mercoledì 8 luglio 2009

Silvio e la mafia: la lettera.



di Peter Gomez.

Una missiva che documenta i rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra.

Anche dopo la "discesa in campo".

E' stata trovata tra le carte di Vito Ciancimino. E "L'espresso" la pubblica in esclusiva.


Adesso c'è la prova documentale. Davvero, secondo la procura di Palermo, Silvio Berlusconi era in contatto con i vertici di Cosa Nostra anche dopo la sua "discesa in campo", come era stato già stato raccontato da molti collaboratori di giustizia.
I corleonesi di Bernardo Provenzano, infatti, scrivevano al premier per minacciarlo, blandirlo, chiedere il suo appoggio e offrirgli il loro.
Lo si può leggere, qui, nero su bianco, in questa lettera da tre giorni depositata a Palermo gli atti del processo d'appello per riciclaggio contro Massimo Ciancimino, uno dei figli di don Vito, l'ex sindaco mafioso di Palermo, morto nel 2002.
Una lettera che "L'Espresso" online pubblica in esclusiva.
Si tratta della seconda parte di una missiva (quella iniziale sembra essere stata stracciata e comunque è andata per il momento smarrita) in cui in corsivo sono state scritte le seguenti frasi:
"... posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi.
Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive".
Chi abbia vergato quelle parole, lo stabilirà una perizia calligrafica. Ai periti verrà infatti dato il compito di confrontare la lettera con altri scritti di uomini legati a Provenzano. I primi esami hanno comunque già permesso di escludere che gli autori siano don Vito, o suo figlio Massimo, che dopo una condanna in primo grado a cinque anni e tre mesi, collabora con la magistratura.
Tanto che finora le sue parole hanno, tra l'altro, portato all'apertura di un'inchiesta per concorso in corruzione aggravata dal favoreggiamento mafioso contro il senatore del Pdl Carlo Vizzini, i senatori dell'Udc Salvatore Cuffaro e Salvatore Cintole, e il deputato dell'Udc e segretario regionale del partito in Sicilia, Saverio Romano. Con i magistrati Massimo Ciancimino ha parlato a lungo della lettera, che lui ricorda di aver visto tra le carte del padre quando era ancora intera.

Ma tutte le sue dichiarazioni sono state secretate. Le poche indiscrezioni che trapelano da questa costola d'indagine, già in fase molto avanzata e nata dagli accertamenti sul patrimonio milionario lasciato da don Vito agli eredi, dicono comunque due cose. La prima: la procura ritiene di aver in mano elementi tali per attribuire il messaggio a dei mafiosi corleonesi vicinissimi a Bernardo Provenzano, il boss che per tutti gli anni Novanta ha continuato ad incontrarsi con Vito Ciancimino.
Anche quando l'ex sindaco, dopo una condanna a 13 anni per mafia, si trovava detenuto ai domiciliari nel suo appartamento nel centro di Roma. La seconda: i magistrati sono convinti che la lettera dei corleonesi sia arrivata a destinazione. Il documento è stato trovato tra le carte personali di don Vito. A sequestrarlo erano stati, già nel 2005, i carabinieri: "Parte di Foglio A4 manoscritto, contenente richieste all'On. Berlusconi per mettere a disposizione una delle sue reti televisive", si legge un verbale a suo tempo redatto da un capitano dell'Arma.
Incredibilmente però la lettera era rimasta per quattro anni nei cassetti della Procura e, all'epoca, non era mai stata contestata a Ciancimino junior nei vari interrogatori. L'unico accenno a Berlusconi che si trova in quei vecchi verbali riguarda infatti una domanda sulla copia di un assegno da 35 milioni di lire forse versato negli anni '70-'80 dall'allora giovane Cavaliere al leader della corrente degli andreottiani siciliani. Dell'assegno si parla a lungo in una telefonata intercettata tra Massimo e sua sorella Luciana il 6 marzo del 2004.Venti giorni dopo si sarebbe tenuta a Palermo la manifestazione per celebrare i dieci anni di Forza Italia. Luciana dice al fratello di essere stata chiamata da Gianfranco (probabilmente Micciché, in quel periodo assiduo frequentatore dei Ciancimino) che l'aveva invitata alla riunione perché voleva presentarle Berlusconi.
Luciana: "Minchia, mi telefonò Gianfranco.. ah, ti conto questa? all'una meno venti mi arriva un messaggio?"
Massimo: L'altra volta l'ho incontrato in aereo"
Luciana: "Eh... il 27 marzo, a Palermo... per i dieci anni di vittoria di Forza Italia, viene Silvio Berlusconi. È stata scelta Palermo perché è la sede più sicura... eh... previsione... In previsione saremo 15 mila..."
Massimo: "Ah" Luciana "...eh allora io dissi minchia sbaglia, e ci scrivo stu messaggio: "rincoglionito, a chi lo dovevi mandare questo messaggio, secunnu mia sbagliasti" ...in dialetto, eh... eh (ride) e mi risponde: "suca" ...eh (ride) ...mezz'ora fa mi chiama e mi fa: "Minchia ma sei una merda" e allora ci dissi "perché sono una merda". Dice, hai potuto pensare che io ho sbagliato a mandare? io l'ho mandato a te siccome so che tu lo vuoi conoscere [Berlusconi, nda] ? io ti sto dicendo che il 27 marzo "
Massimo: "E digli che c'abbiamo un assegno suo, se lo vuole indietro..."
Luciana "(ride) Chi, il Berlusconi?
Massimo: "Si, ce l'abbiamo ancora nella vecchia carpetta di papà?"
Luciana: " Ma che cazzo dici"
Massimo : "Certo"Luciana: "Del Berlusca?"
Massimo: "Si, di 35 milioni, se si può glielo diamo..."
Ma nella perquisizione a casa Ciancimino, la polizia giudiziaria l'assegno non lo trova. Interrogato il 3 marzo 2005, Ciancimino jr. conferma solo che gliene parlò suo padre, ma non dice dove sia finito: "Sì, me lo raccontò mio padre? Ma poi era una polemica tra me e mia sorella, perché io l'indomani invece sono andato alla manifestazione di Fassino". Adesso, invece, dopo la decisione di collaborare con i pm, sarebbe stato più preciso. Ma non basta. Perché Ingroia e Di Matteo, dopo aver scoperto per caso la lettera nell'archivio della procura, hanno anche acquisito agli atti della nuova indagine il cosiddetto rapporto Gran Oriente, redatto sulla base delle confidenze ( spesso registrate) del boss mafioso Lugi Ilardo, all'allora colonnello dei carabinieri, Michele Riccio. Ilardo è stato ucciso in circostanze misteriose alla vigilia dell'inizio della sua collaborazione ufficiale con la giustizia. Ma già nel febbraio del '94 aveveva confidato all'investigatore come Cosa Nostra, per le elezioni di marzo, avesse deciso di appoggiare il neonato movimento di Berlusconi. Un fatto di cui hanno poi parlato dozzine di pentiti e storicamente accertato in varie sentenze. Ilardo il 24 febbraio aveva spiegato a Riccio come qualche settimana prima "i palermitani" avessero indetto una "riunione ristretta" a Caltanissetta con alcuni capofamiglia del nisseno e del catanese. Nell'incontro "era stato deciso che tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose del territorio nazionale avrebbero dovuto votare "Forza Italia". In seguito ogni famiglia avrebbe ricevuto le indicazioni del candidato su cui sarebbero dovuti confluire i voti di preferenza... (inoltre) i vertici "palermitani" avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all'entourage di Berlusconi. Questi, in cambio del loro appoggio, aveva garantito normative di legge a favore degli inquisiti appartenenti alle varie "famiglie mafiose" nonché future coperture per lo sviluppo dei loro interessi economici..". Una delle ipotesi, ma non la sola, è che si tratti dell'ideatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, già condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La procura di Palermo, sospetta dunque, che la lettera ritrovata nell'archivio di Ciancimino si inserisca all'interno di questa presunta trattativa. Nel '94, infatti, Berlusconi governò per soli sette mesi e anche le norme contenute all'interno del cosiddetto decreto salvaladri di luglio, approvato per consentire a molti dei protagonisti di tangentopoli di uscire di galera, che avrebbero in teoria potuto favorire i boss, alla fine non vennero immediatamente ratificate. Da qui, è la pista seguita dagli investigatori, le apparenti minacce al Cavaliere ("il luttuoso evento"), la richiesta della messa a disposizione di una rete televisiva e i successivi sviluppi politici che portarono all'approvazione di leggi certamente gradite anche alla mafia, ma spesso approvate con il consenso bipartisan del centro-sinistra.
(07 luglio 2009)

martedì 7 luglio 2009

Per la morte del giovane Aldrovandi poliziotti condannati a tre anni e 6 mesi



FERRARA - Il tribunale di Ferrara ha condannato a tre anni e sei mesi i quattro poliziotti accusati di eccesso colposo nell'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, il ragazzo di 18 anni morto il 25 settembre 2005 durante un intervento di polizia. Alla lettura della sentenza i genitori del ragazzo si sono abbracciati piangendo e in aula sono partiti applausi. "Volevo che a mio figlio fossero restituiti giustizia, rispetto e dignità", ha detto il padre di Federico. "Mio figlio non era un drogato, era un ragazzo di 18 anni che amava la vita e che quella mattina non voleva morire". Sua moglie è sembra stata convinta della colpevolezza degli agenti: "Ci sono stati momenti in cui ho avuto paura che se la potessero cavare, ma in fondo ci ho sempre creduto. Ora quei quattro non devono più indossare la divisa". Inchiesta e processo hanno visto come parte fondamentale la famiglia Aldrovandi, la mamma Patrizia Moretti e il papà Lino, in prima linea per chiedere la verità, prima con il blog su Kataweb aperto nel gennaio 2006 e diventato uno dei più cliccati in Italia, poi lungo l'inchiesta e il processo, scanditi dalle perizie, dalla raccolta delle testimonianze, dalla ricostruzione faticosa delle cause della morte di Federico. Il pm Nicola Proto aveva chiesto condanne per tre anni e otto mesi a ciascuno dei quattro agenti. L'accusa è di aver ecceduto nel loro intervento, di non aver raccolto le richieste di aiuto del ragazzo, di aver infierito su di lui in una colluttazione imprudente usando i manganelli che poi si sono rotti. La parte civile, (Gamberini, Del Mercato, Anselmo e Venturi) ha ricostruito sotto quattro angolazioni diverse le difficoltà per raggiungere non la verità ma il processo stesso, sostenendo che la morte di Federico sia addebitabile alla colluttazione con gli agenti (nel corso della quale si ruppero due manganelli) e all'ammanettamento del giovane a pancia in giù con le mani dietro la schiena. Posizione che, secondo i loro consulenti, avrebbe causato un'asfissia posturale. A questa causa va aggiunta la tesi di un cardiopatologo dell'Università di Padova, il professor Thiene, secondo il quale il cuore avrebbe subito un arresto dopo aver ricevuto un colpo violento.
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Per la difesa (Pellegrini, Vecchi, Bordoni, Trombini) l'agitazione del ragazzo quella mattina, prima e durante l'intervento di polizia, era dovuta all'effetto di sostanze assunte la notte prima al Link di Bologna con gli amici. Sostanze che lo avrebbe portato a uno scompenso di ossigeno durante la colluttazione. Tutte le difese hanno chiesto l'assoluzione piena degli imputati, che agirono rispettando le regole e il modus operandi previsto per interventi di contenimenti di persone fuori controllo (uso dei manganelli, metodo di ammanettamento e di contenzione o pressione sul corpo). Ancora oggi, tuttavia, nonostante l'intervento di oltre 15 tra i più affermati e riconosciuti esperti italiani (medico-legali, tossicologi, anestesiologi, cardiopatologi) non si è arrivati a chiarire con certezza le cause della morte.

lunedì 6 luglio 2009

L’odore dei soldi.

Le origini (oscure) di un promettente imprenditore. Società svizzere. Sconosciute casalinghe. Commercialisti e prestanomi. Poi, una bizantina architettura di holding.
di Luca Andrei

«È una casalinga di Segrate il socio misterioso di Berlusconi».

Correva l’anno 1983 e il mensile economico Espansione titolava così il ritratto indiscreto di un rampante protagonista della Milano degli affari. A quei tempi Silvio Berlusconi era ancora lontanissimo dal teatrino della politica. Al più la gente sentiva parlare di lui come l’abile costruttore che aveva tirato su dal nulla il quartiere di Milano 2. E molte migliaia di italiani incominciavano ad appassionarsi ai programmi di Canale 5, in rapida ascesa grazie anche al fresco acquisto di Italia 1 dall’editore Edilio Rusconi. Il futuro leader di Forza Italia, però, dimostrava già una spiccata attitudine alle pubbliche relazioni. Apriva la villa di Arcore ai giornalisti amici, mostrava orgoglioso la collezione di quadri del Quattro-Cinquecento e la superbiblioteca da 10 mila volumi e agli intimi riservava un’esibizione al pianoforte. Ma non era solo una questione di convenevoli.

Nei primi anni Ottanta il futuro leader di Forza Italia si preoccupò di costruirsi attorno una leggenda da self made man all’americana, da imprenditore che si è fatto da sé grazie alle sue straordinarie capacità di venditore. Nella carriera del nuovo Paperone facevano bella mostra i più diversi mestieri: cantante nel locali da ballo e sulle navi da crociera, fotografo ai matrimoni, piazzista di elettrodomestici. Tutto veniva buono per creare l’immagine dell’uomo d’affari vincente, anche grazie all’uso abilissimo della grancassa dei media. Resta memorabile, a questo proposito, un’intervista rilasciata al mensile Capital nel 1981, dove un Berlusconi in vena di confessioni spiegava come riuscì a far fruttare il piccolo gruzzolo (qualche milione) affidatogli dal padre Luigi, funzionario di banca. Ovviamente la realtà dei fatti risulta un po’ più complessa. Non basta la leggenda per spiegare come il fondatore della Fininvest abbia potuto accumulare una fortuna personale di svariate centinaia di miliardi nel giro di un decennio o poco più: dagli esordi da immobiliarista a metà degli anni Sessanta fino alla fine degli anni Settanta, quando prese il via l’attività televisiva. Per raccontare questa storia servono dati concreti, numeri e percentuali. Ma su tutto questo Berlusconi ha sempre glissato. E allora conviene tornare alla casalinga di Segrate, quella di cui parlò il mensile Espansione nel 1983. La signora in questione si chiama Nicla Crocitto e oggi dovrebbe avere una settantina d’anni. Un giorno di giugno del 1978 alla signora Crocitto venne affidato un compito molto importante. Fu lei a sottoscrivere la quota di maggioranza di 38 società, tutte con lo stesso nome, Holding italiana, e distinte una dall’altra in base a una numerazione progressiva: Holding italiana prima, seconda, terza e così via fino all’ultima della serie. Molte di queste finanziarie negli anni successivi si persero per strada. Furono accorpate tra di loro oppure con altre società.Le prime 22 però, nel loro piccolo, erano destinate a passare alla storia. A ciascuna di queste venne attribuita una piccola quota del capitale della Fininvest. E fino a oggi, a parte un paio di holding fuse di recente tra di loro, la situazione è rimasta la stessa. Ma perché mai fu scelta un’architettura così complessa? Non sarebbe stato più comodo, sull’esempio di tutti i grandi gruppi industriali italiani, cavarsela con un paio di finanziarie di controllo. «Motivi fiscali», questa la spiegazione offerta innumerevoli volte dai portavoce di Berlusconi. Eppure, a ben guardare, in soli bolli e imposte di registro la gestione di ben 22 finanziarie finisce per risultare molto costosa. Piuttosto, se si considerano gli ingenti flussi di capitali transitati dalle holding verso la Fininvest, allora è possibile immaginare una spiegazione diversa da quella ufficiale. Sì, perché anche le somme più ingenti, se divise in 22 parti, danno meno nell’occhio e consentono di mimetizzare al meglio operazioni di grande rilievo finanziario. La signora Crocitto era ovviamente solo una comparsa in una storia molto più grande di lei. Pochi mesi dopo aver posato la prima pietra del futuro impero Fininvest, la casalinga di Segrate si fece da parte. Arriva Berlusconi? Proprio no, perché il capitale delle holding passa a due fiduciarie: la Saf del gruppo bancario Bnl e la Parmafid. Il padrone vero, il miliardario di Arcore, resta ancora dietro le quinte e sulla poltrona di amministratore unico delle finanziarie arriva Luigi Foscale, classe 1915, zio di Berlusconi. A questo punto, e siamo nel dicembre del 1978, la girandola dei miliardi è davvero pronta a partire. Attenzione però, siamo alle prese con una giostra velocissima. I miliardi vanno e vengono, girano a gran velocità da una scatola all’altra. E allora conviene concentrarsi sui movimenti più importanti e lasciar perdere le operazioni di contorno, che rischiano di portarci fuori strada. Che poi, con ogni probabilità, era proprio l’obiettivo di chi ha costruito queste complesse operazioni finanziarie. Così a conti fatti si scopre che tra il 1978 e il 1980, dalle 22 holding transitano circa 82 miliardi di lire. Una somma che vale circa 315 miliardi di oggi. Dove vanno a finire questi soldi? E da dove arrivano?La risposta alla prima domanda è relativamente semplice. Quei flussi finanziari servono ad alimentare la Fininvest, impegnata nel lancio delle televisioni e in svariati affari immobiliari. Al secondo quesito invece non ci sono risposte certe. Francesco Giuffrida, il tecnico della Banca d’Italia che nel 1998 ha svolto una consulenza tecnica per conto della Procura di Palermo sui flussi finanziari delle holding, racconta per filo e per segno gli affari in questione. Raramente però si arriva ad afferrare il bandolo della matassa. A volte perché la documentazione bancaria, a distanza di quasi 20 anni, è andata perduta. Ma, più spesso, perché le operazioni appaiono costruite ad arte per dissimulare la reale provenienza del denaro.Facciamo un esempio e torniamo nell’ottobre del 1979, quando le holding dalla settima alla diciassettesima fanno il pieno di capitali. In totale incassano 11 miliardi, che corrispondono a circa 40 miliardi attuali. E per questo grazioso regalo devono ringraziare la Ponte, una piccola società spuntata dal nulla proprio per rifornire di denaro quelle piccole finanziarie berlusconiane. Dove ha preso quei soldi la Ponte? Mistero, dalle carte ufficiali non si capisce. Quel che si sa per certo è che questa società era amministrata da un anziano signore di nome Enrico Porrà, che per di più era reduce da un ictus. Sembra l’identikit di un prestanome. E Amilcare Ardigò, il commercialista milanese che seguì quell’operazione, ha in effetti confermato agli investigatori della Procura di Palermo che Porrà era al servizio di Berlusconi. Sta di fatto che una volta completata l’operazione, la Ponte sparisce nel nulla. E di questa società risulta smarrita qualunque documentazione contabile. Tempo un paio di mesi e scende in campo la Palina, un’altra società usa e getta intestata a Porrà, che, per la cronaca, è morto nel 1986. Nel dicembre del 1979, dopo soli due mesi di vita, la Palina è già pronta a finanziare le holding (dalla 1 alla 5 e dalla 18 alla 23) per un totale di 27,6 miliardi, cioè oltre 100 miliardi di oggi. È stato Silvio Berlusconi in persona, come risulta dai documenti ufficiali, a disporre l’accredito di quel denaro dai conti bancari della Palina a quelli delle holding. Resta da capire da dove arrivassero i soldi, visto che non c’è traccia della contabilità della Palina, liquidata già nel maggio del 1980. Insomma, la tracce dei finanziamenti si perdono nel nulla. Ed è inutile anche bussare alla porta delle fiduciarie Parmafid, Saf e poi Servizio Italia a cui erano formalmente intestate le quote di controllo delle holding. Già, perché molto spesso le operazioni si svolgevano «franco valuta». Cioè venivano regolate direttamente tra il fiduciante, ovvero Silvio Berlusconi, e le sue holding. Le fiduciarie si accontentavano di una conferma scritta dell’affare, senza parteciparvi direttamente e senza ottenere documentazione contabile.Insomma, Saf e Servizio Italia compravano a scatola chiusa, mentre dietro le quinte il rampante leader della Fininvest dirigeva il traffico dei miliardi. Non era una novità. Facciamo un altro passo indietro fino al 1963, quando Berlusconi, a soli 27 anni, lancia il suo primo progetto immobiliare a Brugherio nell’hinterland milanese. Per gestire l’operazione nasce la Edilnord di Silvio Berlusconi & C., una società in accomandita con un unico finanziatore. E questo finanziatore batte bandiera svizzera. Già, perché nel ruolo di socio accomandante compare la Finanzierungesellschaft di Lugano, una società gestita dall’avvocato ticinese Renzo Rezzonico. Lo schema funziona, se è vero che anche per l’operazione Milano 2, che scatta nel 1968, i capitali di partenza arrivano da Lugano. Per l’occasione nasce la Edilnord di Lidia Borsani & C, finanziata interamente dalla Aktiengesellschaft für Immobilienalangen in Residenzzentren. Quest’ultima ha sede a Lugano ed è gestita da Rezzonico. Lidia Borsani, invece, è una cugina di Berlusconi. La costruzione di Milano 2 viene però portata a termine da una terza società, la Italcantieri, nata nel 1973. Soci fondatori: le finanziarie Cofigen di Lugano ed Eti di Chiasso.A questo punto chi fosse dotato di molto tempo e di grande buona volontà potrebbe risalire di scatola finanziaria in scatola finanziaria nel complicato organigramma che sta dietro queste ultime due finanziarie. Si imbatterebbe in banche e fiduciarie, in società non sempre al di sopra di ogni sospetto per via dei loro rapporti con il riciclaggio di denaro sporco. Tutto questo però non basterebbe a risolvere il mistero della reale provenienza del denaro che ha permesso il finanziamento delle prime iniziative immobiliari di Berlusconi. Da sempre il sistema bancario elvetico è organizzato in modo da rendere praticamente impossibile ricostruire le fonti del denaro. E nella gran massa di capitali che prendono il volo verso gli accoglienti forzieri della Confederazione spesso si mescolano capitali di provenienza criminale e denaro frutto di evasione fiscale. Senza contare che nell’Italia degli anni Settanta la legge puniva gli esportatori di capitali. E quindi centinaia di imprenditori che avevano depositato parte delle loro fortune in Svizzera, quando avevano bisogno di capitali in Italia spesso si affidavano agli spalloni oppure si servivano di società schermo con base oltreconfine. Tutto questo per eludere i controlli della Guardia di finanza.Anche Berlusconi, a dire il vero, fu sottoposto a una indagine delle Fiamme Gialle già nel 1979. Interrogato dagli investigatori nel novembre di quell’anno, l’attuale leader di Forza Italia si descrisse come un semplice consulente della Edilnord, un «progettista» a cui era stato affidato «l’incarico professionale della progettazione e della direzione generale del complesso residenziale di Milano 2». Berlusconi aveva anche prestato delle garanzie personali a favore della Edilnord presso le banche creditrici. Piuttosto strano per un semplice progettista. Anche su questo punto, interrogato dalla Guardia di finanza, il padrone della Fininvest aveva la riposta pronta. Eccola: «Non ho avuto alcuna difficoltà a prestare fideiussioni, apparendomi anzi tale fatto come una possibilità di acquisire benemerenze nei confronti delle mie principali clienti, con la sicurezza di non incorrere in alcun rischio, essendo io a perfetta conoscenza della solvibilità e delle serietà» di queste società.Così parlò Berlusconi, tradotto nel burocratese della Guardia di finanza. A voler credere a questa versione, un semplice progettista avrebbe prestato garanzie personali per centinaia di milioni nei confronti di società sue clienti per fare bella figura nei loro confronti. E le banche avrebbero accettato senza batter ciglio. La Guardia di finanza però prende questo racconto per oro colato. E archivia l’accertamento valutario che ipotizzava che la Edilnord centri residenziali dipendesse da una società off shore. «Non è emerso alcun elemento comprovante che nella persona del dottor Berlusconi si possa identificare l’effettivo soggetto economico delle società estere Afire (che sta per Aktiengesellschaft für Immobilienanlagen in Residenzzentren, ndr) di Lugano e Cefinvest di Lugano». Resta una ciliegina sulla torta. A raccogliere le dichiarazioni di Berlusconi fu un capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria. Il suo nome è Massimo Maria Berruti, che negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò a lungo per conto del gruppo Fininvest. Ora è deputato. Il partito? Forza Italia.
http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/berlusconi/odore.html

La Cei: «Libertinaggio irresponsabile non è un affare privato»


Il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Mariano Crociata.
ROMA - Lo sfoggio di un «libertinaggio gaio e irresponsabile» a cui oggi si assiste, non deve far pensare che «non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori»: lo ha detto il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons.Mariano Crociata, in una omelia pronunciata a Le Ferriere di Latina in occasione di una celebrazione in memoria di Santa Maria Goretti.
COMPORTAMENTI SESSUALI SFRENATI - «Assistiamo ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo - ha detto mons. Crociata condannando la «»sfrenatezza e sregolatezza» nei comportamenti sessuali in opposizione alle virtù della santa - e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria, con cui fin dall'antichità si è voluto stigmatizzare la fatua esibizione di una eleganza che in realtà mette in mostra uno sfarzo narcisista; salvo poi, alla prima occasione, servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata a parole e con i fatti, per altri scopi, di tipo politico, economico o di altro genere». «Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati - ha aggiunto il segretario della Cei - soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio». Secondo Crociata, si è di fronte a un paradosso, essendo oggi arrivati «ad agire e a parlare con sfrontatezza senza limiti di cui si dovrebbe veramente arrossire e vergognare», mentre si arrossisce - aggiunge citando San Paolo - per tutto quello che «è vero, nobile e giusto».«Qui non è in gioco - conclude - un moralismo d'altri tempi, superato» ma «è in pericolo il bene stesso dell'uomo». «Dobbiamo interrogarci tutti - ha detto ancora - sul danno causato e sulle conseguenze prodotte dall'aver tolto l'innocenza a intere nuove generazioni».
06 luglio 2009

Lettera di minacce a Berlusconi.

Il nostro pagliaccio-premier, oltre al conflitto di interessi, ha anche un problema ancor più grave, quello della ricattabilità.
Come può un capo di governo, passibile di ricatti, governare un paese in tutta tranquillità?
Un uomo "disturbato" da tanti problemi, rendendosi conto di non avere la mente serena, si dimetterebbe dall'incarico.
Ma lui ovvia al problema e aggira l'ostacolo facendosi costruire addosso una legge: il Lodo Alfano.
Mi domando: perchè? Quali sono i motivi che lo obbligano a restare in quel posto tanto "scomodo"?E, soprattutto, "chi" lo obbliga?
Forse la lettera ritrovata dopo anni ci potrebbe spiegare il motivo di questa sua "costrizione" più che voglia di restare abbarbicato a quella poltrona divenuta scomoda.
La lettera, a quanto pare scritta dai corleonesi di Riina, doveva essere consegnata a Provenzano che l'avrebbe a sua volta recapitata a Ciancimino, che avrebbe dovuto consegnarla a Dell'Utri per poi finire nelle mani di Berlusconi........
Come tutto si ricollega alla Banca Rasini, tra i cui correntisti c'erano proprio Provenzano e Riina!
Come diventa chiara anche la provenianza del denaro che nel giro di appena una decina d'anni, l'ha fatto diventare l'Epulone miliardario di oggi.
Ed ecco spiegato anche il motivo per cui la mafia gli chiede un canale televisivo, pena il verificarsi di un fatto luttuoso.
La mafia vuole la controparte, la mafia "pretende un corrispettivo".
Mi domando anche: come mai la magistratura, con tutte le prove a disposizione, non è ancora riuscita a incastrarlo?
Che sia imbavagliata e sottoposta a ricatti anche buona parte della magistratura?
Che siano "ricattabili" tutti al governo?
E noi cittadini, se tutto ciò fosse vero, di chi possiamo fidarci?
Siamo stati venduti, in blocco, alla mafia?

La bicamerale del piacere.

di Peter Gomez e Antonio Massari da L'espresso in edicola

Da Silvio Berlusconi agli uomini di Massimo D'Alema. Giampi li aveva sedotti tutti con le sue donne, i suoi viaggi, la sua vita perennemente sopra le righe. È una sorta di bicamerale degli affari e del piacere quella che emerge dalle inchieste condotte dalla procura di Bari su Giampaolo “Giampi” Tarantini, il giovane imprenditore della sanità che, a partire dall'estate 2008, ha reso felice il premier presentandogli decine di escort, starlette e aspiranti dive della tv. E gli effetti cominciano a farsi sentire. Mentre il presidente del Consiglio resta asserragliato nel suo bunker contando di superare indenne anche lo scoglio del G8, in Puglia il presidente della Regione, Nichi Vendola, azzera la sua giunta di sinistra e sventola la bandiera della questione morale.Sotto accusa finiscono così gli uomini del Partito democratico più legati a Tarantini: l'ex assessore alla Sanità, Alberto Tedesco e il vice presidente e assessore all'Industria, Sandro Frisullo. Due potenti politici locali piazzati dai dalemiani sulle poltrone chiave del governo regionale.
Frisullo paga i rapporti con Giampi e soprattutto con le sue amiche, a partire da quelli con Terry De Nicolò, una barese da poco trapiantata a Milano, che a L'espresso dice: «No, con in giornali non parlo. Mi hanno contattata in molti, dai quotidiani ai settimanali, ma per concedere un'intervista avrei bisogno di un supporto legale ed economico. Perché se mi querela Berlusconi, io poi cosa faccio?». Terry, in ogni caso, è una delle quattro ragazze già ascoltate dagli investigatori. Poche rispetto alla reale ampiezza della corte di Giampi. L'espresso ha ricostruito un elenco di almeno altri 17 nomi. Ne fanno parte anche l'ex direttrice di un celebre locale nella Costa Smeralda, una protagonista di reality, un'addetta al casting per programmi tv, una giocatrice di tennis semiprofessionista e alcune straniere: una rumena, una polacca, una dominicana, una ballerina brasiliana e una senegalese.Al centro di tutto, comunque, più che le storie di donne, restano gli interrogativi legati agli appalti. I più pesanti riguardano il ruolo di Tedesco. L'ex assessore è da tempo indagato. I pm lo accusano di aver brigato e fatto pressioni su funzionari regionali per favorire imprese che fanno capo a amici e familiari. E adesso tra le forniture finite nel mirino dei magistrati ce ne sono pure due, da due milioni e mezzo di euro, vinte dalle imprese di Tarantini. Per gli investigatori potrebbe non essere un caso. Secondo loro, anche negli anni della giunta Vendola, il sistema politico affaristico della sanità ha continuato a funzionare (sebbene a ritmi più blandi) secondo schemi collaudati nel periodo in cui governava l'attuale ministro del Pdl, Raffaele Fitto. Insomma stesse modalità, ma, Tarantini a parte, protagonisti diversi.Esemplare è quanto è accaduto nel settore delle cliniche convenzionate con la regione. Qui con l'arrivo di Tedesco fanno prepotentemente ingresso una serie d'imprenditori considerati vicini ai dalemiani. Oggi, come L'espresso è in grado di rivelare, la Guardia di Finanza sta cercando di mettere a fuoco la figura di Francesco Ritella, 35 anni, ritenuto il «dominus» della Kentron, che a Putignano gestisce un centro di riabilitazione per 120 pazienti. Nel 2006 il centro, pur non avendone i requisiti, viene accreditato prima ancora che siano terminati i lavori di costruzione della struttura. Dietro tutto l'inghippo ci sono interessi economici e politici. Non per niente nel caso dell'accreditamento di un'altra clinica a essere favorita, secondo i pm, è una società che vanta tra i suoi fornitori addirittura l'azienda del fratello di Tedesco. In questo ambiente Tarantini si trova a suo agio. Non solo perché è amicissimo dei figli di Tedesco (che come lui vendono protesi), ma anche perché una sua azienda - controllata al 50 per cento - detiene parte del capitale di una società specializzata in produzione di energia. Anche questa società, la Prod.eco, è una sorta di bicamerale: tra gli altri soci figurano un consigliere regionale dell'Udeur e una donna da sempre vicinissima a Ritella. Nell'aprile di quest'anno le quote dell'amica di Ritella vengono cedute a una compagnia di catering che proprio in quel periodo ottiene il servizio ristoro per i carabinieri che saranno di stanza all'Aquila in occasione del G8.Sono le settimane in cui Giampi, grazie alla sponsorizzazione di Berlusconi, viene presentato ai vertici della protezione civile e di altri ministeri. È il periodo in cui, da semplice venditore di protesi, si è ormai trasformato in lobbista. Una metamorfosi rimasta impressa sui nastri delle intercettazioni telefoniche della Finanza. Intercettazioni che hanno anche permesso di ascoltare in presa diretta le visite a Palazzo Grazioli di Patrizia D'Addario, l'escort barese reclutata da Tarantini per ingraziarsi il Presidente del Consiglio. Sono quelle trascrizioni, sommate alle registrazioni e ai filmati effettuati dalla donna nella residenza del cavaliere, a rendere Patrizia una testimone attendibile. Nel suo passato, nel 1996, la escort era infatti già incappata in una condanna per truffa e concorso un calunnia, un reato che per ironia della sorte le verrà contestato dalla procura di Bari anche nei giorni della sua deposizione su Berlusconi. Ma le presunte vittime, in questo caso, non sono politici, bensì tre poliziotti delle volanti che Patrizia avrebbe falsamente accusato dopo una multa per un'auto in sosta vietata. Era il 2007 e la donna avrebbe detto tra l'altro «lasciatemi andare, chiamo i giornalisti, ve la faccio pagare cara».

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Quelle ditte sospette al lavoro sul piano Case.

Angelo Venti

ASPETTANDO IL G8 — Già nel primo cantiere appaiono forti dubbi su una delle aziende coinvolte nella ricostruzione. Le domande sono: chi controlla chi? E l’autocertificazione può bastare? —
Aperti i cantieri per la realizzazione delle new town sbandierate da Berlusconi e temute dagli aquilani. Nei pressi di Bazzano e Sant’Elia, lungo la statale 17 che da L’Aquila porta a Onna, la frazione che è diventata il simbolo del terremoto del 6 aprile, si lavora giorno e notte per poter dimostrare ai grandi, che durante il G8 percorreranno questa strada, che la ricostruzione è finalmente partita.
Ma è proprio il cartello per i “Lavori relativi agli scavi e ai movimenti di terra lotto TS”, esposto in bella mostra all’ingresso del cantiere, che fa sorgere i primi dubbi sui controlli di trasparenza da parte della Protezione civile nell’assegnazione degli appalti e sui rischi che possono derivare dalla fretta e dall’emergenza. Questo appalto è stato aggiudicato a diverse imprese marsicane riunite in Ati.
La capogruppo è la P.R.S. produzione e servizi srl di Avezzano, mentre le imprese mandanti sono la Idio Ridolfi e figli srl di Avezzano (che lavora anche all’adeguamento dell’Aeroporto di Preturo per il G8); la Codisab srl di Carsoli; la Ing. Emilio e Paolo Salsiccia srl di Tagliacozzo e infine la Impresa di Marco srl con sede a Carsoli, via Tiburtina km. 70,00. Ed è proprio quest’ultima società che fa tornare alla mente l’operazione “Alba d’oro” di Tagliacozzo - che gli inquirenti hanno definito come il primo «caso conclamato di presenza mafiosa in Abruzzo».
Proprio qui, il 16 marzo scorso, i Gico della Guardia di finanza hanno arrestato tre imprenditori del luogo con l’accusa di aver reinvestito, attraverso la società “Alba d’oro”, capitali provenienti dal cosiddetto “tesoro di Vito Ciancimino”. Precisiamo subito che sia l’impresa Di Marco che i suoi soci non risultano coinvolti in nessun processo relativo alle infiltrazioni criminali in Abruzzo, ma alcuni particolari meritano di essere ricordati e approfonditi, perché testimoniano delle strategie di penetrazione in Abruzzo da parte del gruppo riconducibile a Lapis e Ciancimino.
Costituita nel lontano 1993, l’Impresa di Marco srl conta circa 20 dipendenti, ha un capitale sociale di 130mila euro, l’amministratore unico è Dante di Marco, mentre i soci sono Gennarino ed Eleana di Marco e Dante di Marco. Quest’ultimo risulta anche come socio fondatore della Marsica plastica srl, (con sede a Carsoli, insieme a Giuseppe Italiano, Tommaso Vergopia, Achille Ricci, Roberto Mangano, Dante di Marco, Wolfgang Scholl, Marilena Lo Curto ed Ermelinda di Stefano.
Alcune precisazioni: Italiano figura anche in uno dei pizzini di Provenzano, Di Stefano è la moglie di Gianni Lapis, Mangano è uno degli avvocati di Ciancimino al processo di Palermo mentre Achille Ricci è uno degli imprenditori tagliacozzani arrestati, insieme a Nino Zangari e Augusto Ricci, nell’operazione “Alba d’oro” del marzo scorso.
La Marsica plastica srl fu costituita presso uno studio notarile di Avezzano nel 2006, insieme alla Ecologica abruzzi srl. Entrambe le società dovevano operare nel settore della produzione di energia e dei rifiuti e, insieme alla Ricci e Zangari srl, avevano costituito il Consorzio A.R.S., sempre con sede a Carsoli allo stesso indirizzo.


http://www.terranews.it/news/2009/06/quelle-ditte-sospette-al-lavoro-sul-piano-case