sabato 14 aprile 2012

Piazza della Loggia, in appello tutti assolti i quattro imputati per la strage.



Per il tribunale di Brescia, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino non devono andare in carcere. In primo grado, il 16 novembre 2010, i 4 erano stati assolti con formula dubitativa.



E così anche questa volta giustizia non è stata fatta. Nessun colpevole per la strage di Piazza della Loggia (28 maggio 1974, otto morti e oltre cento feriti): trentotto anni dopo, la Corte d’assise d’Appello di Brescia ha assolto Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte (neofascisti di Ordine nuovo) e il generale dei carabinieri Francesco Delfino nel quarto processo per la strage.

Per sovrappiù, la beffa: le parti civili dovranno accollarsi le spese processuali del ricorso contro contro Pino Rauti, ritenuto inammissibile, per il quale la stessa accusa aveva chiesto l’assoluzione.

Non che i parenti delle vittime e i bresciani che hanno seguito con trepidazione il dibattimento in aula si fossero fatte molte illusioni. Una maledizione, o per meglio dire una congiura del silenzio, sembra colpire i processi che riguardano lo stragismo nero, variamente supportato da servizi segreti deviati e apparati dello stato infedeli. Piazza Fontana docet.

Eppure, fin dall’inizio erano state percorse le piste giuste. Nel 1975, per la bomba di Brescia vengono inquisiti i neofascisti Ermanno Buzzi e Angelino Papa, che nel 1979 saranno condannati in primo grado. Ma già 1981 le acque diventano torbide. Poco prima del processo d’Appello, Buzzi, personaggio in bilico fra criminalità comune e neofascismo, viene ammazzato nel supercarcere di Novara dai camerati Mario Tuti e Pierluigi Cocutelli: perché era un “pederasta”, si giustificano i due. Perché intendeva “cantare” nell’imminente processo di secondo grado, il movente più accreditato, come risulterebbe anche da una lettera di Buzzi medesimo.

In ogni caso, al processo d’Appello Papa viene assolto e, a sorpresa, arriva anche l’assoluzione “post mortem” di Buzzi. Fra annullamenti e nuovi appelli, le assoluzioni vengono confermate fino in Cassazione.

Non è l’unica stranezza di questa storia infinita. Nel 1975, a raccogliere la soffiata su Buzzi era stato il capitano dei carabinieri Francesco Delfino il quale, come si scoprirà molti anni dopo, conosceva benissimo Buzzi, che era un suo informatore fin dal 1973: un informatore speciale, che veniva da lui addirittura mandato a colloquio con i detenuti in carcere per carpirne informazioni. Bell’informatore. O meglio: bella coppia di informatore e servitore dello Stato.

Ma facciamo un passo indietro: da uno stralcio della prima istruttoria (“gruppo Buzzi”) era nata un’ “inchiesta bis” imperniata su Ugo Bonati, uno dei principali testimoni dell’accusa, che sosteneva d’aver assistito a tutta la vicenda, dal trasporto dell’esplosivo alla Piazza fino al deposito della bomba. La sua posizione di “testimone inconsapevole” della strage si fa presto insostenibile e viene rinviato a giudizio come componente del gruppo degli attentatori, in concorso con Buzzi e Papa, con conseguente mandato di cattura. Ma nel ’79 fugge da Brescia e da allora non è più stato rintracciato. Il 17 dicembre 1980, comunque, il giudice istruttore dispone l’assoluzione nei suoi confronti, accertando che le sue affermazioni sono false, sul ruolo degli altri imputati come sul proprio.

Altre due istruttorie si risolvono in un nulla di fatto: nel 1987 vengono assolti gli estremisti di destra Cesare Ferri Alessandro Stepanoff. Nel 1993 il giudice istruttore Gian Paolo Zorzi non riesce ad accertare le responsabilità penali di un altro gruppo di neofascisti, fra i quali Giancarlo Rognoni. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio Zorzi denuncia la protezione di esecutori e mandanti della strage a opera di servizi segreti e apparati dello Stato, evidenziando “l’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo”.

Passano 15 anni prima che vengano rinviati a giudizio, nel 2008, altri esponenti neofascisti (Pino Rauti, Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, già inquisiti per piazza Fontana) e, questa volta, anche un informatore del Sid e un rappresentante delle istituzioni: il comandante, nel frattempo diventato generale, Francesco Delfino.

L’accusa di strage nei confronti Maggi e Zorzi (quest’ultimo, residente da decenni in Giappone, è accusato di aver confezionato e procurato l’ordigno esploso in piazza della Loggia), si basa sulle veline al Sid di Padova e sulle successive dichiarazioni dell’agente Maurizio Tramonte, nome in codice Tritone, e sulle dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, ex agente Cia, armiere di Ordine Nuovo.

Nelle sue veline, l’infiltrato Tramonte-Tritone raccontava in tempo reale (1974) di riunioni svoltesi ad Abano Terme con lo scopo di creare “ … una nuova organizzazione extraparlamentare di destra che comprenderà parte degli ex militanti di Ordine Nuovo. L’organizzazione sarà strutturata in due tronconi. Uno clandestino … opererà con la denominazione Ordine Nero sul terreno dell’eversione violenta contro obiettivi che verranno scelti di volta in volta”. Una dichiarazione d’intenti che non poteva essere presa sottogamba, ma che fu invece ignorata all’epoca dei fatti e considerata ininfluente al processo del 2008, così come non rilevante fu considerata la testimonianza di Digilio, già considerato non credibile come teste nel processo di piazza Fontana e, per estensione, anche in quello di Brescia. Risultato: tutti assolti, sia pure con formula dubitativa.

Le ultime speranze erano riposte nel processo d’Appello, iniziato due mesi fa. Ma le cose sono andate male fin dall’inizio: non sono state accolte le nuove prove prodotte dall’accusa, fra le quali le dichiarazioni di un altro agente del Sid, Fulvio Felli, il quale ammetteva che la velina di Tramonte sulla riunione di Ordine nero in cui si preannunciava la strage era stata posdatata, risultando evidente che, se scritta e letta da chi di dovere prima dei fatti, la strage si sarebbe potuta prevenire.

La ridefinizione del ruolo di Delfino e dei suoi rapporti con Buzzi non sono stati presi in considerazione. E lo stesso si dica per il ritrovamento del casolare, indicato da Digilio, dove Zorzi avrebbe accompagnato il camerata Marcello Soffiati per la consegna della valigetta che conteneva l’ordigno destinato a Brescia.

È stato accettato, soltanto, un approfondimento sulle perizie balistiche: in pratica una discussione astratta su reperti che non esistono (la piazza fu lavata subito dopo l’esplosione) ingaggiata fra i periti dell’epoca, che avevano almeno annusato dal vivo l’odore dell’esplosivo, e quelli di oggi, che hanno lavorato solo sulle carte. Era tritolo, sostengono questi ultimi, no c’era anche gelignite o dinamite, dicono i vecchi, in accordo con quanto dichiarato da Digilio.

Con queste premesse, dicevamo, i parenti delle vittime che da 38 anni conducono la loro caparbia battaglia per la ricerca della verità, non si facevano illusioni. E però la delusione è stata forte. «La verità giudiziaria dal punto di vista delle singole responsabilità non l’abbiamo. Abbiamo invece ormai acquisito una verità storica sui fatti» ha dichiarato Manlio Dilani, presidente dell’Associazione vittime della strage di piazza della Loggia.

venerdì 13 aprile 2012

Ex manager si lancia sotto un treno aveva perso il lavoro da 4 mesi. Luca Serranò







E' accaduto alla stazione di Neto vicino a Sesto Fiorentino. L'uomo, abitava a Lucca, aveva lavorato per un'azienda del settore del marmo. Investito da un treno merci sulla Firenze-Prato.


Aveva perso il lavoro quattro mesi fa e da allora la sua vita era come precipitata in un pozzo. Si sentiva inutile, non se ne faceva una ragione. Chi lo conosce dice che "soffriva di depressione". Aveva provato ad avviare con un gruppo di amici una attività, ma non era andata bene. Si è ucciso lanciandosi sotto un treno merci questa mattina in una piccola stazione alla periferia di Firenze.

Stazione di Neto, a Sesto Fiorentino. Lì nessuno lo conosceva e nessuno ci ha fatto caso. Giuliano V. aveva 42 anni, abitava nella zona di Lucca, era un manager. Aveva lavorato alla Seves e poi in una azienda del settore del marmo, fino a quattro mesi fa quando ha perso il lavoro. Giuliano lascia la moglie e una figlia di 13 anni. 
Sul posto sono intervenuti polfer, vigili del fuoco e personale inviato dal 118.
L'uomo avrebbe detto a un suo vicino di casa di voler cercare lavoro all'estero. In particolare l'uomo, disoccupato dal novembre del 2011, nei giorni scorsi avrebbe manifestato l'intenzione di tornare in Francia, dove era nato e dove aveva compiuto gli studi pur essendo cittadino italiano.
Secondo quanto emerso, aveva lavorato come dirigente d'azienda per alcune società toscane, tra cui un'azienda fiorentina entrata in crisi alcuni anni fa. Nel novembre del 2011 era stato lui stesso a licenziarsi dall'ultimo impiego presso una ditta di Lucca.


Caso G8, sigilli alle proprietà di Anemone Sotto sequestro beni per 32 milioni.


Il costruttore è sotto processo a Perugia insieme all’ex provveditore ai lavori pubblici Angelo Balducci e all'ex capo della protezione civile Guido Bertolaso. Provvedimento anche per le palazzine nel comprensorio del Salaria Sport Village. Gli avvocati: "Valutazione esorbitante, faremo ricorso".

Sequestro di beni e proprietà per oltre 32 milioni di euro alla famiglia Anemone. I beni appartengono oltre che a Diego, imprenditore coinvolto nell’inchiesta Grandi Eventi, anche alla moglie Vanessa Pascucci e allo zioLuciano Anemone.

Sigilli anche le palazzine G ed H (con relative piscine) di proprietà della Società Sportiva Romana nel comprensorio del Salaria Sport Village. Il sequestro è avvenuto in esecuzione del provvedimento firmato dal gip del tribunale di Roma, Nicola Di Grazia su richiesta dei pmRoberto Felici, Ilaria Calò Sabina Calabretta, coordinati dal procuratore aggiunto Alberto Caperna.

Anemone è una della figure chiave dell’inchiesta sugli appalti del G8 alla Maddalena. Proprio sulla base delle carte trasmesse dalle procure di Firenze e Perugia e dai successivi accertamenti delle Fiamme gialle, gli inquirenti hanno ricostruito i flussi di denaro frutto dei reati di appropriazione indebita e riciclaggio. Il costruttore è sotto processo a Perugia insieme all’ex provveditore ai lavori pubblici Angelo Balducci e all’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, oltre ad altri funzionari pubblici.

Le palazzine sotto sequestro all’interno del comprensorio del Salaria Sport Village erano già finite sotto sequestro diversi mesi fa nell’ambito del procedimento sui mondiali di nuoto a Roma. I difensori degli indagati annunciano che faranno ricorso al tribunale del Riesame per chiedere il dissequestro ritenendo “esorbitante la valutazione del patrimonio fatta dagli inquirenti”.


La lettera di dimissioni di Renzo Bossi.


https://www.facebook.com/photo.php?fbid=411184732244940&set=a.135757346454348.20840.135706973126052&type=1&theater

Crisi: imprenditore agricolo suicida nel ragusano.



AGI) - Ragusa, 13 apr. - Un imprenditore agricolo in difficolta' a causa della crisi economica si e' suicidato a Donnalucata (Ragusa). L'uomo, Vincenzo Tumino, 28 anni, lascia moglie e due figli. Era titolare di impianti serricoli, ed e' qui che ha deciso di mettere fine alla sua vita, impiccandosi.
Il cadavere e' stato ritrovato dal padre, che ha avvertito i carabinieri. Secondo quanto si e' appreso, Tumino negli ultimi tempi era apparso ai familiari depresso per le incerte prospettive della sua attivita' imprenditoriale.



http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201204131652-ipp-rt10211-crisi_imprenditore_agricolo_suicida_nel_ragusano

Terremoto sanità in Lombardia: fondi neri per 56 milioni di euro.


LA SCHEDA- Che cos'è la Fondazione Maugeri 

Arrestato l’ex assessore Simone e altre cinque persone: distratti soldi dalla Fondazione Maugeri

MILANO
L’ex assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Antonio Simone (con la Dc nei primi anni ’90) e altre 5 persone sono state arrestate dalla Gdf nell’ ambito dell’inchiesta della Procura di Milano sulla Fondazione Maugeri da cui sarebbero stati distratti 56 milioni. La vicenda è una "costola" dell’inchiesta sul dissesto del S.Raffaele.

Le manette sono anche scattate ai polsi di Costantino Passerino, direttore amministrativo della stessa fondazione e di altre 3 persone compreso Pierangelo Daccò, raggiunto dall'ordinanza di custodia cautelare ma già in stato di detenzione nell'ambito dell'inchiesta sul San Raffaele. Arresti domiciliari, invece, per Roberto Maugeri, presidente dell'omonima fondazione. I reati contestati nei loro confronti sono a vario titolo quelli di associazione a delinquere aggravata dal carattere transnazionale e finalizzata al riciclaggio, appropriazioni indebite pluriaggravate, frodi fiscali ed emissioni di fatture per operazioni inesistenti. Le ordinanze di custodia cautelare sono state chieste dai pm milanesi Luigi Orsi e Laura Pedio e sono state disposte dal gip Vincenzo Tutinelli.

Sono stati proprio Orsi e Pedio, i due magistrati milanesi titolari dell'inchiesta sul dissesto finanziario del San Raffaele a scoprire - dall'analisi di documenti sequestrati a Daccò - una consistente somma di denaro (pari a 56 milioni di euro) distratta dalla fondazione Maugeri e finita, attraverso una serie di fondi neri, nelle disponibilità di Daccò e dello stesso Simone.  Umberto Maugeri, presidente dell’omonima fondazione, è formalmente irreperibile e si trova probabilmente all’estero. Le accuse per tutti sono associazione a delinquere, aggravata dal carattere transnazionale e finalizzata al riciclaggio, appropriazione indebita pluriaggravata, frode fiscale ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. I reati sarebbero stati commessi dal 2004 al 2011.

Economia: Ligresti, il capitalismo locusta






Mentre i conti della compagnia assicurativa sprofondavano, Salavatore e i figli incassavano compensi stratosferici e spostavano i gioielli del gruppo nelle proprie aziende

Lo sberleffo è arrivato lunedì 2 aprile. Proprio mentre gli azionisti della Fondiaria-Sai, un colosso delle assicurazioni con 7 milioni di clienti, si ritrovavano alle prese con un bilancio in profondo rosso e con la necessità di approvare un duro piano di salvataggio, i figli di Salvatore Ligresti hanno incassato stipendi d'oro per il loro lavoro nel gruppo. L'elenco dei loro compensi per l'anno nero di Fondiaria è il seguente: Jonella Ligresti, presidente della compagnia, ha avuto 2,5 milioni; Paolo, consigliere, 1,6 milioni; Giulia, vice-presidente, appena 837 mila euro. Il totale fa 5 milioni: l'ultima goccia in un fiume di un miliardo che, negli ultimi anni, si è riversato sulla famiglia.

Chi invocasse una riforma di un articolo 18 qualsiasi per poter cacciare i dirigenti incapaci, avrebbe però torto. Perché l'ingegner Salvatore e i tre figli, in questi anni, non si sono certo comportati da scansafatiche. Tutt'altro. Esagerando un po', si potrebbe dire che abbiano lavorato durissimamente, che non sia passata settimana o mese che non abbiano fatto qualcosa per perseguire con tenacia il loro compito: trasferire ricchezza a se stessi e alle loro società personali. A prescindere dagli effetti sul gruppo Fondiaria, di cui saranno ancora per poco gli azionisti di maggioranza relativa.

Chi ama i personaggi un po' luciferini, infatti, non può esimersi dal leggere un documento di 98 pagine che il collegio sindacale di Fondiaria, la prima linea dei controlli di una società, dopo anni spesi a mettere foglie di fico sull'operato dei dirigenti, si è ritrovato costretto a stilare per rispondere alla denuncia di un azionista, il fondo d'investimento Amber Global Opportunities.

I sindaci hanno messo in fila tutte le operazioni che hanno comportato un esborso di risorse dal gruppo Fondiaria verso i Ligresti. Ed è qui, in questa analisi ufficiale, che l'efficienza della famiglia mostra le vette che è stata in grado di raggiungere: tra consulenze plurimilionarie all'ingegnere, retribuzioni, contratti di sponsorizzazione alla scuderia ippica di Jonella, acquisti di terreni di proprietà delle loro società personali, appalti per la costruzione di alberghi, tra i quali uno di lusso - poi abbandonato quando le fatture già correvano - battezzato Gilli, il marchio di moda di Giulia, centri commerciali e maxi progetti immobiliari, dalle casse della compagnia assicurativa negli ultimi sono usciti 755 milioni di euro mentre altri 73 ne usciranno per contratti in corso (
http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2178194 ).

E non è finita. Perché nel 2008 e nel 2009, quando la crisi avrebbe imposto di mettere fieno in cascina, Fondiaria ha deciso di attingere alle riserve per distribuire lo stesso un dividendo ai propri soci. E l'indebitatissima Premafin, da tempo alle prese con le pressioni delle banche creditrici, ne ha incassata la fetta maggiore. Per finire, ci sono le perdite della società alberghiera dei Ligresti, la Atahotels, che con sprezzo del pericolo la Fondiaria ha acquistato nel 2009, quando era in profonda crisi. Da allora, scrivono i sindaci nella risposta a Amber, sono stati necessari tre aumenti di capitale per un totale di 78 milioni, e altri ne serviranno.

Alla fine del catalogo dei capolavori compiuti da Salvatore e dai figli, dunque, si può calcolare che negli anni presi in considerazione, tra pagamenti effettuati, lavori affidati, somme già contabilizzate ma ancora da versare, esborsi per tenere in vita le società di famiglia, per la Fondiaria il costo dei suoi proprietari sia stato di circa un miliardo di euro.

Se in tutto questo ci siano stati dei comportamenti illeciti, cercheranno di appurarlo i magistrati. Si sa che, nell'inchiesta condotta dalla procura di Milano, l'ottantenne ingegnere di origine siciliana, per tanti anni uno degli uomini più potenti del capitalismo italiano grazie alle quote di partecipazione che, con i soldi della Fondiaria, si era conquistato in diverse primarie aziende, è l'unico indagato. Ed è noto che i magistrati, partiti ipotizzando il reato di ostacolo agli organi di vigilanza, hanno poi vagliato una serie di altri crimini che potrebbero essere imputati, dall'aggiotaggio al falso in bilancio all'insider trading.

Anche se l'inchiesta va avanti ormai da tempo, negli ultimi giorni nei corridoi del palazzo di giustizia c'è stato un incessante viavai di persone chiamate a rispondere alle domande del pubblico ministero, Luigi Orsi, che sta tentando di circoscrivere il contesto delle varie operazioni e i diversi protagonisti. Sono passati, fra gli altri, il presidente del collegio sindacale, Benito Giovanni Marino, l'altro sindaco Mario Spadacini, Flavia Mazzarella, vice direttore dell'Isvap, l'autorità che vigila sulle assicurazioni, e numerosi ulteriori protagonisti più o meno minori della vicenda.

Tra i vari fronti dell'indagine, ce ne sono due che sono particolarmente utili per mettere in evidenza due fattori cruciali: il meccanismo perfetto dei conflitti d'interesse dei Ligresti e la loro capacità di giocare su diversi tavoli, allo scopo di ottenere vantaggi per se stessi.

Il primo fronte è quello dei quattrini investiti da Fondiaria in operazioni societarie e immobiliari della famiglia. Un esempio è proprio quello degli alberghi Atahotels. Come hanno ricostruito i sindaci, Fondiaria ha speso circa 260 milioni di euro per acquistare dalla famiglia i muri di quattro delle strutture, nel milanese alla nuova Fiera e a San Donato, a Varese, nella maremmana Bagni di Petriolo. Alla fine del 2008, però, l'allora amministratore delegato Fausto Marchionni si presenta in consiglio di amministrazione e propone di acquistare da Ligresti & Co. direttamente la società che gestisce l'ospitalità degli alberghi, appunto la Atahotels. Lo scopo? "L'integrazione verticale nel turismo", è la formula di Marchionni che convince gli amministratori senza grandi difficoltà.

Naturalmente tutte le formalità del caso vengono rispettate. La società di consulenza Kpmg Advisory non nasconde che il turismo va male e la Atahotels peggio, e che negli anni successivi si renderanno necessari ulteriori esborsi di capitale. E sui conflitti d'interesse si spende lo studio legale d'Urso Gatti e Associati che rassicura gli altri amministratori del fatto che negli accordi con i Ligresti ci sono "pattuizioni non inusuali né diverse da quelle che potrebbero essere verosimilmente e ragionevolmente negoziate tra società non correlate (ovvero non in conflitto d'interesse, ndr.) in analoghe fattispecie". Bene. Dopo qualche tiramolla, il 29 maggio 2009 il contratto viene alla fine firmato e la famiglia incassa 25 milioni di euro.
Passa poco tempo, però, e le previsioni fatte al momento dell'acquisizione si rivelano troppo ottimistiche. Con il risultati già detti: tra il 2009 e il 2011 Fondiaria deve iniettare in Atahotels 78 milioni. E altri 40 ne serviranno da qui al 2014.

Oggi che tutti ci tengono a far vedere di voler prendere le distanze dai Ligresti, il collegio sindacale conclude la risposta al fondo Amber dicendo che i periti che hanno contribuito a stabilire il prezzo degli alberghi acquistati dai Ligresti o dei canoni d'affitto "ove emergessero elementi di responsabilità", potrebbero essere oggetto di "opportune iniziative giudiziali".

Peccato che, nel baratro economico del 2011, l'intero consiglio di amministrazione ne sia uscito con compensi d'oro. Jonella, Gilia e Paolo, con i loro 5 milioni totali. Fra gli altri altri, Marchionni ha ottenuto una buonuscita di 11 milioni; il consigliere e avvocato Carlo d'Urso, quello del parere legale, ha staccato parcelle professionali per altri 1,8 milioni.

Il secondo fronte dell'indagine è quello che riguarda le quote della holding Premafin, occultate per anni ma in realtà di proprietà dei Ligresti, che la Consob è riuscita a stanare nei paradisi fiscali più lontani. Dopo mesi di studio, la stretta è partita nelle scorse settimane, quando l'autorità che vigila sui mercati ha reso noto di aver ricostruito una serie di passaggi di pacchetti azionari in vari paradisi offshore, producendo un fascicolo che è stato trasmesso all'attenzione dei magistrati. In estrema sintesi: il sospetto è che Ligresti abbia sparpagliato nei paradisi fiscali di mezzo mondo una quota superiore al 20 per cento della Premafin, facendo finta di averla ceduta ma in realtà mantenendola sempre nella sua piena disponibilità.

Perché queste acrobazie? Le possibilità sono diverse. In procura si lavora all'ipotesi che siano servite per influenzare le quotazioni del titolo. Con che scopo? Mistero. Forse l'obiettivo era gonfiare il valore borsistico di Premafin, in modo che i pacchetti azionari dati in pegno al sistema bancario valessero di più e i creditori non fossero tentati di estromettere la famiglia per rientare dei prestiti. Se fosse così, e se davvero i manager delle banche - Mediobanca e Unicredit in primis - che hanno prestato a Ligresti oltre 2 miliardi di euro si sono fatti prendere per il naso dall'anziano ingegnere, sarebbe un bel colpo. Fregati da uno che, in prima persona o attraverso i figli, sedeva nei loro consigli di amministrazione. 


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ligresti-il-capitalismo-locusta/2178200/10