Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 19 febbraio 2013
Legge anticorruzione, Piercamillo Davigo: “L’elenco di ciò che manca è infinito”. - Beatrice Borromeo
Altro che brodino, come il Financial Times ha definito la legge anticorruzione. Per Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione, “se uno è rigoroso, fa le cose diversamente”. A partire da un certo regalino che il magistrato di Mani Pulite proprio non si spiega.
Dottor Davigo, cosa la stupisce di più di questa legge?
Direi il fatto che hanno dimezzato le pene previste nel caso di concussione per induzione. Perché l’hanno fatto?
Direi il fatto che hanno dimezzato le pene previste nel caso di concussione per induzione. Perché l’hanno fatto?
L’Ocse chiedeva da tempo all’Italia di punire il privato che paga il pubblico ufficiale, cioè il concussore, e questa legge lo prevede. Non basta?
No, perché così si aggira soltanto l’obbligo di punire chi dà denaro al funzionario pubblico, traendone vantaggi. Il concusso (concussore, ndr) alla fine la fa franca. Viene punito, ma la pena è ridotta. E le norme favorevoli sono retroattive. Con il risultato che molti processi in Cassazione verranno annullati.
No, perché così si aggira soltanto l’obbligo di punire chi dà denaro al funzionario pubblico, traendone vantaggi. Il concusso (concussore, ndr) alla fine la fa franca. Viene punito, ma la pena è ridotta. E le norme favorevoli sono retroattive. Con il risultato che molti processi in Cassazione verranno annullati.
Meglio eliminare la retroattività?No, meglio non ridurre le pene!
Quanto ci manca per essere conformi alle richieste dell’Europa?
Non so cosa fosse ottenibile, ma di certo l’Italia è ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Se solo ci fosse la volontà, basterebbe procedere in modo molto più semplice, copiando le convenzioni internazionali. Così saremmo conformi di sicuro.
Non so cosa fosse ottenibile, ma di certo l’Italia è ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Se solo ci fosse la volontà, basterebbe procedere in modo molto più semplice, copiando le convenzioni internazionali. Così saremmo conformi di sicuro.
Cosa cambia per quanto riguarda il traffico di influenze, cioè quando i potenti si mettono d’accordo per darsi un aiuto (illecito) reciproco?
In questo caso il vero problema è che la pena edittale prevista per questo reato (cioè la reclusione a tre anni) non consente le intercettazioni telefoniche. Ma come pensano di scovare questi reati? Li scopriremo solo se ce li verranno a raccontare.
In questo caso il vero problema è che la pena edittale prevista per questo reato (cioè la reclusione a tre anni) non consente le intercettazioni telefoniche. Ma come pensano di scovare questi reati? Li scopriremo solo se ce li verranno a raccontare.
Almeno, però, hanno aumentato i termini per la prescrizione da 7 anni e mezzo a 11 per i reati di corruzione, concussione per induzione e traffico di influenze. Basterà per terminare in tempo i processi?
C’è un equivoco di fondo. Non sono i termini di prescrizione a essere necessariamente troppo brevi, il problema è che in Italia la prescrizione comincia a decorrere non dalla scoperta del reato, ma da quando il reato è stato commesso. E di solito non si becca il criminale in flagrante. E’ ridicolo: in altri paesi, una volta che il processo comincia, i termini per la prescrizione non decorrono più. Poi c’è un’altra questione.
C’è un equivoco di fondo. Non sono i termini di prescrizione a essere necessariamente troppo brevi, il problema è che in Italia la prescrizione comincia a decorrere non dalla scoperta del reato, ma da quando il reato è stato commesso. E di solito non si becca il criminale in flagrante. E’ ridicolo: in altri paesi, una volta che il processo comincia, i termini per la prescrizione non decorrono più. Poi c’è un’altra questione.
Quale?
Da noi ci sono 35 mila fattispecie di reati penali, e invece di ridurle, questa legge le ha ulteriormente aumentate. Rendiamoci conto che anche se abolissimo il 90 per cento dei reati, ne resterebbero ancora migliaia.
Da noi ci sono 35 mila fattispecie di reati penali, e invece di ridurle, questa legge le ha ulteriormente aumentate. Rendiamoci conto che anche se abolissimo il 90 per cento dei reati, ne resterebbero ancora migliaia.
Forse però andrebbe introdotto il reato di autoriciclaggio. Oggi quelli che, ricevute le mazzette, usano i soldi per acquisti e investimenti, non vengono puniti.
Il ministro Severino ha detto che non voleva ritardare i tempi del disegno di legge, che se ne occuperà a parte. Forse ha ragione. Però noto che l’autoriciclaggio è stato inserito nella lista dei reati persino in Vaticano…
Il ministro Severino ha detto che non voleva ritardare i tempi del disegno di legge, che se ne occuperà a parte. Forse ha ragione. Però noto che l’autoriciclaggio è stato inserito nella lista dei reati persino in Vaticano…
Hanno anche evitato di reintrodurre il falso in bilancio, cancellato dal governo Berlusconi.
Lasciamo stare, l’elenco di quello che manca è infinito.
Lasciamo stare, l’elenco di quello che manca è infinito.
Cosa pensa invece dell’incandidabilità? I condannati in via definitiva a pene superiori ai 2 anni dovranno mollare la poltrona.
Già. Peccato che oltre il 90 per cento delle condanne, anche quelle per concussione, tra rito abbreviato e attenuanti generiche vanno pesantemente sotto i due anni. E poi basta che uno patteggi per evitare la condanna. E quindi l’incandidabilità.
Già. Peccato che oltre il 90 per cento delle condanne, anche quelle per concussione, tra rito abbreviato e attenuanti generiche vanno pesantemente sotto i due anni. E poi basta che uno patteggi per evitare la condanna. E quindi l’incandidabilità.
Twitter: @BorromeoBea
da Il Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2012
Nell’intervista a Piercamillo Davigo è stato scritto “il concusso alla fine la fa franca ” invece che il concussore. Ce ne scusiamo con i lettori
Il Fatto Quotidiano 00193 Roma, via Valadier n. 42 lettere @ ilfattoquotidiano. it
Il Fatto Quotidiano 00193 Roma, via Valadier n. 42 lettere @ ilfattoquotidiano. it
Aggiornato da Redazione web il 20/10/2012 alle ore 11.30
Alitalia, Cimoli e altri ex manager rinviati a giudizio per il crac del 2008.
Inizierà il 18 maggio il processo per il crac di Alitalia avvenuto nel 2008. Gli ex amministratori delegati Giancarlo Cimoli e Francesco Mengozzi sono stati rinviati a giudizio insieme ad altri 5 ex manager della compagnia di bandiera. Dopo la Corte dei Conti Lo ha deciso il Gup del Tribunale di Roma,Vilma Passamonti, dopo che la settimana scorsa l’udienza era stata rinviata. Il giudice, che contesta ai sette la responsabilità del crac, ha anche chiesto di accertare il ruolo svolto dai governi che si sono succeduti nel fallimento che ha riguardato l’azienda sollecitando all’ufficio del pubblico ministero l’accertamento di una eventuale omessa vigilanza compiuta dal collegio dei sindaci della compagnia. Già lo scorso 20 gennaio la Corte dei Conti ha chiesto un maxi-risarcimento da 3 miliardi di euro a 17 ex funzionari di Alitalia, tra cui Cimoli e Mengozzi.
Agli imputati il procuratore aggiunto Nello Rossi e i sostituti Stefano Pesci e Maria Francesca Loy, contestano, a seconda delle posizioni, i reati di bancarotta sia per distrazione sia per dissipazione, per il periodo compreso tra il 2001 e il 2007. Francesco Mengozzi ha ricoperto la carica di amministratore delegato di Alitalia dal febbraio del 2001 al febbraio del 2004, mentre Giancarlo Cimoli dal maggio 2004 al febbraio del 2007. A processo anche Gabriele Spazzadeschi, ex direttore del dipartimento amministrazione e finanza, Pierluigi Ceschia, ex responsabile del settore finanza straordinaria, Giancarlo Zeni e Leopoldo Conforti, ex funzionari, e Gennaro Tocci, ex responsabile settore acquisti. Secondo l’accusa si sarebbe trattato di una “dissipazione” della compagnia di bandiera con “operazioni abnormi sotto il profilo economico e gestionale” che avrebbero causato perdite per oltre 4 miliardi di euro fino al 2007. Cimoli deve inoltre rispondere dell’ipotesi di reato di aggiotaggio per la diffusione di presunte notizie false al fine di ottenere variazioni del titolo Alitalia sui mercati.
Cimoli è noto anche per le sue ingenti buonuscite. Quella che si è autoattribuito per Alitalia da 3 milioni di euro ha suscitato non poco clamore visto che l’ammontare è molto più alto rispetto agli stipendi dei funzionari di altre compagnie aeree europee in utile: corrisponde al triplo di quello che guadagna il capo di British Airways e a 6 volte quello di Air France. In precedenza, anche quando aveva lasciato le Ferrovie dello Stato, aveva ricevuto una generosa buonuscita: 6 milioni di euro.
Tutte le balle di Boldrin con la Napoleoni. - Alberto Bagnai
In un simpatico post del suo blog Paolo Manasse porta avanti un’argomentazione estremamente plausibile: quando si ha un problema, bisogna rivolgersi a uno specialista. Auguriamo al prof. Manasse di non aver mai un problema, soprattutto del tipo da lui evocato, perché leggendo il suo post si capisce quanto sia poco in grado di scegliere uno specialista.
Sì, perché la lezzzioncina (con tre zeta) dello stimato collega quale scopo ha? Quello di dimostrare che nel dibattito che si è svolto recentemente fra Loretta Napoleoni e Michele Boldrin, il telespettatore ignaro deve dar ragione a Boldrin, poiché questo ce l’ha più lungo (il curriculum), e quindi è più esperto. Il simpatico Manasse, col suo intervento a gamba tesa, commette però uno scivolone logico piuttosto evidente. Uno specialista, per definizione, è una persona dotata di competenze specifiche in un settore. Lo specialista non è tanto quello che possiede “molta” competenza, ma quello che possiede la “speciale” , “specifica” competenza utile al caso.
Immaginiamo il prof. Manasse il giorno in cui, Dio non voglia, dovesse trovarsi nella spiacevole situazione che descrive nel suo post, quella di avere un tumore. “Presto, portatemi da uno specialista!” “Be’, ci sarebbe proprio qui, nel palazzo, lo studio di un internista...” “No, portatemi dall’ortopedico del terzo piano, ha molte più pubblicazioni, ed è primario di un reparto importante...” “Ma lui è esperto di rotule, tu hai un problema al fegato!” “No, no, fate come dico io, l’esperto di rotule si è sottoposto al severo vaglio della comunità scientifica internazionale”.
Requiem aeternam...
Ci siamo capiti, no? “Economista”, in realtà, non significa nulla, esattamente come “medico” o “musicista”. Puoi anche essere un clarinettista con 10 dischi di platino al tuo attivo, ma se ti chiamano a suonare un preludio di Chopin per pianoforte sicuramente ti mancherà qualche nota. E se hai un cancro non vai da un ortopedico, a meno che tu non sia Manasse.
Ora, io non so se Loretta Napoleoni si occupi di tumori. Sicuramente Boldrin non si occupa di economia internazionale: lo dimostra la sua copiosa produzione scientifica (tutta in altri campi dell’economia), e lo dimostrano soprattutto le perle che profonde a piene mani nei dibattiti televisivi. Quindi il povero Manasse incassa, con la sua deludente caduta di stile, un autogol di proporzioni cosmiche. E a noi piace ricordarlo così, muto di fronte a Claudio Borghi Aquilini...
Non vorrei sottrarvi troppo tempo, ma due o tre dettagli vorrei farveli notare, ricordandovi le bellissime parole del padrone di casa: “chi non ha tempo, non ha neppure speranza”. Ecco, prendetevi un po’ di tempo, perché è utile capire che se ci affidiamo al clarinettista Boldrin, e alla sua compagnia di giro, il cancro dell’euro ci porterà tutti alla tomba.
Comincerei dalla fine.
Al minuto 10:50 del video si scatena una amena gazzarra su quanto abbiamo svalutato nel 1992 e su cosa sia effettivamente successo: è stato il 12%? È stato il 40%? E veramente non è successo nulla, come entrambi i contendenti affermano? O è successo qualcosa?
Guardate che il punto non è di dettaglio. Questo fatto storico, cioè l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo (SME) di cambi fissi nel 1992, viene regolarmente travisato dai media, con intenti terroristici. Volete un esempio? Sentitevi quest’altro espertone di economia internazionale, l’on. Tabacci, secondo il quale uscire oggi significherebbe dare “in una notte” una stangata del 50% alla nuova lira, “tosando le pecore”, perché il giorno dopo per andare a fare la spesa ci vorrebbe “la sporta doppia di monete” (argomento tipico dei nostri politici da avanspettacolo). Un po’ quello che dice Boldrin, il quale, con la coerenza alla quale ci ha abituati nei suoi interventi, prima ci dice al minuto 9:20 svalutare “sarebbe una tragedia per i lavoratori italiani” (si vede quanto gli stanno a cuore!), poi ci dice che l’ultima volta che lo abbiamo fatto non successe nulla. Tutto e il contrario di tutto in un minuto e mezzo.
Vi dico subito quali sono i due errori marchiani dei nostri due espertoni. Il primo è quello di voler veicolare il messaggio che la svalutazione sarebbe istantanea: 12%, 50%, 10000% (chi offre di più?) in una sola notte! Il secondo è quello di confondere sistematicamente la perdita di valore sui mercati finanziari internazionali (la svalutazione) con la perdita di valore sui mercati reali interni (l’inflazione). Ora, se occorrono più euro (o più lire) per acquistare un dollaro, non è detto che per questo occorrano più euro (o più lire) per acquistare un giornale o un filone di pane.
Vogliamo guardare i dati, così, per fare una cosa originale? La Fig. 1 riporta il tasso di cambio lira/ECU dal 1990 al 1998.
Perché uso questo cambio? Vi ricordo che l’ECU, European Currency Unit, era una unità di conto costruita considerando una media delle valute aderenti allo SME. L’ECU serviva da punto di riferimento per i cambi dello SME e fu il precursore diretto dell’euro: il cambio di 1936.27 al quale entrammo nell’euro nel gennaio 1999 era appunto quello che ci legava all’Ecu nel dicembre 1998 (ma tutto questo Boldrin non lo sa, come ho documentato qui). Quindi, se parliamo di svalutazione della lira nel contesto dello SME, il cambio lira/ECU è la scelta più naturale.
Intanto, dai dati si vede che la fluttuazione della lira andò avanti dal settembre 1992 al novembre 1996, come ci ricorda l’ottima cronologia della Banca dei Regolamenti Internazionali.
Nell’agosto del 1992 ci volevano 1545 lire per un Ecu (vi risparmio i decimali) e dopo lo sganciamento, nell’ottobre, ce ne volevano 1731, cioè circa il 12% in più.Quindi il prof. Boldrin riesce in un pezzo di incredibile virtuosismo: mentire, dicendo la verità!
Perché è sì vero che nell’immediato la svalutazione fu del 12%, ma è pure vero che non fu un blip, come dice lui per fare l’amerikano, cioè un fenomeno transitorio. Al contrario, proseguì fino all’aprile del 1995, quando, per un Ecu, ci volevano 2295 lire, cioè il 48% in più che nell’agosto del 1992. Eh già! Nel giro di meno di tre anni svalutammo di quasi il 50% rispetto all’Ecu (la cifra evocata dall’ineffabile Tabacci), e, se volete saperlo, del 55% rispetto al dollaro.
Chissà che iperinflazione, chissà che perdita di potere d’acquisto, chissà che “tosata” per i lavoratori, per dirla con Tabacci! Sicuramente il loro potere d’acquisto sarà calato del 50%, cioè i prezzi dei beni sui mercati interni saranno aumentati (a spanna) del 50%, visto che, con il dollaro più costoso del 50%, l’aumento dei prezzi delle materie prime avrà schiacciato l’economia italiana.
Invece no. L’impatto della svalutazione sui prezzi fu minimo. Lo vediamo nella Fig. 2, che riporta l’indice dei prezzi al consumo, la statistica che misura il costo della vita.
Vedete? I prezzi al consumo seguirono una bella traiettoria liscia e regolare, per nulla influenzata dalla svalutazione del cambio: mentre questo si impenna e poi precipita (Fig. 1), i prezzi (Fig. 2) vanno su paciosi, col passo del montanaro. Se, come nel grafico, mettiamo pari a 100 l’indice nell’agosto del 1992, vediamo che nell’aprile del 1995, quando la lira si era svalutata di quasi il 50%, l’indice era aumentato di appena il 13% (giungendo a 112.7).
Quindi i lavoratori furono tosati del 50%, come afferma l’espertone Tabacci?
No, evidentemente no, né in una notte, come dice lui per farvi paura, né in tre anni. L’indice del salario reale, cioè dei salari divisi per i prezzi, e quindi del reale potere d’acquisto degli italiani, tratto dal database AMECO è piuttosto chiaro: dal 1992 al 1995 l’indice diminuì, ma del 4%, cioè più o meno di quello che ha perso negli ultimi quattro anni, ora che abbiamo l’euro che ci protegge. L’inflazione c’entrò poco o nulla, c’entrarono molto le misure di austerità, prese anche allora per il nobile scopo di entrare in Europa.
Chiaro, no?
Ora, i fatti sono questi, e magari ad alcuni di voi sembreranno stravaganti, convinti, perché siete stati convinti, che se, poniamo, il dollaro ci costa del 50% in più, immediatamente il petrolio costa del 50% in più, e quindi tutto costa del 50% in più, nel giro di una notte (come se tutto fosse fatto di petrolio...). In questo caso la svalutazione sarebbe inutile, perché è vero che i nostri clienti esteri pagherebbero del 50% in meno (a spanna) la nostra valuta, ma l’inflazione interna farebbe costare del 50% in più i nostri prodotti, e i due effetti si annullerebbero. Così, continuano gli espertoni, inutile tornare al cambio flessibile: è inefficace come strumento, e di converso, quindi, la rigidità dell’euro non è colpevole della situazione nella quale ci troviamo
Ma le cose non stanno così: lo ha chiarito nel 1997 Maurice Obstfeld dell’Università di Berkeley, sui Brookings Papers on Economic Activity, e lo ha confermato nel 2012 Alexis Antoniades, della Georgetown University, sulla International Economic Review (se vi interessano i curriculum). Obstfeld, nel suo articolo intitolato “L’azzardo dell’euro”, chiarisce che l’aggiustamento del cambio è importante, anche se non si trasferisce ai salari reali, cioè anche se i lavoratori non vengono “tosati”, o magari “pagati come in Cina”. Il motivo è che se i produttori fissano i prezzi nella valuta del proprio paese (producer currency pricing), la svalutazione li avvantaggia comunque sui mercati esteri, anche a parità di costo del lavoro nazionale. Quindi, per un paese europeo rinunciare alla flessibilità del cambio ha un costo importante in termini di prolungamento delle crisi economiche (come stiamo vedendo). Il lavoro di Antoniades conferma che le imprese applicano in modo prevalente il producer currency pricing, e conclude confermando quello che era facile capire anche prima, cioè che “le preoccupazioni espresse da Obstfeld sui benefici dell’euro sono fondate”.
Certo, voi avete il diritto di ignorare queste ricerche specialistiche. Ma il prof. Boldrin no, e certamente non le ignora. Anche perché, sempre nel 1997, a margine dell’articolo di Obstfeld, un altro economista rincara la dose: “Sono più pessimista di Obstfeld: secondo me, l’euro è un rischio che non dovremmo prendere”. Sapete chi era? Alberto Alesina, che oggi appoggia l’austerità montiana, a difesa di quello stesso euro da lui definito nel 1996 un bluff, per motivi che (se vi interessa il parere di uno che ce l’ha corto, il curriculum) trovo limpidi e tuttora validissimi. Vi pare possibile che il prof. Boldrin non conosca l’opera del prof. Alesina? La leggiamo perfino noi a Pescara!
È vero invece quello che afferma nel dibattito la Napoleoni, cioè che le politiche di deflazione intraprese, quelle sì, stanno a riducendo a mal partito i cittadini italiani. Il motivo è semplice, e lo ha tanto limpidamente espresso uno degli economisti di punta del PUDE (Partito Unico Dell’Euro), Stefano Fassina: non potendo svalutare la moneta, si svaluta il lavoro. Vi sembra il contrario di quello che dicono Tabacci e Boldrin? Sì, è esattamente il contrario, ma è anche quello che sta succedendo, e lo vediamo tutti, anche voi: credete ai vostri occhi!
È inutile girarci intorno. Quello di ridurre il resto dell’Europa come la Cina, sbriciolando i redditi e i diritti dei lavoratori per contare su un serbatoio di manodopera a buon mercato, si sta ormai palesando come il disegno, più o meno lucido, della leadership tedesca. Guardate, non ci vuole molto a capirlo: vogliono fare con il resto dell’Eurozona quello che gli è riuscito con la Germania Est.
Ve lo ricordate?
Vi rubo ancora un attimo, vale la pena: il cambio fra marco dell’Est e marco dell’Ovest era di tre a uno, ma fu presa la decisione di fissare il cambio uno a uno, dotando i “cugini” dell’Est di una moneta tre volte più “pesante” di quella di cui disponevano. Risultato: i consumi all’Est aumentarono (e con loro le importazioni), ma la competitività delle imprese fu sbriciolata (e con lei le esportazioni). Quasi 1300 miliardi di euro passarono dall’Ovest all’Est, per colmare lo squilibrio commerciale e finanziare la ripresa, ma a distanza di vent’anni i risultati apparivano deludenti non secondo “il professorino di Pescara”: secondo lo Spiegel! Che vuol dire “deludenti”? Ma, ad esempio che nel 2008 il reddito di una famiglia dell’Est era ancora solo il 53% di quello di una famiglia dell’Ovest (sempre lo Spiegel). I greci, agli imprenditori della Germania Ovest, costeranno ancora meno, quando la loro economia sarà stata definitivamente distrutta. Poi toccherà agli altri, fra cui noi.
Solo sganciandoci dal giogo della moneta unica e ripristinando la flessibilità del cambio (come auspicavano il premio Nobel James Meade nel 1957, o Alberto Alesina nel 1997) si può garantire un futuro a questo continente. Non parlo di futuro economico: parlo di futuro e basta, perché l’irrazionalità economica dell’euro rischia di condurci alla catastrofe politica, come diceva, ancora una volta, Alberto Alesina nel 1997: “si può pensare che la probabilità di conflitti aumenterà se più paesi sono costretti a coordinarsi e a venire a compromessi su diversi argomenti a causa di una inutile unione monetaria”.
Quindi, quando difendono l’euro, Tabacci forse no (diamogli il beneficio del dubbio, visto che non è del mestiere e visibilmente non sa di cosa parla), ma Alesina e Boldrin sono certamente consapevoli di divulgare delle “lievi imprecisioni”. È la leadership degli eurocrati che vuole portarci a competere al ribasso con la Cina in tema di diritti e redditi, e questo loro lo sanno. Siamo certi che la loro convinzione nel sostenere questo progetto suicida per il loro paese gli spianerà la strada di una brillante carriera politica.
O no?
Dipende da voi...
LE MANI SULL’UNIVERSITÀ: LE IENE E LA PARENTOPOLI PALERMITANA. - Marco Sciortino
Ricordate Dinasty, quella mielosa soap opera degli anni Ottanta? Ecco, trapiantatela a Palermo, in salsa accademica, però. Norman Zarcone se n’era accorto. Nella città, in cui il traffico mette famiglia contro famiglia, c’è un altro aspetto da considerare. All’interno degli atenei i nuclei di sangue che contano, sono molto forti. Le Iene raccontano la Parentopoli che occupa le università italiane e si soffermano sul caso di Palermo.
Non è una novità, ma a denunciarlo è stato ieri un servizio realizzato da Pablo Trincia: un fenomeno che costringe i migliori “cervelli italiani” ad andare in fuga.Scegliere altri lidi, emigrare all’estero, perché a casa propria nessuno riesce a essere profeta, come recitava un antico detto. Più che altro perché in patria devi far spazio alla valanga di cugini, fratelli, figli e mogli di rettori e presidi.
Altro che riforme e borse di studio. A Palermo ci sono sei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Come se fosse un’occupazione militare. Le dinastie palermitane sono un centinaio, per un totale di 230 docenti imparentati. Gli esempi? Economia e commercio è il regno incontrastato dei Fazio, a Giurisprudenza dominano i Galasso, poi ci sono i Sorbello, gli Inzerillo. Ma soprattutto i Carapezza, a Lettere, con i fratelli Attilio e Marco.
Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Tutti questi dati sono stati raccolti da uno studente. Famiglie che si riproducono nell’omertà tra docenti di ruolo, associati e ordinari. Come se fosse una Cupola del sapere.
I baroni provano a minimizzare e spegnere l’incendio. Davanti alla Iena che lo intervista nel suo studio, il Pro Rettore Vito Ferro, sottolinea: “Non esiste un caso parentopoli, solo persone con lo stesso cognome. Noi siamo tenuti a portare avanti le lezioni, non a spiegare i cognomi delle persone”.
Nella facoltà di Architettura comanda Angelo Milone, preside. Là dentro lavorano anche il fratello Mario (ricordate l’ex vice sindaco di Palermo, assessore con delega ai Rapporti con l’università?) e i figli Daniele e Manuela, ricercatori. “Parentopoli? Un problema sociale e morale ma non bisogna farne un dramma”, dice il preside, che ammette le amicizie personali all’interno dell’ateneo, ma glissa sulla scalata alle cattedre dei figli. Coincidenze e silenzi.
lunedì 18 febbraio 2013
RATZINGER/ Le dimissioni? “Colpa” dello Ior: e nei giochi di potere spunta l’ombra della Trilaterale. - Carmine Gazzanni
LO IOR, LA VERA CROCE DI BENEDETTO. TUTTI GLI SCANDALI DEGLI ULTIMI ANNI - Che sia stata la vera croce che è pesata (troppo, visto com’è andata a finita) sulla schiena di Benedetto XVI non v’è dubbio. Troppi gli scandali che hanno segnato lo Ior negli ultimi anni, la banca vaticana nota, se così vogliamo dire, per non essere nota: documenti segreti, bilanci segreti, conti segreti. Zero trasparenza, dunque. Tanto che l’ultimo documento sui suoi conti risale addirittura al 2002.
Il silenzio delle stanze vaticane, però, non ha tenuto ai contraccolpi dei tanti scandali degli ultimi anni. Basti pensare ai forti interessi dello Ior nella vicenda Monte dei Paschi di Siena. Lo stesso arresto di Giuseppe Orsi, presidente di Finmeccanica, non può non far tornare alla mente lo scorso 23 maggio, quando il numero uno dell’azienda aerospaziale finisce intercettato in un ristorante con l’ex numero uno della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi: “il sistema è a tuo favore e ti difenderà”, dice quest’ultimo. Parole inequivocabili: l’appoggio è incondizionato e trasversale (come d’altronde Infiltrato.it ha accertato). E non finisce nemmeno qui. Secondo gli inquirenti, infatti, quello tra Orsi e Gotti Tedeschi non sarebbe stato nemmeno un pranzo di piacere, visti gli affari che ci sarebbero i due: per la magistratura Orsi avrebbe consegnato all’ex numero dello Ior documenti segreti su accordi con Panama e India. Ancora: il banchiere è sott’inchiesta anche a Roma col dg Paolo Cipriani per 23 milioni di euro dello Ior movimentati verso il Credito Artigiano e destinati a JpMorgan Frankfurt e a Banca del Fucino, segno dei forti legami (su cui torneremo più avanti) con i grossi istituti mondiali. E poi le rogatorie che dimostrerebbero gli affari dello Ior nello scandalo del G8-Grandi eventi (nella vicenda, secondo alcune indiscrezioni, emergerebbe l’interessamento del cardinale Leonardo Sandri, uno dei papabili per il dopo Benedetto).
LO STRAPOTERE DI TARCISIO BERTONE - Insomma, anni bui per lo Ior. Troppo pericolosi soprattutto per chi, negli ultimi anni, era riuscito ad accrescere e concentrare il potere politico ed economico nelle sue mani. Stiamo parlando del plenipotenziario segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Tanto che, di lì a poco, sarebbe arrivata la rottura definitiva con Gotti Tedeschi. Secondo le versioni ufficiali, il motivo della rottura sarebbe da ritrovare nell’opposizione del banchiere al desiderio di Bertone di creare una spa che inglobasse la gestione non solo del Gemelli ma anche del San Raffaele che, dunque, sarebbe stato prelevato e ricapitalizzato per salvarlo dalla sua condizione pesantemente debitoria. Gotti Tedeschi si oppose. Non sapeva, forse, che non accontentare i desiderata di Bertone avrebbe significato il suo siluramento. Cosa che, appunto, avvenne. Ma ecco il tratto inquietante della vicenda. Ancora oggi sono fortemente insistenti le voci secondo cui il vero motivo della rottura tra i due (oltre al disegno quasi imprenditoriale di Bertone appena ricordato) andrebbe ritrovato nella scelta di Gotti Tedeschi di farsi volontariamente interrogare (poteva decidere di non andare, la legge glielo consentiva) dai magistrati di Roma, in seguito a un’inchiesta su presunte violazioni delle norme anti-riciclaggio che ha coinvolto lui e il direttore generale dello IOR Paolo Cipriani. La Santa Sede non avrebbe apprezzato le chiacchierate con i pm, né le allusioni ad alcuni conti cifrati segreti. Quello che accade in Vaticano, deve restare in Vaticano. Questa la politica di Bertone.
QUEI CONTI “NON INTESTATI AI PRELATI” E LA NECESSITÀ DI TENERLI OCCULTATI - I particolari inquietanti nella vicenda Bertone-Gotti Tedeschi, però, non finiscono qui. A giugno 2012, nelle indagini su Finmeccanica, gli inquirenti decidono di far perquisire casa e uffici del banchiere: tra le carte sequestrate spunta un memoriale sullo Ior preparato, addirittura, nel timore “di essere ammazzato” per quanto scoperto durante il suo mandato. “Tutto è cominciato quando ho chiesto di avere notizie sui conti che non erano intestati ai prelati”, si legge nel report. Pochi giorni dopo e, come detto, Gotti Tedeschi viene silurato definitivamente da Bertone il quale non aveva digerito l’intenzione del banchiere di promulgare la legge 127 che avrebbe fissato norme antiriclaggio. Il segretario di Stato non era d’accordo. Tanto che, motu proprio, aveva depotenziato i poteri ispettivi previsti dalla legge 127, nonostante pochi giorni prima il Vaticano fosse per la prima volta finito nella black list dei Paesi a rischio riciclaggio. Il dubbio che ci fosse (e ci sia) qualcosa da nascondere è più che legittimo.
LO IOR, LA PIÙ POTENTE BANCA DEL MONDO – Ma perché si vuole tenere tutto segreto? Difficile dirlo. Fatto sta che i documenti contabili dello Ior, soprattutto dopo lo scandalo del Banco Ambrosiano e le pesanti ombre sulla morte di Roberto Calvi, sono assolutamente occultati. Nulla riesce a superare le mura vaticane e a diventare pubblico. L’ultima volta che è accaduto risale addirittura al 2002. Ma è da qui che si può partire per comprendere il giro di affari che ruota attorno allo Ior, anche perché i nomi di allora sono gli stessi nomi di oggi. Iniziamo però col dire che è praticamente impossibile comprendere la consistenza patrimoniale della banca e, dunque, della stessa Santa Sede. La matassa è inestricabile. Fonti attendibili parlano di 5,7 miliardi di euro tra contanti, oro, valute, azioni e titoli (escludendo quindi gli immobili e gli inestimabili tesori d’arte), ma potrebbero essere il doppio o dieci volte tanto, perché nessuno può dirlo con certezza visto il riserbo che copre le finanze della Santa Sede.
Ma, anche prescindendo dall’ammontare del capitale, è indubbio che il giro di affari sia praticamente immenso per uno Stato che si estende per soli 44 ettari di superficie, che conta meno di mille residenti e che non ha sportelli se non uno in territorio vaticano (peraltro non funzionante per il blocco imposto da Bankitalia proprio per le norme antiriciclaggio). Nonostante questo, infatti, lo Ior si ritrova ad essere una vera e propria multinazionale dato che, formalmente, finanzia tutte le diocesi (oltre 5 mila) e, di contro, apre conti a tutti i porporati (quasi cinque milioni tra vescovi, sacerdoti, diaconi e professi). Non produce beni e i suoi servizi sono gratuiti, o quasi. A ben diritto, dunque, lo Ior è tra le banche più potenti del mondo, visto il giro d’affari che regola. Per analizzarne i ricavi, come detto, non è possibile fare riferimento all’incalcolabile patrimonio. Possiamo, però, fare riferimento ai suoi investimenti, mobili e immobili, e ai versamenti delle diocesi per il sostentamento dell’organizzazione centrale della Chiesa: secondo una passata inchiesta di Panorama, parliamo di qualcosa come 216 milioni di euro all’anno. Ma sono solo i dati ufficiali, quelli conosciuti, iscritti ufficialmente nel bilancio dell’Amministrazione patrimonio Sede Apostolica (Apsa). Dietro, come vedremo, pare proprio si nasconda dell’altro.
IL DOCUMENTO DEL 2002: GLI AFFARI IN USA E I PARADISI FISCALI “MISSO SUI IURIS”- Accanto al quadro ufficiale, però, spuntano importanti legami con altre banche, europee e americane. Gli affari, infatti, sono garantiti: ai suoi clienti lo Ior garantisce interessi medi annui superiori al 12%. Un esempio? Scriveva Marina Marinetti nell’inchiesta citata di Panorama: “la Jcma, un’associazione di medici cattolici giapponesi, nel 1998 ha depositato 35 mila dollari presso la banca vaticana. A quattro anni di distanza si è ritrovata sul conto quasi 55 mila dollari: il 56% in più. E se i clienti guadagnano il 12% medio annuo, vuol dire che i fondi dell’Istituto rendono ancora di più.Quanto, però, non è dato saperlo”.
Lo Ior, dunque, investe (e fa investire) più che bene. Secondo un altro rapporto del giugno 2002 del Dipartimento del Tesoro americano, basato su stime della Fed, solo in titoli Usa il Vaticano ha ben 298 milioni di dollari: 195 in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine (49 milioni in bond societari, 36 milioni in emissioni delle agenzie governative e 17 milioni in titoli governativi) più un milione di euro in obbligazioni a breve del Tesoro. Senza dimenticare la joint venture da 273,6 milioni di euro tra Ior e partner Usa. Quali siano tali partner, ovviamente, non è dato sapere. È molto probabile, però, che stiamo parlando dei grandi colossi bancari. Basti pensare alla JpMorgan e ai 23 milioni di euro che sarebbero stati destinati dallo Ior se tutto non fosse stato frenato da Bankitalia.
Tali affari, dunque, spiegherebbero la politica di Tarcisio Bertone che vuole mantenere a tutti i costi altissimo il segreto sugli interessi dello Ior. Ergo: si addensano le ombre sul memorandum dello stesso ex numero uno della banca vaticana in cui scrive di aver paura di essere ucciso dopo aver visto di chi erano i “conti non intestati a prelati”. Senza dimenticare un altro particolare. Anni fa il Vaticano decise di sottrarre le Cayman al controllo della diocesi giamaicana di Kingston per essere proclamate Missio sui iuris, ovvero alle dipendenze dirette del Vaticano. Sarà una coincidenza ma stiamo parlando di uno dei più ambiti paradisi fiscali.
TUTTI LEGATI ALLO IOR: SAN PAOLO, JP MORGAN, SANTANDER, BRACLAYS, DEUTSCHE. E LA COMMISSIONE TRILATERALE -L’abbiamo detto: lo Ior non ha accesso diretto ai circuiti finanziari internazionali. Indirettamente, però, opera eccome. Per muoversi in Europa si avvale di due grandi banche, una tedesca e una italiana. Non è dato ufficialmente sapere quali siano, ma pare certo stiamo parlando di Banca Intesa, della quale lo Ior possedeva il 3,37%, e di Deutsche Bank (presso cui lo Ior ha un conto intestato). Nessuno, ovviamente, conferma con certezza. È indubbio, però, che dal canto loro le banche hanno tutto l’interesse di commerciare con il Vaticano.
Non solo. Il mese scorso il quotidiano britannico Guardian si è messo sulle tracce del tesoretto vaticano inglese. Quanto scoperto è inquietante. I tanti immobili londinesi del Vaticano sono intestati alla società British Grolux Ltd, che il Vaticano fondò prima della seconda guerra mondiale. Nel tempo però il legame è divenuto opaco e mantenuto nell’ombra. E nemmeno il registro ufficiale del catasto di Londra chiarisce il nome del proprietario. Secondo il giornale britannico, però, oggi le azioni della British Grolux ricondurrebbero a due banchieri cattolici: John Varley, chief executive di Barclays, e Robin Herbert, della Butterfield Bank. Piccolo particolare: quest’ultima banca è quotata alla Borsa delle Isole Cayman e alle Bermuda. Ancora una volta, insomma, spunta il paradiso fiscale sotto diretto controllo del Vaticano. Ma non è finita qui: quote della Grolux, infatti, portano dritte dritte oltre oceano, in America. E dove precisamente? Alla Jp Morgan. Ancora.
Tra le banche legate a doppio filo allo Ior, però, spuntano anche altri due colossi, la già ricordata Deutsche Bank e il Banco Santander di Emilio Botin (molto vicino all’Opus Dei). Basti pensare che nel consiglio di sovrintendenza della banca vaticana spiccano i nomi di Ronaldo Hermann Shmitz (attuale presidente, in sostituzione di Gotti Tedeschi) e di Manuel Soto Serrano. Il primo ex amministratore delegato della banca tedesca e, peraltro, attuale esponente di spicco della Commissione Trilaterale; il secondo vicepresidente della banca spagnola.
IL POTERE (E I SOLDI) DEI CAVALIERI DI COLOMBO. I 4 MILIARDI DI DOLLARI “SPARITI” – Accanto al potere del segretario di Stato Tarcisio Bertone (che peraltro è anche a capo della commissione cardinalizia che presiede la banca), determinante è anche quello in mano a importanti esponenti dell’associazione dei Cavalieri di Colombo. Basti pensare che il cavaliere supremo (questa la carica più alta) è il laico Carl Anderson, membro del consiglio di sovrintendenza. Non solo. Anche il cardinale Juan Sandoval Íñiguez, ex membro della commissione cardinalizia, è uno dei più autorevoli “cavalieri”. Il motivo per cui si tenga così in considerazione l’organizzazione dai tratti paramassonici è più che ovvia. Direttamente dal sito si legge che i “quasi 1.700.000 Cavalieri” (tra Stati Uniti, Canada, Messico, Porto Rico, Repubblica Dominicana, Filippine, Bahamas, Guatemala, Guam, Saipan e Isole Vergini) contribuiscono con “130 milioni di dollari” al suo sostentamento. E come viene impiegato questo capitale? Formalmente in “opere di carità”.
Viene da chiedersi, però, se il versamento da 2,5 milioni di dollari versato lo scorso 2003 a Giovanni Paolo II per il suo 25esimo anniversario di pontificato sia “un’opera di carità”. Senza dimenticare, peraltro, che quell’assegno è nient’altro che la rendita di un fondo d’investimento americano da 20 milioni di dollari, il Vicarius Christi Fund, gestito direttamente dai Cavalieri di Colombo. Ma non è tutto. Gli affari dei Cavalieri sono ben altri. L’ordine, infatti, investe (almeno fino al 2002) ne icorporate bond emessi da più di 740 società statunitensi e canadesi: solo nel 2002, piazzando polizze sulla vita e servizi di assistenza domiciliare ai suoi iscritti attraverso 1.400 agenti, ha incassato 4,5 miliardi di dollari (il 3,4% in più rispetto al 2001). Peccato, però, che di questo ingente capitale solo una parte - 128,5 milioni di dollari - sia stata girata a diocesi, ordini religiosi, seminari, scuole cattoliche e, ovviamente, al Vaticano. Viene allora da chiedersi che fine abbiano fatto (in cosa siano stati investiti) gli altri 4,3 miliardi di dollari…
CHI PREVARRÀ? – In questo clima il pensiero dei tanti porporati (e non) chiamati in causa non è (solo) l’elezione del nuovo pontefice, quanto quello della nomina del nuovo presidente dello Ior e del nuovo consiglio di sovrintendenza. Cerchiamo, a questo punto, di offrire un quadro ancora più chiaro. Lo Ior è composto da una commissione cardinalizia di sorveglianza al cui capo siede proprio Tarcisio Bertone. Ma tra i membri spicca anche il suo acerrimo rivale, il cardinale Attilio Nicora (uno di quelli che si oppose al licenziamento di Ettore Gotti Tedeschi, voluto e deciso proprio dal segretario di Stato Vaticano). Il consiglio di sovrintendenza è formato dai già ricordati Carl Anderson, Ronaldo Hermann Shmitz e Manuel Soto Serrano, oltrechè dal direttore (e bertoniano) Paolo Cipriani e dall’avvocato Antonio Maria Marocco. La guerra è aperta. Certamente, per quanto detto, è difficile pensare che i Cavalieri di Colombo, nella persona di Ronaldo Hermann Shmitz, rinuncino alla propria ingerenza, potendo contare soprattutto sull’appoggio delle grandi banche americane con cui, come abbiamo visto, lo Ior è pesantemente in affari. Stesso discorso anche per il rappresentante del Banco Santander (soprattutto per la vicinanza di Botin all’Opus Dei) e per la Deutsche Bank (nella quale, come già detto, è aperto il conto tramite cui il Vaticano fa affari in Europa). La guerra, allora, si giocherà soprattutto tra Bertone e Nicora il quale, peraltro, presiede anche l’AIF, l’Autorità di Informazione Finanziaria, organo che si occupa, da statuto, “di prevenire e contrastare il riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”.
Questo particolare non è affatto casuale: come già detto, il siluramento di Gotti Tedeschi è stato determinato proprio dalla diatriba nata tra i due riguardo l’accettazione (o meno) delle norme antiriclaggio. La posizione di Bertone è chiara: nessuno deve vigilare sui conti Ior. Nessuno deve conoscerli. Il che lascia, ovviamente, più di un dubbio sulla bontà della posizione del porporato. Diametralmente opposta la posizione di Nicora il quale, invece, vorrebbe che gli enti di controllo, a cominciare da Bankitalia, inserissero lo Ior nella white list delle banche. Ma, affinchè questo accada, è necessario obbedire alle leggi antiriclaggio e, dunque, piegarsi ai controlli. In altre parole, eliminare il segreto che copre praticamente qualsiasi operazione che riguardi la finanza vaticana.
A questo punto il quadro è più che chiaro: il subbuglio che si vive in questo periodo in Vaticano potrebbe portare a profondi cambiamenti nella gestione politica ed economica degli affari d’Oltretevere. Probabilmente anche la decisione presa da Benedetto XVI, da sempre ostile alla linea impiantata da Bertone, di lasciare il soglio pontificio, potrebbe essere letta in questo senso.
Se così fosse, capiremmo anche perché il segretario di Stato Vaticano abbia accelerato sulla nomina del nuovo presidente e del nuovo consiglio cardinalizio, appena dopo le dimissioni di Ratzinger.
La guerra tra i porporati è appena cominciata. Sarà una guerra giocata su interessi economicie, per quanto abbiamo visto, sugli appoggi dei grossi poteri finanziari che sono alle spalle dello Ior e che, negli anni, hanno permesso alla stessa economia pontificia di prosperare.
Grallator Theridion.
Grallator Theridion, noto anche come il "ragno faccia felice", è un ragno nella famiglia Theridiidae. Il suo nome hawaiano è nananana makakii (faccia-fantasia ragno).
Il ragno lungo 5 millimetri (0,20 pollici). Alcuni ragni hanno un modello che assomiglia stranamente a una faccina sorridente sul loro corpo giallo. Ogni ragno ha un modello unico nel suo genere, ed i modelli differiscono da isola a isola.
Sull'isola di Maui, i tipi felici sembrano seguire semplici regole di ereditarietà mendeliana, mentre su altre isole hawaiane i modelli di ereditarietà del corpo sembrano essere sesso-limitata. La variazione è forse una sorta di camuffamento contro gli uccelli, i loro unici nemici naturali.
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