domenica 5 agosto 2012

Moglie, cognata, cognato della moglie, nipote e tata della figlia: in Rai è famiglia Comanducci. - Sara Nicoli




Non solo Minzolini: nei ruoli chiave della tv pubblica, gli uomini del Cavaliere imperversano ancora. Esemplare il caso del vice direttore generale, che ha visto molti suoi parenti far carriera nell'azienda pubblica con varie qualifiche. Il numero due di viale Mazzini, su ordine di Berlusconi, fece firmare al dg una lettera che rendeva inamovibili i giornalisti fedeli all'ex premier.
Non solo Minzo. Alla vigilia della soluzione del “caso Tg1“, in Rai si fanno nuovamente i conti di quanto i costi della politica abbiano gravato, negli anni, sui bilanci dell’azienda. Minzolini – è noto – resterà in Rai nonostante il “licenziamento” dalla poltrona più alta del Tg1 perché è stato assunto con la qualifica di caporedattore con funzioni di direttore, dunque non può essere allontanato dall’azienda come lo sarebbe stato se avesse avuto, invece, il contratto da direttore e basta. La Rai, quindi, si terrà Minzolini fino alla pensione, a 550 mila euro l’anno più benefit.
Ma il “direttorissimo”, come lo ha sempre chiamato il Cavaliere, in fondo è solo la punta dell’iceberg. Sono anni che i berlusconiani in Rai gravano in modo pesantissimo sui bilanci aziendali. Ce n’è uno che vale più di cento, in particolare, ed è ormai prossimo alla pensione, ma con speranze di rientrare direttamente al settimo piano di viale Mazzini come consigliere del prossimo cda. E’ Gianfranco Comanducci, vice direttore generale per gli acquisti e lo sviluppo commerciale, uomo di Previti in Rai, che nel corso degli anni non solo ha “blindato” contrattualmente ed economicamente i “famigli” del Cavaliere in azienda, ma ha anche provveduto mettere al sicuro se stesso e i suoi affetti più cari, dalla moglie fino alla tata della figlia.
Ebbene, Comanducci (assunto in Rai come annunciatore, più volte sull’orlo del licenziamento per il modo disinvolto con cui ha sempre svolto il suo mestiere fin dagli esordi) ha scalato i vertici Rai solo per meriti politici. Il momento più alto del suo “mandato” è stato durante l’era della direzione generale di Flavio Cattaneo (2003 al 2006) quando, come direttore Risorse Umane, mise a posto un sacco di posizioni di amici. E anche familiari.
Stiamo parlando di una vera “dinasty” Rai che si è dipanata nel corso degli anni, sotto gli occhi di tutti ma senza che nessuno in Rai gridasse allo scandalo. Ora, però, visti i conti sempre più magri dell’azienda, pare che il clima intorno a questi potentati stia cambiando. Comanducci, dunque. Si parte dalla moglie, Anna Maria Callini, nominata dirigente in azienda nonostante il parere contrario dell’allora direttore generale Claudio Cappon. Si passa per la cognata (sorella della moglie, Ida Callini), promossa funzionario proprio dell’uffico Risorse Umane, da pochi mesi in pensione, e per il cognato della moglie (Claudio Callini) assunto come tecnico e poi passato in un batter d’occhio a cineoperatore giornalista a tutti gli effetti; un salto di retribuzione di oltre il 40 per cento. E si arriva alla nipote (figlia della sorella), che per superare una regola Rai che blocca l’assunzione ai figli dei dipendenti, è stata presa nella consociata per la pubblicità Sipra. Dove – e qui si tocca veramente il punto più alto – c’è stata una new entry davvero fenomenale: alla direzione Sipra è stata presa anche una signora di buone speranze (Barbara Palmieri). Che non aveva particolari qualità se non quella di essere stata la “tata” della figlia.
Comanducci, insomma, è un vicedirettore generale Rai che negli anni ha saputo ottimizzare nel modo “migliore” il proprio potere di fonte politica in azienda. Padrone indiscusso anche del “Circolo sportivo dei dipendenti Rai”, un gioiello sul Tevere, che ha trasformato in un luogo quasi esclusivo. Poco prima che Cattaneo lasciasse la Rai, Comanducci provvide a blindare (economicamente) le posizioni di alcuni degli uomini i cui nomi sarebbero poi finiti in un’indagine della magistratura di Milano sul crac Hdc.
Si tratta del gruppo di persone poi ribattezzati dalla stampa “struttura Delta”, che è stata smantellata, ma solo in apparenza. Ebbene, nel 2005 Flavio Cattaneo lasciò viale Mazzini per diventare amministratore delegato di Terna, poco prima della vittoria di Prodi alle elezioni del 2006. Ad un passo dall’uscio della direzione generale Rai, Comanducci fece firmare a Cattaneo una serie di lettere indirizzate a Clemente Mimun, allora direttore del Tg1, Fabrizio Del Noce, Deborah Bergamini, Francesco Pionati e Carlo Nardello. Nelle lettere c’era scritto che, in caso di “cambio di ruolo” all’interno dell’azienda (un passaggio di direzione o altro, per intendersi), quest’ultima avrebbe dovuto pagare a ciascuno di loro, a titolo “di indennizzo”, ben 36 mensilità, tre anni di stipendio. Cifre, ovviamente, molto alte considerati i livelli di stipendio dei dirigenti in questione, che avrebbero reso – questa era l’obiettivo di Comanducci su ordine di Berlusconi – inamovibili gli “uomini Delta” all’interno di strutture chiave come, appunto, il Tg1 oppure la fiction (Del Noce) o il marketing strategico (Bergamini). Con le elezioni, Pionati e Bergamini sono finiti in Parlamento, Del Noce è ancora alla fiction, Nardello è stato nominato solo pochi giorni fa allo Sviluppo Strategico ed è il dirigente più pagato della Rai (la Corte dei Conti ha minacciato di comminare multe all’azienda se non fosse stato ricollocato dopo la chiusura di Raitrade, dove era amministratore delegato). Quanto a Clemente Mimun, prima di lasciare la Rai per Mediaset, il direttore del Tg5 fece valere la lettera firmata da Cattaneo, ma il nuovo direttore generale Cappon si rifiutò di riconoscerla, tanto che è ancora in corso un contenzionso tra Rai e Mimun dove “ballano” più di due milioni di euro.
Tirando le somme, la Rai negli anni ha fatto fronte ad esborsi economici pazzeschi per coprire veri e propri “mandarinati” di stretta osservanza politica, ma soprattutto per pagare dirigenti che mai, neanche per caso, hanno perseguito il bene aziendale ma solo ed esclusivamente il proprio tornaconto personale e del proprio dante causa nel Palazzo. Minzolini, quindi, è solo l’ultimo di una lunga serie. Ma anche lui, come gli altri, resterà in Rai fino alla pensione. A meno non sia la Rai, stavolta, a chiudere i battenti prima di quel tempo.
articolo modificato da redazioneweb alle ore 20
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA PRECISAZIONE DI DEBORAH BERGAMINI
Gentile Direttore,
l’articolo a firma di Sara Nicoli, pubblicato oggi sul sito del Fatto Quotidiano Online, contiene alcune falsità che mi chiamano in causa. La prego pertanto di ospitare queste mie righe affinchè mi sia consentito tornare ancora una volta su questioni relative al mio trascorso rapporto lavorativo con la Rai. Vorrei precisare quanto segue:
1) Non ho mai ricevuto alcuna lettera da parte dell’allora Direttore Generale della Rai Flavio Cattaneo destinata a “blindare (economicamente)” la mia posizione dirigenziale in Rai;
2) Non sono mai stata al centro di alcuna indagine della magistratura di Napoli in cui è stato coinvolto Agostino Saccà;
3) Non è mai esistita alcuna Struttura Delta, che, come per moltissime altre cose, è parto esclusivo della fantasia “investigativa” di uno specifico quotidiano.
Secondo me dovreste verificare le cose che scrivete, lo dico per la qualità della vostra copiosa produzione editoriale. Magari, se vi serve qualche informazione, chiamatemi senza problemi.
Cordiali saluti,
Deborah Bergamini
La replica di Sara Nicoli
Gentile onorevole Bergamini, prendiamo atto volentieri del fatto che lei non ha ricevuto, come altri berlusconiani in Rai, alcuna lettera dal direttore Cattaneo. Probabilmente perché lei è stata la prima della cosiddetta “struttura Delta” (il copyright non è come lei ricorda del Fatto Quotidiano) a lasciare la Rai in seguito allo scandalo intercettazioni Hdc scoppiato nel novembre 2007 – i fatti risalivano al 2005. Il 30 novembre del 2007 infatti la Rai, in attesa di chiarimenti, decise di sospenderla dalla Direzione del Marketing Strategico. Una sospensione contestata, con tanto di minaccia di causa contro, la Rai che si è poi risolta con un divorzio consensuale, sulla base di un accordo di cui si ignorano i contenuti economici . Il nome “struttura Delta”, come lei ricorda, è poi stato per la prima volta utilizzato da Repubblica e poi ripreso da quasi tutti i quotidiani per indicare una sorta di team che all’interno della Rai agiva a volte accordandosi con la concorrenza
Sara Nicoli
La controreplica di Deborah Bergamini
Gentile signora Nicoli,
mi rendo conto che quando, magari per la fretta, si scrivono cose false e non si vuole ammetterlo né tantomeno scusarsi, diventa impervio il cammino per mantenere il punto ed essere allo stesso tempo congruenti. Lei dice che probabilmente non ho ricevuto, come altri, una presunta lettera di Cattaneo nel 2005 perché ho lasciato la Rai dopo lo scandalo intercettazioni avvenuto a fine 2007. Va bene che la posta interna di Viale Mazzini è un pò lenta, ma non le pare di esagerare? E’ ovvia la sua intenzione di richiamare una vicenda che nulla ha a che fare con quella in oggetto, in modo da generare confusione in più. Dopodichè, lei richiama molto correttamente la conclusione del mio rapporto professionale con la Rai, compreso l’accordo di cui si ignorano i contenuti economici, come è giusto che sia (e meglio così perché temo che rimarreste molto molto delusi). Infine preciso che non ho mai attribuito il copyright del nome Struttura Delta al Fatto, ho solo citato “uno specifico quotidiano”, e mi riferivo ovviamente a Repubblica. Legga meglio.
Cordiali saluti, Deborah Bergamini

sabato 4 agosto 2012

Vitalizi....



Queste sono le pensioni (o i vitalizi) che percepiscono i parlamentari.
Ma quali lavoratori, quali comuni mortali, dopo 26 anni di contributi, si mettono in tasca quasi 10.000 euro di pensione (o di vitalizio) al mese?
P.S.: intanto noi, per colpa di questa consorteria di privilegiati (e di una giudice che è arrivata a stuprare la legge, pur di salvare questa consorteria di privilegiati), la pensione ce la sogniamo.



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"Pussy Riot", la punk band che spacca in due la Russia. - Mark Franchetti*



Oggi inizia il processo contro le tre ragazze che dal palco attaccarono il presidente Putin.

MOSCA
In un tribunale di Mosca comincia oggi uno dei più attesi processi degli ultimi tempi. Pochi casi legali hanno tanto diviso la società russa e allo stesso tempo rivelato così tanto sullo stato del Paese.

Sul banco degli imputati ci sono tre giovani donne, Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova ed Ekaterina Samutsevitch. Fanno parte di Pussy Riot, una punk band d’opposizione tutta al femminile che fino all’anno scorso era praticamente sconosciuta, ma ora è diventata il gruppo musicale più famoso della Russia.

Le tre giovani donne, due delle quali sono madri di bambini piccoli, sono in prigione da cinque mesi. Sono state arrestate dopo che le Pussy Riot hanno messo in scena una performance molto controversa all’interno della cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande chiesa ortodossa della Russia, dove il presidente russo Vladimir Putin assiste alle messe di Natale e di Pasqua. Un filmato dell’evento mostra quattro componenti della band, volti coperti da passamontagna a colori vivaci, che ballano e cantano presso l’altare della chiesa mentre gli addetti della chiesa e della sicurezza, choccati, cercano di fermarle.

La «preghiera punk» della band era diretta contro Putin e gli stretti legami politici della Chiesa ortodossa con il Cremlino. «Il capo del Kgb», un riferimento alla carriera di Putin nella polizia segreta sovietica, «è il loro santo capo, conduce i manifestanti in carcere in convoglio», recita uno dei testi cantati dalla band. «O Madre di Dio», canta il coro delle ragazze in un appello alla Vergine Maria, «sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin». Le tre ragazze sono imputate per atti di teppismo. Se condannate, un verdetto atteso da molti, rischiano fino a sette anni di carcere, anche se la maggior parte degli esperti legali concorda sul fatto che non abbiano violato alcuna legge. Ma tutte le richieste per il loro rilascio su cauzione sono state respinte.

Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino. Ha anche diviso l’opinione pubblica: da una parte le richieste di clemenza, dall’altra di severe punizioni. Molti fedeli, pur condannando la prodezza davanti all’altare, ritengono che le tre donne dovrebbero essere liberate. Altri, come il Patriarca Kyrill, il capo della Chiesa che, prima delle elezioni presidenziali aveva definito i 12 anni al potere di Putin come «un miracolo divino», hanno dimostrato poca pietà. Kyrill ha etichettato la prodezza delle Pussy Riot come un sacrilegio e severamente criticato i fedeli che hanno invocato il perdono. «Il mio cuore si spezza per l’amarezza pensando che tra queste persone c’è chi si definisce ortodosso», ha detto il Patriarca.

Il Cremlino sembra determinato a fare delle ragazze un caso esemplare. Gli appelli di alcune tra le celebrità più famose della Russia, inclusi alcuni sostenitori di Putin, finora sono caduti nel vuoto. Nessun altro caso ha polarizzato così duramente l’opinione pubblica russa, come quello delle Pussy Riot. C’è chi pensa che dovrebbero bruciare all’inferno e chi le vede come vittime di uno stato repressivo. Sconosciute pesino in patria fino pochi mesi fa, grazie al processo le Pussy Riot ora stanno diventando famose anche in America. In vista del processo di oggi una campagna d’alto profilo per liberarle sta ottenendo il sostegno di alcune delle più famose popstar del mondo. La settimana scorsa Sting, alla vigilia di due concerti in Russia, ha dato il suo sostegno alla condanna di Amnesty International per la detenzione delle ragazze: «È spaventoso, le musiciste di Pussy Riot rischiano pene detentive fino a sette anni di carcere. Il dissenso è un diritto legittimo e fondamentale in ogni democrazia e i politici moderni devono accettarlo e tollerarlo. Il senso delle proporzioni - e dell’umorismo - è indice di forza, non un segno di debolezza. Spero che le autorità russe lasceranno completamente cadere queste false accuse e permetteranno alle donne, a queste artiste, di tornare alla loro vita e ai loro figli». All’inizio del mese i Red Hot Chili Peppers hanno tenuto un concerto in Russia indossando T-shirt che chiedevano la libertà per le Pussy Riot. Anche la band britannica Franz Ferdinand ha espresso sostegno per la band punk di protesta, i cui membri salgono sempre sul palco con passamontagna colorati.

Gli avvocati delle tre ragazze - che respingono le accuse - vogliono chiedere aiuto a Madonna, che il mese prossimo terrà due concerti in Russia. «Lei potrebbe attirare l’attenzione di persone molto potenti a livello internazionale che potrebbero sollevare la questione con le autorità russe», ha dichiarato Mark Feigin, uno degli avvocati delle Pussy Riot. L’icona del pop americano non si è mai tirata indietro nelle critiche alle autorità russe, promettendo in anticipo di denunciare una legge anti-gay a rischio di arresto durante il suo prossimo concerto a San Pietroburgo.

Feigin dice che Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers aveva già discusso il caso con Madonna, e ha anche scritto a Bono degli U2 sulla sorte delle ragazze. «Quello che hanno fatto le ragazze è stato stupido e provocatorio», ha detto uno dei fan delle Pussy Riot. «Ma la reazione dello Stato è incredibile. A giudicare dal modo draconiano in cui sono trattate si potrebbe pensare che il Cremlino ha un intero reparto che funziona giorno e notte per trovare il modo di sporcare l’immagine della Russia. Se volete capire quanto male stanno andando le cose in Russia guardate questo processo».

*Corrisponente da Mosca per il Sunday Times di Londra
Traduzione di Carla Reschia

Ritratto di una famiglia borghese “a disposizione ” della ‘ndrangheta. - Davide Milosa


reggio_calabria interna

Le parole del pentito Roberto Moio tratteggiano i rapporti dei fratelli Giglio, assieme al cugino magistrato, con i De Stefano-Tegano uno delle cosche più potenti. Ne emerge una fotografia inedita di quella zona grigia che sempre di più rappresenta il vero terreno di conquista della mafia.


Ritratto di una famiglia “a disposizione” della ‘ndrangheta. Gente di Reggio Calabria. Professionisti di quella buona borghesia che sempre di più si presta a far da sponda agli uomini delle cosche. Per gestire affari e per tirare volate a politici amici.
La famiglia Giglio da Reggio Calabria interpreta alla perfezione il ruolo. Almeno seguendo il racconto del penito Roberto Moio. Il verbale del 9 novembre 2010 è messo agli atti dell’inchiesta Assenzio che solo pochi giorni fa ha sollevato il velo sull’ennesima connivenza tra colletti bianchi e ‘ndrangheta. Al centro c’è la bancarotta della Vally calabria srl, società che per anni è stata leader nel settore della grande distribuzione. Poi la bancarotta, quindi l’ingresso di nuovi soci che hanno agevolato l’infiltrazione e gli interessi della cosca De Stefano. Tra gli indagati per la (sola) bancarotta c’è anche l’avvocato Mario Giglio. Un cognome, il suo, noto alle cronache reggine, ma anche a quelle milanesi. Suo fratello Vincenzo, infatti, assieme al cugino è coinvolto nell’inchiesta coordinata dal procuratore Ilda Boccassini sugli interessi della cosca Valle-Lampada.
Professionisti si diceva. E infatti. Mario Giglio è avvocato. Suo fratello è medico-chirurgo. Mentre il cugino che si chiama sempre Vincenzo Giglio di mestiere, addirittura, fa il giudice e sarà per il suo ruolo che i magistrati lo accusano di aver favorito la ‘ndrangheta, traghettando verso gli uomini dei clan notizie riservate su indagini in corso.
A Milano il medico è accusato di concorso esterno, mentre il magistrato se la dovrà vedere con un’accusa di corruzione aggravata dal metodo mafioso.
La trama è complessa. Le parole di Roberto Moio, oggi pentito, ma un tempo uomo di fiducia di un padrino di rispetto come Giovanni Tegano, aiutano a districare la matassa, lasciando sul tavolo un dato incontrovertibile: oggi la ‘ndrangheta (a Reggio Calabria come a Milano) può contare su famiglie “a disposizione”. I Giglio dunque. “Una famiglia – dice Moio- che ha fatto politica”. Alt un attimo. Conferme? Molte a scorrere l’informativa dell’inchiesta Meta (anno 2010) sui rapporti tra mafia e politica. Si legge di come buona parte degli appalti pubblici del comune di Reggio “venivano affidati alla ditta Minghetti, poiché appoggiata, in ambito comunale, dai fratelli Giglio”.
Riprendiamo. Roberto Moio: “I Giglio? Sono professionisti (…) e parecchie volte si sono portati alle elezioni”. Spiegazione: “Loro hanno avuto sempre una parte politica e di grosse conoscenze, come nostro aiuto”. Il giudice dunque scioglie la sintassi e chiede. “E’ una famiglia quindi da tramite tra le famiglie De Stefano – Tegano e soggetti politici?”. Moio conferma e aggiunge di conoscerli beni e di aver ricevuto da loro richieste di voti “per loro e per altre persone”. In cambio i De Stefano-Tegano facevano affidamento sui loro favori.
Mafia, politica e sanità. Inutile girarci attorno. Il copione è questo. Mario Giglio, ad esempio, vanta, nel suo curriculum, un ruolo di capo-struttura nello staff del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. “Salvo passare – annotano i magistrati – subito dopo l’omicidio (di Fortugno il 16 ottobre 2005) a stringere accordi con l’acerrimo nemico elettorale di Fortugno, Domenico Crea, successivamente arrestato e poi condannato all’esito del primo grado di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa”. Nome dell’inchiesta: Onorata sanità.
E di interessi sulla sanità, si alimenta l’inchiesta milanese a carico dei Lampada. Sì perché, sostengono i pm, il giudice Giglio per dare seguito alle richieste su informazioni riservate, chiede un ruolo importante per la moglie Alessandra Sarlo. La signora, infatti, sarà promossa alla direzione dell’Asl di Vibo Valentia. Uno spostamento finito sotto la lente dei magistrati di Catanzaro che hanno iscritto sul registro degli indagati (accusa di abuso d’ufficio) il governatore Giuseppe Scopelliti e un suo assessore
Nella famiglia Giglio, dunque, la politica è di casa. E così anche Vincenzo, il medico, oltre a intrattenere inquietanti rapporti con i servizi segreti, tenta la scalata elettorale e per farlo si appoggia a Giulio Giuseppe Lampada, mente finanziaria, sostengono i pm milanesi, della cosca Condello. Lampada sta a Milano e sotto la Madonnina Vincenzo Giglio ci viene spesso e volentieri. Obiettivo: consolidare i rapporti con i Lampada. Il motivo lo si scopre nel febbraio 2008 (a pochi mesi dalle elezioni politiche). Il medico Giglio, infatti, sogna una candidatura nel movimento politico (oggi sciolto) de La Rosa Bianca fondata da Bruno Tabacci e Mario Baccini, all’epoca fuoriusciti dall’Udc di Casini. Per questo lo stesso Lampada in quel periodo apparecchia incontri con politici di rilievo anche governativo. E se Giglio sogna, Lampada ci spera e al telefona confida: “Rifletti un attimo ma se per puro caso questi signori calcolano che devono prendere un quattro e questo terzo polo prende il dieci Enzo Giglio diventa deputato a Roma”. In cambio i due fratelli Giglio, nel giugno 2009, si daranno da fare per supportare la candidature a consigliere comunale nel comune di Cologno Monzese di Leonardo Valle.
Ma naturalmente l’appoggio politico ha un prezzo. Spiega Roberto Moio: “La famiglia Giglio è a disposizione dei Tegano De Stefano”. Ribadisce: “Con noi comunque sono state sempre delle persone a disposizione”. Insomma gente vicina alla ‘ndrangheta. “E del resto non l’hanno mai toccati a loro, bruciato macchine, messo bombe, mai!”. Perché i Giglio “erano gente sempre di un certo rispetto. E credo pure, anzi, ne sono convinto, c’era un’amicizia particolare pure con i De Stefano”.
Insomma, per la prima volta dalle carte giudiziarie emerge netto, chiaro e inquietante il ritratto (con ruoli, oneri e onori) di una famiglia della buona borghesia a disposizione di una delle più potenti cosche della ‘ndrangheta.
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Più veloce animali sulla Terra in slow motion - Camera Animal - BBC.




Jessica Rossi quinto oro per l'Italia.




(AGI) - Londra, 4 ago. - L'azzurra Jessica Rossi regala un altro oro all'Italia alle Olimpiadi di Londra: quello del tiro a volo, specialita' trap (o fossa olimpica). L'azzurra, appena 20 anni, originaria di Crevalcore, si e' rivelata un cecchino infallibile, lasciandosi dietro le altre cinque finaliste: 99 colpi centrati su 100. L'italiana ha anche realizzato il nuovo primato di colpi a segno in una finale olimpica (il precedente era fermo a 91).


http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201208041926-ipp-rt10161-i_miei_99_centri_per_l_emilia_jessica_rossi_quinto_oro_italia

La supercazzola presidenziale. - Marco Travaglio.


Ora che il Quirinale (o l’Avvocatura dello Stato) le ha notificato in edicola, sulle pagine di Repubblica, le accuse di cui deve rispondere dinanzi alla Consulta, la Procura di Palermo può finalmente difendersi. Sempreché trovi un avvocato disposto a difenderla, mettendosi contro la Presidenza della Repubblica, il 90% del Parlamento e il 95% dei media.
In teoria il ricorso di Napolitano per il conflitto di attribuzioni è segretissimo: il portavoce della Corte ci ha informati di non poterlo diffondere nemmeno ai pm di Palermo fino al 19 settembre, quando si deciderà sull’ammissibilità. Evidentemente una delle altre due istituzioni depositarie del sacro incunabolo – Colle o Avvocatura – l’ha passato sottobanco al quotidiano di Scalfari, che l’ha giustamente pubblicato. Ora ci vorrebbe un monito del Quirinale o di Scalfari contro le fughe di notizie, il circuito mediatico-giudiziario, le violazioni del riserbo ecc., ma non arriverà visto che stavolta chi dovrebbe denunciare le distorsioni ne è l’autore. Meglio così: almeno conosciamo subito gli “elementi oggettivi di prova del non corretto uso del potere giurisdizionale”, cioè quali norme avrebbe violato la Procura di Palermo intercettando Mancino mentre parla col Presidente e non ingoiando subito il nastro. La risposta, a leggere le supercazzole pseudogiuridiche dell’Avvocatura pagata con i soldi di tutti, è disarmante: nessuna norma prevede ciò che Napolitano pretende. Quelle citate, infatti, c’entrano come i cavoli a merenda. 
L’art. 271 Cpp impone la distruzione di intercettazioni illegittime (e solo se non sono corpo di reato) o che coinvolgano un avvocato difensore o un prete confessore: qui sono legittime e non risulta che Napolitano sia avvocato o prete. 
L’art. 90 della Costituzione, con buona pace dell’Avvocatura e dei giuristi alla Pellegrino, non sancisce l’“immunità sostanziale e permanente del capo dello Stato”, ma solo l’irresponsabilità per gli atti compiuti “nell’esercizio delle sue funzioni” (per quelli fuori, è imputabile e intercettabile anche direttamente): e qui nessuno lo ritiene responsabile di nulla, tant’è che l’intercettato è Mancino. 
Non è la prima volta che l’Avvocatura si copre di ridicolo per difendere i torti del potere. Nel 2007, chiamata a sostenere il governo B. alla Corte di Lussemburgo contro Europa7, copiò intere pagine della memoria Mediaset che magnificava la legge Gasparri: la Corte, naturalmente, le diede torto. Nel 2009, sempre per spalleggiare B., sostenne la costituzionalità del lodo Alfano perché, se condannato al processo Mills, B. avrebbe dovuto dimettersi, ergo era doveroso lasciare al governo un sospetto corruttore: la Consulta spazzò via anche quelle scemenze. Ora, siccome non c’è il due senza il tre, l’Avvocatura ci riprova per difendere le sragioni del Quirinale. I delitti dei pm sarebbero tre.
1) “Aver quantomeno registrato le intercettazioni in cui era indirettamente e casualmente coinvolto il presidente” (una barzelletta, visto che non sono i pm a registrare, ma le apparecchiature d’ascolto sulle utenze di Mancino, legittimamente attivate non dai pm, ma dal gip). 
2) “Averle messe agli atti del processo” (balle: le hanno stralciate e segretate in quanto irrilevanti, in vista della loro distruzione, salvo parere contrario degli avvocati). 
3) “Ipotizzare di svolgere l’udienza stralcio per ottenerne l’acquisizione o la distruzione” (proprio come dice l’art. 269 Cpp, in omaggio al principio costituzionale del contraddittorio fra le parti). 
Per l’angolo del buonumore, sentite quest’altra: “Le conversazioni cui partecipa il Presidente sono da considerarsi assolutamente vietate” (forse l’Avvocatura voleva dire “le intercettazioni”: se fossero vietate le conversazioni, dovrebbe prendersela col Presidente che conversa, non con chi lo ascolta). Ma, quando c’è di mezzo il nuovo Re Sole, il diritto diventa elastico come la pelle di certe parti del corpo: a volte si allunga, a volte si ritira.