sabato 1 settembre 2012

IL GIORNALISMO DEI FALSI D’AUTORE. - Giovanni Valentini


Silvio Berlusconi

Sotto la direzione del fondatore, Lamberto Sechi, un tempo «Panorama» si fregiava dello slogan «I fatti separati dalle opinioni». Con minori pretese, oggi il settimanale della Mondadori berlusconiana potrebbe convertirlo in quello più dimesso «Le notizie confuse con le invenzioni». La pubblicazione delle presunte intercettazioni, senza virgolette e quindi non testuali, delle telefonate fra il presidente Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino in ordine alla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, inaugura un genere tanto inedito quanto inattendibile. Quello delle rivelazioni impossibili. O peggio, delle rivelazioni incontrollate e incontrollabili. Le rivelazioni-patacca.
Nei rischi del nostro imprevedibile mestiere, può capitare a volte — per fretta o trascuratezza — di dare notizie inesatte, infondate, non veritiere. E in genere, quando un errore viene commesso in buona fede, si usa farne pubblica ammenda. Ma qui il caso è tutto affatto diverso: senza voler giudicare la deontologia professionale di nessuno, siamo di fronte a un modello di giornalismo dichiaratamente immaginifico, ipotetico, fantasioso. Un giornalismo al di fuori della realtà. Lo «scoop» fasullo del settimanale mondadoriano dischiude quindi nuovi orizzonti e scenari inesplorati alla nostra controversa professione.

D’ora in poi, lungo questa china, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a inventare qualsiasi cosa. Pensate, per esempio, a un colloquio riservato tra Silvio Berlusconi e la cancelliera Angela Merkel: impossibile, impensabile, irreale. Oppure a una telefonata indiscreta fra l’ex presidente del Consiglio e l’ex ministro Umberto Bossi, assistito magari dal figlio per la traduzione simultanea dal lumbàrd all’italiano. O ancora, a una conversazione intima fra il Cavaliere e la consigliera regionale Nicole Minetti: una barzelletta spinta, una storiella a luci rosse.
In tutto questo non può certamente essere trascurato il fatto che il giornale in questione appartiene al Gruppo editoriale del medesimo Berlusconi. E allora, come ha scritto ieri il direttore del nostro giornale, ecco che la verità viene sopraffatta dalla demagogia sotto l’influsso di quel «ribellismo populista» che punta a sovvertire il precario equilibrio di governo, minacciando gli assetti istituzionali. La denuncia del cosiddetto «ricatto» al presidente della Repubblica risulta perciò opportunistica e strumentale: anzi, rischia di tradursi essa stessa in un ricatto.
La torbida vicenda delle intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia s’intreccia così con il messianico annuncio del ritorno in campo del Cavaliere; con l’irresponsabile richiesta di elezioni anticipate e infine con il maldestro tentativo di baratto sulla riforma elettorale da parte di ciò che resta del centrodestra. Una manovra politica chiaramente destabilizzante, avventurosa e avventurista, sulla pelle del Paese.

Sono falsi d’autore, dunque, quelli che il settimanale della Mondadori propina all’opinione pubblica, con tanto di firma autografa. Falsi sottoscritti e autenticati da un potere che non si rassegna alla propria sconfitta e al proprio irreversibile declino. Ma il nome e cognome dell’autore sono in calce agli ultimi orribili vent’anni della storia italiana.

Ottimi stipendi, pessimi risultati: la mappa della generazione fallita (parte 1). - Costanza Iotti e Gaia Scacciavillani

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Il premier Monti ha detto che i giovani stanno pagando "un conto salatissimo". Una generazione perduta che sconta i disastri provocati da una classe di boiardi inamovibili nati tra gli anni Trenta e Quaranta, retribuiti a peso d'oro. Dopo le società pubbliche, seconda puntata dell'inchiesta dedicata alla 'generazione fallita'. Tra fondazioni bancarie, ordini professionali e sport di Stato.

“Un’intera generazione sta pagando un conto salatissimo”. Parole sante quelle pronunciate dal premier Mario Monti all’apertura del Meeting di Rimini il 19 agosto scorso. Quello che il professore non ha detto, però, è che davanti alla cosiddetta generazione perduta ce ne sono almeno un paio che il conto, invece, lo hanno incassato durante i decenni trascorsi ai vertici del sistema-Italia, dalla politica, ai sindacati e alle associazioni, passando per la ragnatela del pubblico e del para-pubblico. Con i risultati che sono oggi sotto gli occhi di tutti. Tanto che se è vero che c’è una generazione perduta, è altrettanto vero che questa esiste perché è stata preceduta da generazioni che, con i dovuti distinguo, potremmo ribattezzare fallite. Alle quali ilfattoquotidiano.it ha deciso di dedicare un’inchiesta a puntate. Generazioni fallite, come quelle degli anni trenta e quaranta che hanno dato vita all’ingombrante popolo dei manager e dei dirigenti di Stato sostenuti da una politica per la quale il motto largo ai giovani non sembra esistere, come dimostrano anche gli estremi anagrafici dei nostri politici (57 anni l’età media dei senatori, 54 quella dei deputati) e dell’attuale governo (età media 64 anni, 69 anni il premier). E molto spesso poco importa che le gestioni abbiano o meno portato dei risultati: per il cattivo funzionamento di imprese ed enti pubblici non paga quasi mai nessuno. Cittadini esclusi naturalmente. Così gli operati raramente vengono messi in discussione. E se per caso qualcuno si accorge che i conti tra le performance e i lauti stipendi non tornano, basta un giro di poltrone per calmare le acque. Quanto all’età, in Italia, nel pubblico come nel privato, tetti per legge non ce ne sono. Da qui una casistica decisamente varia che spazia dalle società pubbliche, alle autorità di vigilanza, agli enti e le fondazioni di emanazione statale, senza trascurare sindacati, associazioni di categoria e ordini professionali.
VIAGGI DI STATO: DA TRENITALIA AD ALITALIA. Se le autorithy di vigilanza vantano i primati nella reiterazione dei mandati, spetta alle aziende di Stato la palma res per retribuzioni e superbonus. Alle Ferrovie, Giancarlo Cimoli, classe 1939, piazzato dal governo Prodi nel 1996 a risanare il gruppo dopo l’era di tangentopoli e di Lorenzo Necci, va via nel 2004 intascando un assegno di addio da 6,7 milioni di euro e lasciando i conti in rosso per 125 milioni. Un buco che per il governo Berlusconi vale la poltrona della claudicante Alitalia dove, pur arrivando decisamente lontano dagli obiettivi di risanamento, Cimoli incassa un’altra buonuscita. Da 3 milioni. Peggio di lui, in termini di risultato di gestione, fa il suo successore alle Ferrovie, il 66enne Elio Catania, che nel 2005 chiude il bilancio delle Fs in negativo per 465 milioni. Si dimette l’anno successivo quando il rosso ha ormai raggiunto e superato quota 2 miliardi su richiesta del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa. Ma anche lui, come Cimoli, intasca una buonuscita (7 milioni) inversamente proporzionale ai risultati ottenuti e pochi mesi dopo viene scelto da Letizia Moratti per la presidenza dell’azienda municipalizzata dei trasporti milanesi, Atm, incarico che è stato revocato l’estate scorsa dal sindaco Giuliano Pisapia. Lo stesso che ha appena rispolverato il settantaduenne Giovanni Maria Flick che, già ministro della Giustizia e, in seguito, presidente della Corte Costituzionale, chiusa la vicenda San Raffaele e sfumato il vertice dell’Istituto Toniolo di Milano, l’ente che controlla l’università Cattolica, è stato indicato come delegato del sindaco, a titolo gratuito, va detto, al Tavolo di coordinamento per l’Expo 2015, l’evento per il quale si lavora freneticamente con un’enorme quantità di appalti e contrappalti. Gesuita di formazione, il professor Flick saprà certo far miracoli per esaudire al meglio le funzioni di vigilanza, controllo e impulso in relazione.
LA BENEDIZIONE DELLA CHIESA. Del resto quando la Chiesa dà la sua benedizione anche i sindacalisti si laureano honoris causa, come il presidente delle Poste, Giovanni Ialongo, classe 1944, nominato nel 2008 e ancora in carica. Una vita spesa a servizio dell’Istituto postelegrafonico: da segretario nazionale Federazione Posta Cisl fino a presidente e commissario straordinario dell’Ipost, presidente Postel. Un curriculum “pubblico” di tutto rispetto che nel 2009 gli vale la laurea honoris causa in diritto Civile rilasciata da monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense, per l’attenzione sempre prestata al messaggio della Dottrina sociale della Chiesa e a una visione dell’economia incentrata sul rispetto della persona.
SCARONI-GUARGUAGLINI: GLI EVERGREEN. Sa di miracolo, poi, la storia di Paolo Scaroni, il cui arresto nel 1992 per tangenti al partito socialista per conto della Techint (poi finito con un patteggiamento a un anno e quattro mesi), non ha inficiato la brillante carriera in Enel (ad dal 2002 al 2005) e poi Eni (dal 2005) della quale è ancora amministratore delegato alla tenera età di sessantacinque anni. E pensare che l’ex deus ex machina di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, classe 1937, a dicembre è uscito di scena prima che l’inchiesta sul sistema di corruzione degli appalti Enav arrivasse a processo. Va detto però che era nell’aria da tempo il ricambio per un manager che, assieme alla moglie Marina Grossi, ex ad della Selex finita sotto inchiesta ben prima del marito, ha guidato l’azienda di Stato della Difesa per ben nove anni (dal 2002). Sono pochi del resto gli uomini di potere che optano per la pensione. Per esempio Franco Bassanini, classe 1940, è saldamente ancorato alla poltrona della presidenza della Cassa Depositi e Prestiti dal 2008. Tenace anche Giovanni Castellaneta, 70 anni tra pochi giorni e già consigliere della stessa Finmeccanica per conto del Tesoro durante l’ultimo triennio Guarguaglini, che dopo aver trascorso una vita da ambasciatore, è stato ricollocato nel 2009 alla presidenza di Sace, l’agenzia pubblica di credito all’esportazione.
AMBASCIATOR NON PORTA PENA. A un altro ex diplomatico eccellente, invece, è andata la presidenza della Arcus. La società pubblica per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo fa in fatti capo a Ludovico Ortona, classe 1942. L’ex ambasciatore italiano a Lisbona, Teheran e Parigi, ma soprattutto capo ufficio stampa alla presidenza della Repubblica di Francesco Cossiga, è stato infatti scelto per questo delicato ruolo da Sandro Bondi a luglio del 2010. Giusto in tempo per fare i conti con il crollo della Scuola dei Gladiatori a Pompei, avvenuto quattro mesi dopo.
I 19 GOVERNI DI MR TIRRENIA. Pochi, però, hanno saputo eguagliare le gesta del cavaliere del Lavoro e gentiluomo del Papa (Wojtyla) Franco Pecorini, classe 1941. Ovvero l’uomo solo al comando che nel 2010 ha traghettato la disgraziata Tirrenia alla certificazione del naufragio, dopo aver guidato indisturbato per ben ventisei anni la compagnia di navigazione recentemente oggetto di uno spezzatino chirurgico e di una faticosissima privatizzazione. Soltanto alla vigilia dei 70 anni lui, che al contrario della “sua” azienda è sopravvissuto incolume a 19 governi, è passato al cda dell’assicuratore di Tirrenia, Ital Brokers e ha ceduto il timone della compagnia di navigazione al Commissario straordinario, Giancarlo D’Andrea. Anche lui, manco a dirlo, grande vecchio della pubblica amministrazione.
GESTIONI INATTERRABILI. Del resto i manager pubblici nati negli anni 40, in Italia affollano i posti chiave di enti e aziende di Stato. Come l’Enac, l’ente cui è affidato il controllo dell’aviazione civile, dal 2003 presieduto dal palermitano Vito Riggio, 65 anni, ex parlamentare Dc ed ex consigliere di Pietro Lunardi, nonché inquilino eccellente di Propaganda Fide, che casca letteralmente dal pero quando compagnie come la sua conterranea Windjet colano a picco da un giorno all’altro. O come il suo coetaneo Giorgio Tino, parente di Antonio Maccanico e nipote del primo presidente di Mediobanca, che dopo una carriera ministeriale con una particolare predisposizione per l’ambito tributario, è stato seduto sullo scranno della direzione generale dei Monopoli di Stato dal 2002 al 2009 – gestione dalla quale ha recentemente ereditato una multa di 4,8 milioni di euro inflittagli dalla Corte dei Conti - per poi passare alla vicepresidenza di Equitalia Gerit dopo la cui chiusura, nel 2011, lo troviamo nel consiglio di amministrazione della fondazione Centro sperimentale di cinematografia. Che per statuto viene nominato con Decreto del Ministro per i Beni e per le Attività Culturali, sentito il parere delle competenti commissioni parlamentari ed è composto da personalità “di elevato profilo culturale, con particolare riguardo al campo cinematografico ed audiovisivo e con comprovate capacità organizzative”.
LA RESISTENZA DEL COMMERCIALISTA DI BOSSI. Resistere, poi, è il motto del settantacinquenne calabrese Dario Fruscio, che dopo un lungo rodaggio come disturbatore d’assemblee e consigliere di amministrazione della Standa, grazie al rapporto di fiducia con Umberto Bossi nel 2002 si è piazzato per sei anni nel cda dell’Eni, per cinque in quello di Sviluppo Italia, la discussa agenzia per l’attrazione degli investimenti nel Paese che oggi si chiama Invitalia e nel 2008 ha trovato il tempo anche per una comparsata alla guida del collegio sindacale di Expo 2015. E se è stato difficilissimo schiodarlo dalle poltrone pubbliche durante il suo mandato al Senato tra il 2006 e il 2011, sembra praticamente impossibile allontanarlo dalla guida dell’Agea, l’agenzia che gestisce gli oltre 7 miliardi annui di erogazioni per l’agricoltura dalla quale era stato defenestrato con il commissariamento in seguito ad un conflitto sul pagamento delle quote latte. Salvo poi ottenere il reintegro al Tar a gennaio di quest’anno.
I FIGLI SO’ PEZZI ‘E CORE: CARDIA E GIANNINI. Tempra simile a Fruscio, mutatis mutandis, per Lamberto Cardia, 12 anni alla vigilanza dei mercati finanziari, la Consob, tra una proroga e un cambio di normativa e l’altro negli anni di Cirio, Parmalat e dei furbetti del quartierino, con una gestione improntata alla chiusura della stalla a buoi scappati. E con un figlio, Marco, che ha fatto parlare di sé per aver prestato i suoi servizi di avvocatura alla famiglia Ligresti. E quando ha lasciato lo scranno nel 2010, alla tenera età di 76 anni, qualcuno non dev’essersela sentita di mandarlo ai giardinetti. Ed ecco per lui una nuova poltrona: la presidenza delle Ferrovie dello Stato al posto dell’allora sessantanovenne Innocenzo Cipolletta, dove lo troviamo ancora oggi. Figli scomodi anche per Giancarlo Giannini, classe 1939 dal 2002 presidente della vigilanza delle assicurazioni, l’Isvap, dopo un trentennio all’Assitalia e un passaggio all’Ina e il cui figlio Andrea tra il 2005 e il 2006 è stato ispettore commerciale con il grado di funzionario nella FondiariaSai dei soliti Ligresti, il cui sfacelo è oggi sotto gli occhi di tutti. E non certo per l’attivismo della vigilanza, che sarà a breve traghettata sotto la Banca d’Italia. Niente Fs per Giannini, peraltro scaduto da qualche settimana, che per il momento si accontenta del ruolo di commissario con stipendio ridotto del 10% con il compito di gestire la transizione.
L’UOMO DEL PONTE. Intanto i senatori insorgono contro Pietro Ciucci, il 62enne che dal 2006 guida l’Anas, la società che gestisce la rete stradale italiana. Ma anche la Stretto di Messina, al cui comando è stato messo dieci anni fa, subito dopo la liquidazione dell’Iri dove aveva trascorso ben 15 anni. Ebbene i parlamentari indignati sostengono che qui Ciucci si sarebbe preso libertà che vanno molto al di là del suo mandato, con la volontà di favorire di fatto e in tutti i modi possibili le imprese che avrebbero dovuto costruire il Ponte. Come Condotte, la Cooperativa muratori e cementisti-Cmc di Ravenna, ma soprattutto l’Impregilo già dei Benetton (Autostrade) e dei Ligresti, ora contesa tra Pietro Salini e l’importante concessionario autostradale del Paese, Gavio. Anche a danno delle finanze pubbliche, sempre secondo i senatori.
LA QUOTA ROSA. Non sarà sfuggito che fin qui, consorti a parte, la lista dei longevi manager pubblici è tutta al maschile. Ma c’è una donna che è riuscita a farsi spazio in questo aggressivo mondo di uomini: la 67enne Anna Maria Tarantola, dal 1971 ad oggi in Bankitalia dove l’ultimo incarico è stato quello di vicedirettore generale (dal 2009), proiettata alla presidenza del consiglio di amministrazione della Rai. Come prima mossa, la signora non proprio spontaneamente si è ridotta lo stipendio. Ma questo non può far dimenticare i regali ricevuti dall’ex amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani, quando era a capo della vigilanza ai tempi di Antonio Fazio, né tanto meno il fatto che sia indagata a Trani nel filone di inchiesta su presunti ritardi da parte di Bankitalia nel blocco di prodotti tossici che avrebbero avvantaggiato il Banco di Napoli del gruppo Intesa SanPaolo, guidato fino alla nomina a Ministro dello Sviluppo economico da Corrado Passera.
Fine prima puntata

Ottimi stipendi, pessimi risultati: ecco la mappa della generazione fallita. (parte 2) - Costanza Iotti e Gaia Scacciavillani


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Il premier Monti ha detto che i giovani stanno pagando "un conto salatissimo". Una generazione perduta che sconta i disastri provocati da una classe di boiardi inamovibili nati tra gli anni Trenta e Quaranta, retribuiti a peso d'oro. Dopo le società pubbliche, seconda puntata dell'inchiesta dedicata alla 'generazione fallita'. Tra fondazioni bancarie, ordini professionali e sport di Stato.


Manager di Stato inamovibili e strapagati, ma anche poltrone chiave in fondazioni, ordini professionali, camere di commercio, sindacati ed enti sportivi. Le generazioni “fallite” degli anni trenta e quaranta è passata davvero dappertutto e seguirne le tracce è come cercare un ago in un pagliaio, al punto che selezionare è d’obbligo. Continua l’inchiesta delFattoquotidiano.it tra le classi dirigenti del passato e del presente che restano al loro posto, con stipendi da favola e con risultati così così. Il presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, quello della Confcommercio Carlo Sangalli, il leader della Uil Luigi Angeletti, ma anche gli uomini “di sport” usciti dalla porta per rientrare dalla finestra Franco Carraro e Mario PescanteUna lista che si aggiunge agli evergreen Scaroni e Guarguaglini, ai “viaggi di Stato” dei manager di Alitalia e Trenitalia fino all’uomo del ponte Ciucci (leggi la prima puntata)
MI SI E’ RISTRETTA LA FONDAZIONE. In tempi di stretta del credito e di aiuti di Stato alle banche, non si possono certo trascurare le fondazioni che negli anni Novanta, in scia alla legge Amato-Carli, hanno sostituito il Tesoro in testa all’azionariato degli istituti pubblici. Enti ai cui vertici le “nostre” generazioni sono particolarmente attive. In posizioni strategiche, ovviamente. Che il mondo del credito abbia i capelli bianchi, non è una novità. Soprattutto poi sei si parla di fondazioni, quelle che realmente hanno in mano il polso delle banche e del territorio. Il democristiano Giuseppe Guzzetti, classe 1934, governatore della Lombardia dal 1979 al 1987, da 12 anni presidente dell’Acri, l’organizzazione che rappresenta le casse di risparmio e le fondazioni di origine bancaria e da 15 della potente Fondazione Cariplo, socio forte di Banca Intesa, è forse l’esempio più calzante di un mondo che unisce politica, economia e potere. “Le banche non sono asservite alla politica” ha tuonato tempo fa lui che ora divide il controllo della prima banca italiana con la torinese Compagnia di San Paolo, che da maggio fa capo a Sergio Chiamparino, classe 1948, ma soprattutto sindaco Pd di Torino fino al 2011, nonché ex presidente nazionale dell’Anci e coordinatore dei Sindaci delle Città. 
Notevole anche Paolo Biasi, classe 1938, da quasi vent’anni presidente della fondazione Cariverona, socio di peso di Unicredit. Classe 1938, Biasi dovrebbe forse dedicarsi di più agli affari di famiglia visto che l’omonimo gruppo, che produce caldaie, è stato messo di recente in liquidazione per ristrutturare il debito contratto con le banche. Tra le quali c’è anche la stessa Unicredit, oltre a Intesa SanPaolo ed Efibanca. Una procedura in cui ha un ruolo anche l’avvocato Eugenio Caponi, vicepresidente di Cariverona, nominato liquidatore. Versatilissimo, invece, il Rettore dello Iulm dal 2001, Giuseppe Puglisi, 67 anni, dal 1999 ai vertici della Fondazione Sicilia già Fondazione Banco di Sicilia, oltre che consigliere del glorioso Istituto Treccani guidato da altri due grandi vecchi dell’Italia che conta, il 74enne Giuliano Amato e Franco Tatò, classe 1932, del quale si ricordano, oltre alla discutibile gestione dell’Enel con tanto di nipote tra i consulenti, le corpose note spese e le laute parcelle.
Puglisi, poi, trova anche il tempo per presiedere la Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco e per fare il consulente del governatore siciliano uscente, Raffaele Lombardo, per i beni culturali. Un uomo decisamente impegnato. Forse anche troppo. Con una maggiore dedizione alle sole fondazioni, molti presidenti di questi enti nati con la missione istituzionale di svolgere attività filantropiche sul territorio attraverso le erogazioni, si potrebbero occupare meglio della propria mission. Con la crisi del credito, infatti, le erogazioni sono state ridotte drasticamente con il risultato che le fondazioni, contrariamente allo spirito della legge che le ha istituite, assomigliano sempre più a semplici scatole di controllo delle banche. E anche questo non riesce molto bene, per esempio a Siena col Monte dei Paschi che dopo quasi 4 miliardi di aiuti si prepara dopo meno di vent’anni a riavere lo Stato tra i suoi soci. A capo dell’ente che, per cercare invano di tenere il controllo della banca, nell’ultimo anno ha ridotto patrimonio ed erogazioni ai minimi termini, c’è Gabriello Mancini che nel 2006 ha preso il posto di Giuseppe Mussari alla presidenza dopo quattro anni di vicepresidenza, incarico che riveste da sei anni anche all’Acri.
La formazione “sanitaria” di Mancini, che nasce come dirigente dell’Asl di Poggibonsi, ma milita nella Democrazia cristiana risalendone a vario livello la gerarchia, non deve essere stata sufficiente a fargli intuire i problemi di salute di una banca che ancora paga il salato conto della disastrosa acquisizione di Antonveneta strappata dalle mani del Santander per la stratosferica cifra di 9 miliardi. Come poi dimenticare, infine, Dino De Poli, il presidente della Fondazione Cassamarca che per le difficoltà finanziarie a settembre 2011 ha annunciato la chiusura dei rubinetti sospendendo le erogazioni a tutto ciò che non fosse legato alla prosecuzione dell’attività delle sedi universitarie e, con riserva, dei teatri. L’avvocato di Treviso, classe 1929, che pensa bene di poter riproporre il proprio nome per il rinnovo del consiglio in scadenza a fine 2012, non può neanche prendersela con i suoi predecessori, dato che governa la fondazione ininterrottamente dalla sua origine.
CAMERE DI COMMERCIO, ordini professionali e sindacati non sfuggono alla regola. Anche qui i dinosauri che si scambiano le poltrone da decenni non mancano. Il 75enne Carlo Giuseppe Maria Sangalli, ad esempio, è tra il resto presidente della Camera di Commercio di Milano da 15 anni e vicepresidente della Fondazione Cariplo da quattordici. Dal 2010 ha poi anche assunto l’incarico di vicepresidente dell’Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano. Un bel portafoglio di impegni che è completato dalla presidenza di Confcommercio che occupa da sei anni. Immancabile anche per lui, che siede anche nel cda della Mondadori, il passaggio in politica come parlamentare per ben 24 anni (dal 1968 al 1992). Roma in confronto fa sorridere con il presidente della Camera di Commercio, Giancarlo Cremonesi, classe 1947, che dopo una lunga carriera nel mattone, nel 2008 è sbarcato alla presidenza di Acea, di cui il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone è secondo azionista dietro al Comune di Roma che ne ha sostenuto la nomina. Negli Ordini professionali da segnalare la longeva presidenza di Piero Guido Alpa, classe 1947, ai vertici del Consiglio nazionale forense dal 2004 ad oggi e di cui è stato vicepresidente dal 2001 al 2004. Casi analoghi anche nel mondo dell’informazione con Lorenzo Del Boca, 61 anni, presidente dell’Ordine dei giornalisti dal 2001 al 2010, che è stato il primo ad incassare tre mandati consecutivi dopo essere stato per 5 anni numero uno del sindacato della stessa categoria, la Fnsi. Ma la palma spetta a Franco Abruzzo: l’ex presidente 73enne dell’Ordine di Milano ha trascorso ben 14 anni alla guida dei giornalisti meneghini. Infine, nel sindacato, che dovrebbe dare l’esempio del rinnovamento a difesa degli interessi dei lavoratori, si sono invece sedimentati lavoratori di un’altra epoca. Il 63enne Raffaele Bonanni della Cisl prima di diventare segretario nazionale nel 2006 ed essere riconfermato nel 2009 è stato per otto anni segretario confederale. Peggio ancora fa la Uil con Luigi Angeletti, classe 1949, che è segretario generale da dodici anni. E in precedenza era stato segretario confederale Uilm. Che dire? Di sicuro, nei sindacati, l’esperienza non manca.
GLI ATLETICI DINOSAURI. Franco Carraro, Gianni Petrucci e Mario Pescante: in tre, oltre 120 anni di carriera ai vertici dello sport italiano. Praticamente da sempre. Come nella “migliore” tradizione nazionale. Emblematico, in tal senso, il soprannome di Carraro, che per tutti è “il poltronissimo”. Già sindaco (socialista) di Roma dal 1989 al 1993 e per tre volte ministro dello Spettacolo e del Turismo (dal 1987 al 1991), ha ritrovato nel mondo dello sport la sua naturale connotazione professionale e umana, visto che a fine anni ’50 è stato campione europeo di sci nautico, federazione di cui diventa presidente nel 1962. Rimarrà “in sella” fino al 1976. E’ il primo di un’infinita serie di incarichi, tra cui spicca anche quello di presidente del Milan (dal ’66 al ’71). Abbandonata la Fisn, si dà al pallone. Numero uno del settore tecnico della Figc, viene eletto presidente della Lega nel 1973 e vi rimane fino al 1976, quando diventa presidente della Figc (di cui sarà anche commissario straordinario nel 1986). Dal 1978 al 1987 presiede il Coni, carica che abbandona per darsi alla politica ‘tradizionale’. Nel 1997 torna a guidare la Lega nazionale professionisti, dove rimarrà fino al 2001, quando torna a dirigere la Figc. ‘Resiste’ fino al 2006: si dimette ‘a causa’ dello scandalo calciopoli. Fino a qualche mese fa è stato anche commissario straordinario della Federazione italiana di sci, mentre ad oggi conserva la carica di componente della giunta Coni in quanto membro del Cio (Comitato Olimpico Internazionale).
Di questo ente, dal 2009 fino al 21 febbraio scorso, è stato vicepresidente vicario Mario Pescante, dimessosi dopo la rinuncia italiana alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020. Questo per quanto riguarda il presente. Ma la storia del “dirigente sportivo Pescante” inizia nel lontano 1973, quando viene nominato segretario generale del Coni, di cui diventa presidente nel 1993. Vi rimane fino al 1998, quando fu costretto a lasciare a causa dello scandalo del laboratorio Antidoping dell’Acqua Acetosa. Membro del Cio dal 1994, nel 2001 diventa deputato con Forza Italia, ricoprendo anche l’incarico di sottosegretario del secondo e terzo governo Berlusconi. Per quale dicastero? Neanche a dirlo: Beni culturali, ma delega allo sport. Rieletto nel 2006 (e anche nel 2008), è stato commissario straordinario per i Giochi invernali di Torino nel 2006 e nei Giochi del Mediterraneo a Pescara 2009. Basket e calcio, invece, nella carriera dirigenziale di Gianni Petrucci, attuale presidente (in scadenza) del Coni, ormai al quarto mandato consecutivo e quindi non rieleggibile. Dal 1977 al 1985 è stato segretario generale della Federazione Italiana Pallacanestro, carica che successivamente ha ricoperto anche nella Figc, per cui è stato anche commissario straordinario dell’Associazione italiana arbitri. Nel 1991 diventa per sei mesi vicepresidente esecutivo dell’As Roma, carica che abbandona per diventare presidente della Fip fino al 1999 (due mandati), quando diventa presidente del Coni per la prima volta. Da allora ad oggi è stato sempre ai vertici del Comitato olimpico nazionale (anche se nel 2000-2001 è stato contemporaneamente commissario straordinario della Figc). Attuale sindaco di San Felice a Circeo, Gianni Petrucci sta già pensando al futuro: per la successione punta molto sull’elezione di Raffaele Pagnozzi, un suo fidatissimo. E la storia continua.
ha collaborato Pierluigi Giordano Cardone

venerdì 31 agosto 2012

I preti pedofili? Vittime di bambini assatanati di sesso. By ilsimplicissimus



Non c’è davvero un limite alla vergogna, ma anche alla sua totale assenza in persone che si propongono come depositari dell’etica. Dopo il clamore per gli infiniti casi di pedofilia esplosi a ripetizione nella chiesa, ecco che finalmente un sacerdote  grida allo scandalo per questa ingiustizia. Peccato che nella sua grottesca visione delle cose le vittime siano i sacerdoti adescati da bambini e da ragazzini:  ”La gente crede che siano i preti a coltivare cattive intenzioni. Ma non è così. Nella maggior parte dei casi è il ragazzino a sedurre il sacerdote“. E aggiunge: “Storicamente le relazioni tra ragazzi e uomini maturi non erano considerati crimini, non si pensava così fino a 10 – 15  anni fa. Sono perciò incline a pensare che i sacerdoti non dovrebbero andare in prigione per questo”.
Così la pensa padre Benedict Groeschel, dell’ordine dei frati francescani del Rinnovamento,  da lui stesso fondato. Anzi non si è fatto scrupolo di dirlo  -papale papale – in un’ intervista al National Catholic Register, come riferisce l”Huffington Post (qui), Non stupirà apprendere che sia i francescani del rinnovamento, sia il Register, (rivista dei Legionari di Cristo americani)  siano su posizioni ultraconservatrici,  parti di quella galassia integralista e politicamente reazionaria che sta profondamente condizionando gli Usa. Ma sono pur sempre dentro la chiesa cattolica e il fatto stesso che certe inammissibili dichiarazioni  passino sotto silenzio, senza nemmeno una voce ufficiale di contrasto o un invito alla moderazione, dimostra ancora una volta la cattiva, anzi pessima coscienza delle gerarchie ecclesiastiche che da sempre hanno coperto  la pedofilia e imposto il silenzio con le autorità civili.
Il fatto che il Papa – protagonista in passato di un ‘occhiuta politica del segreto – si sia battuto il petto è stato interpretato come una definitiva condanna e soprattutto un’apertura della chiesa all’intervento delle autorità civili. Ma  si è trattato di un equivoco: il pentimento è stato un modo da parte della Chiesa proprio per rivendicare – in cambio  dell’autodafé – autonomia nel trattamento di questi casi, che poi così casi non sono. In un modo o in un altro, in toni ipocriti, evasivi o con le arroganti e deformi parole di Groeschel, la realtà è invece è che si pretende che i preti vengano considerati con occhio particolare, come altro rispetto alla società e rispondenti solo alle autorità religiose. Vuoi perché portano il peso della castità, vuoi in virtù della loro missione o perché sono vittime di seduzione, come nel grottesco parossismo del francescano opportunamente rinnovato. Un pentimento vero dovrebbe suggerire provvedimenti, richiami, magari una replica ufficiale. E invece un totale silenzio che fa sospettare segrete condivisioni: sedotti e abbottonati.

'Fermate i Pm, lo dice D'Alema'. - Stefania Maurizi

Massimo D Alema

Dai file di WikiLeaks emerge che la diplomazia Usa era spaventata dalle indagini dei magistrati italiani. E che in questa battaglia trovava sponde nei politici. Inclusi alcuni di centrosinistra, come l'ex ministro degli esteri.

Chiusa, inflessibile, una macchina che sforna carriere basate sul clientelismo, un potere schermato da qualsiasi forma di controllo da parte sia del governo sia degli elettori. Per gli americani, la magistratura italiana è una bestia nera. E ora che lo scontro sulla giustizia torna a farsi duro, con le telefonate tra il presidente della Repubblica, Napolitano, e l'ex presidente del Senato, Mancino, che hanno scatenato l'ennesima polemica sul tema delle intercettazioni, non è difficile immaginare da che parte sia schierata l'ambasciata di via Veneto.

A rivelare l'insofferenza degli americani sono i cablo della diplomazia Usa rilasciati da WikiLeaks. Il 3 luglio 2003, il giorno dopo il celebre attacco di Berlusconi all'eurodeputato tedesco Martin Schulz in cui venivano criticate le procure italiane, l'ambasciatore Mel Sembler scrive a Washington un rapporto riservato su quella bagarre, sparando anche lui a zero contro l'istituzione «politicizzata, corporativista, preoccupata per prima cosa e soprattutto di autopreservarsi», che «annovera anche un bacino di magistrati di sinistra che sfruttano la propria indipendenza per perseguire apertamente obiettivi politici» e che in alcuni casi «ritengono sia un loro affare (perfino un loro dovere costituzionale) guidare il corso della democrazia italiana attraverso il loro attivismo giudiziario». 

L'indipendenza delle toghe è un problema spinosissimo per gli americani: quando la magistratura va a toccare i loro interessi, non sanno come intervenire, perché non c'è un canale diretto come con la politica italiana, sempre pronta a soddisfare le loro richieste. E così quando il funzionario del Sismi, Nicola Calipari, viene ammazzato a Baghdad, e a Roma parte l'inchiesta, l'ambasciata di via Veneto consiglia un'unica soluzione radicale al Dipartimento di Stato: nessuna collaborazione con i magistrati italiani, perché «sono fieramente indipendenti e non rispondono a nessuna entità e autorità del governo, neppure al ministero della Giustizia». Mentre Berlusconi, Letta, Fini e l'ex ministro della Difesa, Antonio Martino, sono a portata di mano. E così anche con il caso Abu Omar, l'imam egiziano rapito a Milano in una delle famigerate rendition della Cia. Contro un magistrato come Armando Spataro, che chiede l'arresto e l'estradizione di ventidue agenti della Cia coinvolti nell'operazione, c'è una lunga schiera di big della politica avvicinabili e pronti a dare una mano. Come l'ex ministro leghista della Giustizia, Roberto Castelli, che si rifiuta di inviare in Usa le richieste di estradizione degli agenti Cia. O l'ex sottosegretario del primo ministro Prodi, Enrico Letta, che consiglia all'ambasciatore americano, Ronald Spogli, di «discutere la cosa personalmente con il ministro della Giustizia, Mastella». 


Il ritratto della magistratura che Spogli trasmette a Washington è impietoso - «un sistema sfasciato», forse anche «impossibile da riparare» - a tratti sfuma perfino nel maccartismo: «Negli anni '60 e '70, i comunisti italiani hanno fatto uno sforzo comune per "infiltrare" la magistratura». Ma quando il problema sono le toghe, gli Usa sanno di poter contare anche sul soccorso rosso. «Nonostante sia considerata tradizionalmente di sinistra», scrive Spogli, «Massimo D'Alema, ha raccontato all'ambasciatore che è la più grave minaccia allo Stato italiano. E che, dopo 15 anni di discussione su come riformarla, non è stato fatto alcun progresso».


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fermate-i-pm-lo-dice-dalema/2190139

Da paura!



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