon partito che la faccia stare meglio di quanto sia capitato a loro, poi se le compra gioielli e pellicce ma la tratta a sberle in faccia non ha importanza. Le statistiche affermano che sono più gli uomini a cercare un'altra compagna fissa, un'altra moglie quando la compagna o la moglie muoiono di morte più o meno naturale e non di violenza, vuol dire che l'uomo generalmente non sa stare da solo, vive male in assenza e l'assenza di una compagna: questo dovrebbe significare qualcosa, credo. Ci sono chilometri di statistiche, tonnellate di pagine di giornali, migliaia di libri dove si tratta specificamente di questo orribile fenomeno, quello dell'uomo di casa che violenta, uccide la donna della quale diceva di essere innamorato quando quell'amore non è più ricambiato, quando capisce di non poter più esercitare il possesso di un corpo e molto spesso, troppo spesso anche di una mente che man mano si abitua alla sottomissione, per paura, perché da sole è più difficile, perché i figli soffrirebbero una separazione fisica dai loro padri, e allora, come nella metafora della rana nell'acqua che alla fine chiede di 'essere lasciata in pace' benché quell'acqua sia diventata troppo bollente per poter resistere da vivi anche certe donne si abituano alla violenza, imparano a sopportare, anzi, alzano l'asticella della soglia di sopportazione come racconta benissimo Concita De Gregorio nel libro "Malamore" dove non si parla delle violenze in sé ma delle ragioni che portano le donne a sopportare sempre di più credendo di poter fermare la mano del mostro quando vogliono.
    Il sottotitolo del libro infatti è "Esercizi di resistenza al dolore", l'autrice cerca di comprendere le ragioni che portano molte donne a scegliere di convivere coi loro aguzzini e a sopportare l'escalation di violenza, ad addomesticarla, umanizzarla fino a far diventare normali gesti che non lo sono, uno schiaffo, una mortificazione psicologica, e molto spesso capita che lo schiaffo - sempre inaccettabile, s'intende - sia la minore delle violenze. La violenza sessuale, lo stupro, gli omicidi delle donne per mano degli uomini che hanno come movente quella che viene erroneamente e semplicisticamente definita "passionalità" non hanno nulla a che fare con gli sconosciuti ma proprio e solo con uomini di cui queste donne che vengono ammazzate si fidavano.
    Uomini che sono stati amati, coi quali si è vissuto sotto lo stesso tetto, uomini che sono i padri di tanti figli rimasti senza una madre perché i loro padri hanno deciso che senza di loro quelle donne, mamme, non dovevano né potevano più vivere.
    Cristina Correani su fb.

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