mercoledì 6 luglio 2011

Provincia di Milano, concorso con il trucco. Lo scandalo del dg per l’agenzia del Lavoro. - di Martino Valente




Luigi Degan all'agenzia per il lavoro ma senza titoli. C'è un esposto in Procura. Incarico da 130mila euro l'anno all'uomo del presidente Podestà. Ma dal notaio il nome era già scritto da un mese. E intanto si licenziano i precari.

Indovina chi viene in Provincia. Un gioco facile facile: arriva l’uomo di fiducia del presidente. Facile al punto che i consiglieri sospettosi possono andare da un notaio, depositare quel nome con largo anticipo e attendere con tutta calma l’esito del concorso. Risultato: all’apertura delle buste, il più qualificato è… l’uomo del presidente. E scatta l’esposto in Procura.

Tutto questo succede in Provincia di Milano dove il 31 gennaio scorso è ufficialmente partita la procedura di evidenza pubblica per individuare il nuovo Direttore generale dell’Agenzia per la formazione e il lavoro (Afol), l’ente che gestisce gli ex sportelli provinciali del lavoro.

La nomina di Luigi Degan è stata al centro di una doppia partita, durissima, tra maggioranza e opposizione in consiglio e tra correnti dello stesso Pdl al chiuso dellufficio di presidenza. In pratical’affaire Afol ha anticipato lo strappo tra Podestà stesso e i reggenti del centrodestra locale Casero eMantovani, con il primo che avrebbe cercato di imporre a tutti i costi l’uomo di fiducia e gli altri intenzionati a vendere cara una poltrona che vale 130mila euro l’anno per tre anni.

Risultato: un pasticcio su tutti i fronti. Che nella puntata di oggi, grazie all’iniziativa di Matteo Mauri e Ezio Casati (Pd) ha il suo epilogo più divertente e preoccupante con dieci righe che inchiodano Podestà e il suo favorito. Il documento è una scrittura depositata con atto notarile il 9 febbraio scorso, cioé appena aperta la gara per il posto da direttore generale. Il testo non lascia spazio a dubbi: “I sottoscritti consiglieri provinciali Casati e Mauri, informati che Afol Milano ha indetto un bando per la ricerca delle figura del Direttore generale dell’Agenzia, dichiarano di essere venuti a conoscenza che il vincitore sarà il dott. Luigi Degan. (…) Se il nome scelto sarà quello indicato, si manifesterebbe una gravissima violazione delle più elementari regole di trasparenza”.

Un mese dopo, il 4 marzo, il cda di Afol nomina il nuovo direttore: Luigi Degan.

E non è tutto. Perché se nella nomina c’è il trucco, questo sembra avere un pari corrispettivo nei requisiti del bando o nelle credenziali del proponente. Così i consiglieri chiedono formalmente di ottenere tutte le carte utili a verificare le competenze del nuovo dg. Ma gli viene negato. Si rivolgono alPrefetto che impone alla Provincia di mettere a disposizione tutti gli atti. E viene fuori di tutto. Degan risulta persona qualificata, certo, peccato che il suo cv sia stato “gonfiato” ad arte perché avesse i requisiti che altrimenti non avrebbe mai avuto, secondo i consiglieri, per ricoprire quella posizione.

A dirlo non sono solo i detrattori del dirigente ma i suoi stessi datori di lavoro. L’elenco delle esperienze curricolari poi risultate false e mendaci è ora al vaglio della magistratura. Nel mirino finisce la sua esperienza presso il Centro studi Adapt, Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazione industriali, dal 2002 al 2004 e presso Confindustria Bergamodal 2007 al 2011. Queste esperienze, riporta l’esposto, oltre ad essere evidentemente non aderenti al profilo ed ai requisiti di ammissione richiesti, risultano anche non veritiere.

Presso Confindustria, è risultato dalle indagini successive, Degan era un semplice funzionario amministrativo e presso Adapt svolgeva un lavoro di classico “assistente universitario”. Non certo quel ruolo di “coordinamento direzionale di strutture tecnico direzionali” con il quale si è assimilato il lavoro di Degan al requisito del bando nel “vantare una qualificata e pluriennale esperienza, di almeno 5 anni, nel coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse, con poteri di direttiva e spiccate competenze nel ramo del lavoro e della Formazione Professionale”.

A rivelare quanto poco aderente al vero fossero gli incarichi di Degan, si diceva, sono le lettere dei suoi datori di lavoro. Per gli anni dal 2002 al 2004, ad esempio, l’esposto presenta una dichiarazione del Professor Michele Tiraboschi, direttore scientifico di Adapt, in risposta ad una richiesta ufficiale del Presidente della Commissione Garanzia e Controllo della Consiglio provinciale che pur esprimendo apprezzamenti circa il lavoro svolto dal Degan presso Adapt, escluda che questi abbia svolto alcuna attività di coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse con poteri di direttiva e tanto meno di spesa come chiedeva il bando provinciale e attestava il cv del candidato. Adapt al tempo inoltre, per stessa dichiarazione del professor Tiraboschi, era una esile struttura che contava tre dipendenti, alcune collaborazioni e stagisti. Altro che “struttura tecnico gestionale complessa”.

Duro il commento di Matteo Mauri (Pd) che, oltre a svelare il trucco, pone l’accento sui problemi dei lavoratori Afol sui cui si è abbattuta la forbice della Provincia: “Qui c’è in ballo anche la sorte di 27 lavoratori precari di Afol che l’amministrazione guidata da Podestà ha lasciato a casa. Senza dimenticare che una riduzione di personale così elevata sta causando anche grossi problemi al servizio fornito dall’agenzia. Ne hanno fatto recentemente le spese gli insegnati precari che si sono recati nei giorni scorsi negli uffici di viale Jenner per presentare domanda di disoccupazione. Oltre 700 persone hanno fatto la fila sotto il sole. Un vero pasticcio, le cui conseguenze le stanno pagando i lavoratori precari e i disoccupati”.

Insomma, da una parte si regala e dall’altra si taglia.



E la Lega chiamò il Colle: non ne sapevamo nulla. Pronti ad aprire la crisi. Fiorenza Sarzanini.


La rabbia di Maroni: «È una vicenda che ci imbarazza»

Maroni
Maroni
ROMA - Nella bozza di decreto consegnata al termine del Consiglio dei ministri e inviata all'ufficio legislativo del Viminale, l'articolo 37 non c'era. Ma soprattutto non c'era alcun altro articolo che contenesse la norma ormai ribattezzata «salva Fininvest», come hanno potuto verificare gli esperti giuridici incaricati da Roberto Maroni di controllare il testo. La stessa cosa si può dire per il dicastero delle Riforme guidato da Umberto Bossi e per quello alla Semplificazione di Roberto Calderoli. Ed è proprio quando arriva la conferma dei «tecnici» su questa «mancanza» che l'ira dei leghisti esplode. Perché la scelta di Palazzo Chigi di inviare al Quirinale un provvedimento diverso da quello concordato durante la riunione dell'esecutivo di giovedì scorso viene vissuta come uno schiaffo, l'ennesimo, agli alleati. E dunque è bastato un rapido giro di consultazione telefonica tra i leader del Carroccio per decidere la linea: o la norma viene ritirata o si va a casa.


La decisione presa dai leghisti ieri di primo mattino è quella di fare quadrato contro l'iniziativa del premier, soprattutto tenendo conto che nessuno di loro era stato neanche preavvisato dell'intenzione di Silvio Berlusconi di inserire nella manovra economica quel codicillo che lo può mettere al riparo - almeno fino al giudizio della Corte di cassazione - dal pagamento del risarcimento danni alla Cir dell'ingegner Carlo De Benedetti. Si discute di tattica, ma anche di strategia. E si stabilisce di procedere senza prendere alcuna posizione pubblica, dunque evitando dichiarazioni.
Maroni vola a Zagabria per un bilaterale su traffico di droga, immigrazione e terrorismo, ma rimane costantemente in contatto con i colleghi di partito e in particolare con Bossi. Il «capo» dispone le mosse, ma preferisce restare in retrovia. È Calderoli a incaricarsi di tenere aperta la linea con il Colle per manifestare la contrarietà forte del Carroccio. Le indiscrezioni parlano di un suo colloquio con il capo dello Stato Giorgio Napolitano subito dopo il funerale solenne del militare italiano ucciso in Afghanistan per confermargli come la Lega sia stata tenuta all'oscuro fino alla fine. Una conversazione nella quale il presidente della Repubblica sarebbe stato informato della volontà di appoggiare la sua eventuale scelta di non firmare la norma, ma soprattutto della determinazione ad arrivare anche a una crisi di governo qualora Berlusconi avesse deciso di non fare marcia indietro.
«È una vicenda che ci imbarazza - si sfoga Maroni con i suoi - perché è l'ennesima volta che ci troviamo di fronte a una legge che i cittadini non possono comprendere, ma soprattutto che noi non possiamo in alcun modo far passare». Parla di imbarazzo, ma si capisce che il suo stato d'animo è ben diverso. Perché gli impegni presi a Pontida con la «base» del Carroccio sono chiari e non si può rischiare di perdere ulteriore consenso. Ma anche perché i leghisti si sentono letteralmente «truffati», visto che nessun cenno a questo provvedimento è mai stato fatto durante le riunioni degli ultimi giorni, comprese quelle ufficiali.

Non a caso nelle telefonate del mattino, oltre a decidere la linea dura, si concorda sulla necessità di conoscere l'identità di chi abbia materialmente provveduto a scrivere il testo e soprattutto chi fosse stato informato. «Tremonti - insiste Maroni - deve per forza averlo saputo visto che è toccato a lui trasmettere il decreto al Quirinale. Come può aver dato il via libera? Non ha compreso quali conseguenze poteva avere? E Berlusconi, come poteva pensare di farla franca?». La scelta del ministro dell'Economia di annullare all'ultimo momento la conferenza stampa per la presentazione della manovra fa ben comprendere il suo disappunto e questo ammorbidisce i leghisti nei suoi confronti. Ma ancora ieri sera appariva chiaro come la decisione del premier di annunciare il ritiro della norma, spiegata in una telefonata a Maroni, non sarà sufficiente a placare gli animi e a spegnere le tensioni che questo tentativo di colpo di mano dello stesso Berlusconi ha provocato nel governo e nella maggioranza.


Sospetti e veleni sul comma cancellato. Francesco Verderami.



Il colloquio Berlusconi-Tremonti, il ruolo degli avvocati: la storia segreta della norma.

La verità sulla norma «salva Fininvest» non esiste, è un intrigo che si basa su alcuni indizi e moltissimi sospetti, rivela la durezza dello scontro tra il premier e il ministro dell'Economia.
La storia segreta del «comma 23» è l'ennesima sconfitta «ad personam» di Berlusconi, offre la plastica rappresentazione di come i nodi politici, giudiziari e ora anche finanziari si sono intrecciati, trasformandosi in un cappio che rischia di asfissiare il Cavaliere. E non c'è dubbio che sia stato lui a mettere il collo in questa corda, è lui infatti che alla vigilia della sentenza sul Lodo Mondadori ha chiesto uno scudo giuridico da inserire nella manovra per evitare di pagare subito il conto a De Benedetti, nel caso fosse condannato in appello dal Tribunale di Milano.


È Berlusconi al centro della vicenda, ma in pochi nel governo possono realmente dire di non averne mai saputo nulla. Molti hanno solo girato la testa. In principio è l'avvocato Ghedini a spingere perché il premier ottenga dal ministero della Giustizia, dunque da Alfano, un rimedio tecnico al problema. Da un anno se ne discuteva nelle riunioni riservate a Palazzo Grazioli, per un anno la questione era stata accantonata. A tempo scaduto si cerca una soluzione d'emergenza, e sebbene il Guardasigilli si mostri titubante, viene individuato un «gancio legislativo» nella modifica di alcuni articoli del codice civile, con cui si mira a velocizzare i processi.
Non è vero però che la norma «salva Fininvest» viene inserita all'ultimo momento, «non è stata certo aggiunta di soppiatto», racconta un ministro: sta infatti nelle pieghe di questo capitolo della manovra, nell'articolo 37. E c'è un indizio che lo dimostra: il tema viene discusso alla riunione di martedì 28 giugno del pre-Consiglio, e già in quella sede i tecnici ravvisano problemi di costituzionalità. Già in quelle ore scatta l'allarme al Colle. Nel corso dei rituali contatti tra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e dei ministeri con il Quirinale, la presidenza della Repubblica anticipa la propria contrarietà a una simile norma: è un altolà preventivo, il preavviso di un possibile scontro.


E si capisce come mai il Guardasigilli ieri spiegava che non c'era nè ci poteva essere «alcun sotterfugio»: d'altronde non era pensabile che un provvedimento di tale portata sfuggisse allo staff di Napolitano. Se così stanno le cose, non si comprende perché il premier decida di insistere, e con quali garanzie. Regna ancora l'incertezza quando giovedì 30 giugno si arriva al Consiglio dei ministri convocato per la manovra. La riunione viene a un certo punto sospesa in modo da trovare un compromesso sulla norma per i tagli ai costi della politica. Trovata l'intesa, però, il Consiglio non riprende subito, perché nel salone di palazzo Chigi mancano all'appello Berlusconi e Tremonti.
Ricorda un ministro come «in quel momento tutti abbiamo avuto la netta percezione che qualcosa non andasse». Dopo mezz'ora i due rientrano nel salone di Palazzo Chigi. È a quel colloquio che viene fatta risalire l'intesa sulla norma «salva Fininvest». Un indizio, a cui si aggiunge un interrogativo che porta a verità contrastanti: il titolare dell'Economia ha solo accettato quell'articolato o - come sostengono i fedelissimi del Cavaliere - è stato lui a riscrivere il testo, inserendo quel tetto di venti milioni che l'ha resa una evidente norma «ad aziendam»?


Una cosa è certa, Tremonti sapeva. Il resto sono accuse che Berlusconi gli rivolge contro, intingendo l'ira nel sospetto. «Chiedetevi chi ci guadagna da questo disastro», urlava ieri sera, puntando l'indice contro il padre di una manovra che «ci ha fatto perdere il gradimento del 65% del nostro elettorato»: «Se pensa di arrivare così a Palazzo Chigi può scordarselo». Il premier - a proposito del provvedimento - sostiene di aver chiesto al superministro di «avvisare la Lega sui dettagli», come a dire che sulle linee generali i rappresentanti del Carroccio erano a conoscenza dell'operazione.
Ecco come si giunge alla stesura definitiva della manovra, ed è in questo passaggio che compare sulla scena Gianni Letta, fino ad ora rimasto formalmente ai margini della trattativa sulla «norma salva Fininvest». Ma è possibile che il braccio destro di Berlusconi, l'uomo che conosce tutti i risvolti del Lodo Mondadori, non sapesse della mossa disperata del Cavaliere? Anche se così fosse, è stato l'ultimo a leggere il testo della manovra prima di inviarla al Colle. E se è vero che ieri il sottosegretario alla Presidenza rimarcava come la vicenda fosse stata gestita «malissimo», dato che «non si presenta una simile norma senza averla concordata con il Quirinale», come mai non ha bloccato anzitempo il premier?

A Letta è toccato gestire l'ultima trattativa con Napolitano, quando ormai si trattava solo di recuperare i cocci. A Letta è toccato informare Berlusconi che per il capo dello Stato non c'era altra soluzione che ritirare la norma. A Letta è toccato sentire lo sfogo del Cavaliere, che si sente vittima del «banditismo politico-giudiziario» dei magistrati milanesi, che sente approssimarsi una «sentenza di condanna già scritta», e che - in un moto di sfida - ha commentato: «E se ora io non firmassi la manovra?». La storia segreta del «comma 23» è l'ennesima sconfitta «ad personam» del premier, una sconfitta che ha molti padri ma alla fine un solo colpevole: Berlusconi.


Via norma sul lodo Berlusconi: 'La ritiriamo'. - di Yasmin Inangiray



Berlusconi: 'Ma era norma giusta, polemiche dell'opposizione sono vergognosa montatura'.


ROMA - Una norma "giusta e doverosa" che però sarà "ritirata". Al termine di un giornata convulsa fatta di contatti febbrili tra Palazzo Chigi ed il Quirinale, Silvio Berlusconi prende la decisione di fare un passo indietro ed evita così lo scontro frontale con il Capo dello Stato che aveva chiesto, senza mezzi termini, una marcia indietro sul cosiddetto lodo Mondadori inserito in sordina nella manovra.

l premier affida ad una nota l'annuncio della cancellazione delle tanto discusse 'tre righe' rivendicando però l'impianto deL provvedimento: Si tratta - spiega - di una norma non solo giusta, ma doverosa specie in un momento di crisi dove una sentenza sbagliata può creare gravissimi problemi alle imprese e ai cittadini". Rispedita poi all'opposizione l'accusa di aver pensato che 'la mossa a sorpresa' servisse per mettere al riparo Madiaset nella sentenza sul lodo Cir-Fininvest: "Conoscendo la vicenda sono certo - mette in chiaro con una certa sicurezza il Cavaliere - che la Corte d'Appello di Milano non potrà che annullare una sentenza di primo grado assolutamente infondata e profondamente ingiusta. Il contrario costituirebbe un'assurda e incredibile negazione di principi giuridici fondamentali". La nota ufficiale, se ha lo scopo di riallacciare un filo di dialogo con il Colle che ha espresso anche altre criticità al testo, anche sui temi dell'Ice e delle quote latte (secondo fonti della maggioranza), mette fine ai mal di pancia di Umberto Bossi che si è messo di trasverso facendo arrivare alle orecchie del Cavaliere la sua contrarietà ad un provvedimento subito ribattezzato come una nuova legge 'ad personam'.

I sospetti però su cosa sia realmente avvenuto tengono banco nei conciliaboli in Transatlantico. Molti ministri del Pdl non esitano a descrivere un premier irritato per l'ennesimo trabocchetto creato da Giulio Tremonti con il placet dello stesso Carroccio. Se infatti molti pidiellini sono convinti che il provvedimento fosse frutto di un lavoro ristretto tra Berlusconi e Angelino Alfano, nessuno mette in dubbio che anche il Tesoro essendo l'estensore del provvedimento fosse all'oscuro del 'coup de theatre'.

Il superministro, è il ragionamento dei più maligni, avrebbe acconsentito all'inserimento sapendo che dal Quirinale sarebbe arrivato lo stop. In più la presa di distanza del titolare di via XX Settembre dalla norma stessa, è il ragionamento di un ministro del Pdl, la dice lunga sui rapporti con il capo del governo. "Se c'é una norma, l'abbiamo votata tutti. Io non so se c'é...E' la tesi del ministro dell'Agricoltura Severio Romano. Ancora più criptico Roberto Calderoli: "Non posso commentare ciò che non ho visto...e letto". Con i suoi fedelissimi il Cavaliere per tutto il giorno chiuso a palazzo Grazioli è tornato ad accusare quella parte di magistratura che, a suo dire, continua a perseguitarlo ed il risarcimento da De Benedetti ne sarebbe un esempio. Tant'é che ai suoi uomini non avrebbe nascosto l'ipotesi di dover vendere le aziende in caso la sentenza fosse a suo sfavore.

Lo stralcio del provvedimento fa comunque tirare un sospiro di sollievo a chi nella maggioranza, e cominciavano ad essere in tanti, già immaginava, con un certo imbarazzo, una nuova battaglia con il Quirinale, ma soprattutto fa gridare vittoria all'opposizione. "Si tratta di una norma vergognosa", accusa il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che poi si chiede "quale manina metta sempre delle norme ad hoc in ogni procedura". Critico anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini che parla di "balletto indecoroso". Pollice verso anche dal leader dell'Idv Antonio Di Pietro: "Berlusconi, colto con le mani nel sacco, ha deciso di ritirare la norma salva Mondadori. Oggi l'ha fatto . si chiede l'ex pm - perché domani vuole ripresentarne un'altra simile?"

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2011/06/25/visualizza_new.html_812860497.html

martedì 5 luglio 2011

Ecco come buttano i tuoi soldi. di Primo Di Nicola




Cene di gala per tutti. Concorsi e premi inutili. E, naturalmente, consulenze a go-go. Avevano promesse di abolirle, ma sono ancora lì: a spendere più che mai.

Sono nel mirino come il più inutile degli organismi statali. E puntualmente finiscono nell'occhio del ciclone quando si parla di tagli ai costi della politica. C'è chi ne invoca la cancellazione per l'inconsistenza delle funzioni che svolgono e chi per risparmiare le troppe risorse che bruciano. Invece le province sono sempre là: insaziabili centri di potere capaci come pochi altri di dilapidare risorse per gli scopi più singolari.
Valva è un paesino della Valle del Sele, in provincia di Salerno.

Nell'agosto del 2009, l'estate degli scandali sessuali di Silvio Berlusconi, fu lì che a Noemi Letizia, la perla del suo "harem", nell'ambito del "Valva Film Festival" fu consegnato un premio alla carriera "Per il talento che verrà". Peccato che quel festival e quell'inutilissimo premio siano stati finanziati dalla provincia di Salerno. Che per l'occasione, per mano del suo presidente Edmondo Cirielli, deputato Pdl, ha staccato un assegno da 25 mila euro. E che dire della mega-cena per 500 operatori turistici e politici pagata dalla provincia di Lecco per ospitare una conferenza sul turismo? La manifestazione è costata 140 mila euro (più Iva) e per qualche giorno ha portato la città sulla ribalta nazionale. Lecco non è stata infatti scelta a caso: il ministro per il Turismo Michela Vittoria Brambilla abita a sette chilometri dalla città e per lei l'evento si è rivelato un'ottima vetrina elettorale visto che ci è arrivata in barca, con tanto di orchestrina e telecamere Rai al seguito.

Da Lecco a Milano, la musica è sempre la stessa. Come dimostra un finanziamento del presidente della Provincia Guido Podestà all'Associazione Occidens per la presentazione del libro "Lucchesità Vizi e Virtù". Argomento lontanissimo dagli interessi dei milanesi. Come mai allora Podestà ci ha messo 10 mila euro? Forse perché Occidens viene da Lucca, città natale del suo presidente onorario Marcello Pera, ex presidente del Senato, ma soprattutto compagno di partito dello stesso Podestà, uno che per gli amici si è sempre fatto in quattro. Come Luigi Cesaro, deputato Pdl e presidente della Provincia di Napoli, a tutti noto come "Giggino a purpetta". Cesaro ha stanziato 50 mila euro per il rinnovo dell'arredo degli uffici di rappresentanza del Comune di Sant'Anastasia, dove da un anno circa è sindaco il suo ex capo di Gabinetto, Carmine Esposito, un amico per la pelle.

Sono solo alcune delle elargizioni delle Province italiane. Per le scelte nel mare magnum dei finanziamenti che ogni anno impreziosiscono i loro bilanci. Bilanci miliardari che i cittadini amerebbero tanto vedere azzerati considerando che sulla soppressione delle province un po' tutti i partiti sono d'accordo. Non c'è stata tornata elettorale in cui destra e sinistra non abbiano scritto sui loro programmi la magica parola "soppressione".

Alla vigilia delle elezioni del 2008, per esempio, giurarono sulla cancellazione sia Berlusconi ("Le province dobbiamo abolirle") che l'allora segretario del Pd Walter Veltroni ("Serve l'abolizione delle province"). Persino Casini per l'Udc prese un impegno solenne ("L'abolizione delle province è fondamentale"). Ma quando l'anno successivo Antonio Di Pietro è riuscito a portare in aula un disegno di legge dell'Idv, ecco il voltafaccia. Invece di approvare la soppressione, berlusconiani e democratici hanno votato con la Lega un rinvio "sine die" del problema. Copione che si è ripetuto il 15 giugno scorso, quando l'esame del ddl dipietrista è stato di nuovo rinviato da Montecitorio.

Le province non si toccano, insomma. Anche perché sono delle formidabili macchine elettorali. E i consiglieri e i presidenti in esse eletti dei temutissimi portatori di pacchetti di voti. Che spendono in tutte le direzioni per coltivare i loro feudi e premiare famigli e amici di partito. Il presidente della giunta di centrodestra di Cremona, Massimiliano Salini, un Pdl vicino a Comunione e liberazione, ha per esempio nominato il fratello Rossano direttore della testata giornalistica "L'informatore", organo dell'amministrazione provinciale. In redazione lavorano tre persone e si spartiscono 70 mila euro l'anno. Fulvio Pacciolla ricopre invece dall'aprile 2010 il ruolo di vice capo di gabinetto alla Provincia di Milano, una carica che non esisteva nelle amministrazioni precedenti. Fino al 2010 Pacciolla risultava però direttore generale della Rsa Helipolis di Binasco, una clinica che faceva capo al gruppo Zanella, controllato all'80 per cento da Noevia Zanella. Chi è costei? La moglie del presidente Podestà.

Dal Pdl alla Lega, formazione che notoriamente acchiappa voti urlando contro gli sprechi di "Roma ladrona", salvo non differenziarsi molto nello sperpero quando si trova ad amministrare le casse. A Brescia, un leghista doc come Daniele Molgora appena salito alla presidenza della Provincia ha promesso di sforbiciare le spese inutili. Non si è fatto però problemi nel varare un progetto per la creazione di una inutile Orchestra di Brescia di cui si conoscono già i costi (200 mila euro l'anno) e il nome del direttore: Enzo Rojatti, già direttore della disciolta Orchestra della Padania. La presidente della provincia di Venezia Francesca Zaccariotto, appena eletta, un anno fa, ha deciso invece di festeggiare la vittoria con un bell'aumento di stipendio per sé e per gli assessori. Una trovata che comporterà un incremento di spese di 200 mila euro da qui alla scadenza della legislatura.

Le province d'altra parte sono uno dei piatti forti del "buongoverno" dei leghisti: ne presiedono una quindicina e, nonostante in campagna elettorale si siano impegnati con Berlusconi per l'abrogazione, sostengono a spada tratta la loro esistenza. Qualche anno fa minacciarono addirittura l'uscita dal governo se non fosse nata la provincia di Monza (solo per il varo è costata quasi 50 milioni di euro), mentre ancora oggi il deputato leghista Caparini non si fa problemi nel chiedere l'istituzione della provincia della Valcamonica con capitale Breno, una "metropoli" da 5 mila abitanti.

Ma inutile meravigliarsi, i leghisti sono fatti così. La provincia di Bergamo, tanto per fare un altro esempio, ha un ufficio di rappresentanza a Roma, a piazza Colonna. Costo: 65 mila euro l'anno. Durante l'ultima campagna elettorale il candidato presidente Ettore Pirovano, bossiano sfegatato, aveva garantito che "una delle prime scelte, se fosse stato eletto, sarebbe stata la chiusura della sede romana". Inutile dire che quegli uffici sono là anche se Pirovano è stato puntualmente eletto. Spendere, infatti, è molto più semplice che tagliare. E lo si vede scandagliando le province da Nord a Sud, come ha fatto "l'Espresso". La provincia di Trento ha dato una consulenza di 20 mila euro a due professori universitari "per capire gli orsi"; spende 2 milioni per acquistare divise a bande musicali e gruppi folkloristici, schützen compresi (a questi paga anzi anche gite sulle nevi a Folgaria); mentre Belluno elargisce oltre 200 mila euro per una consulenza per l'inserimento delle Dolomiti nel patrimonio dell'Unesco.

Scendendo nel Meridione, si distingue ancora Napoli per il finanziamento del progetto "La cucina di mammà" (35 mila euro); i 40 mila euro spesi per sovvenzionare i Cantori di Posillipo e gli altri 4 mila sperperati per cravatte griffate che il presidente Cesaro regala a Natale. Ancora più a sud, la provincia di Palermo brilla per i 200 mila euro elargiti per bande musicali, fiere e sagre (si va dalla salsiccia al ficodindia); i 4 mila euro per il sostegno all'associazione Badminton di Cinisi; i 10 mila per foraggiare la confederazione siciliani del Nord America. Indimenticati restano però i 5 mila euro dilapidati nella sagra dell'asino di Castelbuono e l'altro migliaio bruciati per scoprire il "significato della musica nella preistoria".

Infine, la Sardegna, che in fatto di province nell'ultimo decennio non si è fatta mancare niente visto che, in quanto Regione autonoma, in un sol colpo, nel 2001 ha deciso di raddoppiarne il numero, passando da quattro a otto. Sugli scudi dunque anche l'isola, che si distingue pure per il contributo di 70 mila euro di Carbonia-Iglesias per il censimento e lo studio delle abitudini dei cormorani; quello del Medio Campidano che foraggia la sagra del salmone e per l'incarico conferito dall'Ogliastra a un ingegnere per scoprire quali dei gestori telefonici avesse la tariffa più conveniente. Come se un qualsiasi dipendente non potesse assolvere il compito.

E' anche per questo che le province costano tanto. E per un modo di amministrare che spesso suscita le ire della Corte dei conti. Da Nord a Sud non si contano i casi di cattiva amministrazione. Varese è nel mirino dei giudici contabili per gli acquisti impropri per la pulizia del lago Maggiore (macchinari comprati da un funzionario incompetente); Palermo, alle prese con le conseguenze delle scorribande nei derivati dell'ex presidente Francesco Mussotto, per le anomalie e le disfunzioni riscontrate nei bilanci; Trento per la moltiplicazione dei centri di spesa, la proliferazione delle consulenze, la "poca chiarezza" nell'esposizione dei dati contabili delle società partecipate. Insomma, un mare di irregolarità nel quale galleggia anche il caso dell'astro nascente del Pd, Matteo Renzi, sindaco di Firenze. In precedenza presidente della stessa Provincia, Renzi è sotto esame per l'assunzione di persone sprovviste dei titoli necessari. Una colpa grave per la Corte dei conti che gli ha contestato, insieme ai membri della giunta, un danno erariale di circa 2 milioni di euro.

hanno collaborato Marco Guzzetti, Mario Lancisi, Thomas Mackinson, Claudio Pappaianni, Maurizio Porcu, Paolo Tessadri.



Parma: la coop che lavorava per il Comune per assumere voleva una dichiarazione di voto.


La vicenda è quasi incredibile. Un documento che era assolutamente illegale. E anticostituzionale

Non solo emettevano fatture gonfiate per servizi mai effettuati. Non solo facevano parte di un giro dicorruzione che favoriva negli appalti chi pagava o chi si prestava a effettuare lavoretti gratis nelle case private dei dirigenti pubblici. Non solo coprivano il gioco di chi pigliava e portava a casa mazzette e favori di tutti i tipi. Sws, student work service, era una sorta di cagnolino fedele dei dirigenti coinvolti nell’inchiesta della Guardia di finanza, realizzando ogni prestazione venisse chiesta ‘dall’alto’. Tanto che Giangy Andreaus e Tommy Mori pare effettuassero sondaggi e domande equivoche al posto di effettuare colloqui di lavoro per capire dove soffiasse il vento politico e realizzare indagini di mercato su abitudini dei cittadini di Parma.

La prima denuncia era arrivata da alcune giovani studentesse già l’anno scorso. Una denuncia ripescata oggi dell’associazione Insurgent city, che nel pomeriggio ha distribuito alla folla che stava protestando contro il Comune il questionario che la Sws sottoponeva a chi si presentava per un colloquio di lavoro. Un questionario su cui appaiono domande quanto mai fuori luogo: “Quale quotidiano leggi abitualmente? Quando sei stato l’ultima volta al cinema? Quando hai acquistato l’ultimo cd? Quando hai scaricato l’ultima canzone da internet? Qual è il tuo sito internet preferito? Qual è il tuo film, libro, cd preferito? Quando sei stato l’ultima volta ad un concerto? Quando hai comprato l’ultimo vestito? Quando hai comprato l’ultimo paio di scarpe? In che negozio? Di che marca?”. E ancora, entrando sempre più nel personale: “A quanto ammontava il tuo ultimo stipendio? Qual è la tua trasmissione televisiva preferita? Qual è l’uomo e la donna che preferisci in politica? Cos’hai votato nelle ultime elezioni politiche (2008)? Cos’hai votato nelle ultime elezioni amministrative?”.

Domande palesemente anticostituzionali, dato che il voto è segreto. E che fanno intuire come dietro a questi questionari ci fossero obiettivi diversi da una selezione lavorativa: nemmeno in una domanda si chiede qualcosa riguardo titoli di studio, abilità professionali, esperienze lavorative, conoscenze linguistiche. “Le ipotesi sono due – spiega Andrea Bui, di Insurgent city – O si volevano raccogliere informazioni o si faceva selezione del personale in modi poco professionali: cosa interessa sapere cosa ha votato chi andrà a distribuire i bidoncini per la raccolta differenziata? O a chi farà l’accompagnatore dei bambini nell’Happy bus? Mi viene da pensare che si facesserodiscriminazioni, visto che non interessavano minimamente le reali abilità o qualifiche delle persone”.

Ma le domande imbarazzanti non finiscono qui. Il questionario prosegue con: “Sei single, sposato, separato, fidanzato? Quando sei stato fuori a cena e dove? E a ballare? Svolgi qualche attività in palestra? Quando sei stato l’ultima volta in chiesa? Che lavoro vorresti fare? La professione del padre? Della madre?”. Quesiti che sembrano più utili a un casting da miss che a un colloquio di lavoro. O a un sondaggio da pre-campagna elettorale, visto che a locali, ristoranti e moda questa giunta Vignaliha sempre dimostrato di tenerci molto.


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E se internet entrasse nella Costituzione? Oggi "Notte della Rete contro il bavaglio". - di Stefano Corradino

E se internet entrasse nella Costituzione? Oggi "Notte della Rete contro il bavaglio"
“Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. E’ il testo di un disegno di legge costituzionale presentato lo scorso novembre e che reca “disposizioni volte al riconoscimento del diritto di accesso al web”. Un articolo21-bis della Costituzione che estenderebbe a Internet il principio della libertà di espressione espresso dal 21° articolo della nostra Carta.

A lanciare la proposta lo scorso anno è stato il giurista Stefano Rodotà nel corso dell’Internet Governance Forum che ha avuto luogo a Roma. Una proposta frutto di una riflessione lunga ed elaborata e non improvvisata sull’onda dell’emergenza. Già nel 2003 lo stesso Rodotà, allora Garante per la privacy, rifletteva sull’esigenza di fissare alcuni principi costituzionali per preservare le libertà civili e digitali: una Costituzione europea allo scopo di individuare regole comuni ai diversi stati europei per garantire a tutti l’uso libero di Internet.

L’idea di una modifica in tal senso della nostra carta costituzionale parte quindi da lontano, dal concetto che un’adeguata “copertura costituzionale” possa mettere l’immenso territorio della rete al riparo da chi tenta di metterci impunemente le mani, e regolarlo in modo restrittivo.
Una proposta che di fatto modificherebbe uno dei capisaldi della prima parte della Costituzione. Ma al contrario di chi in modo dissennato e pericoloso ha proposto, ad esempio, di modificare l’articolo 1cancellando il riferimento al lavoro così da stravolgere un diritto acquisito e frutto di battaglie di libertà e di emancipazione, l’articolo21 bis costituirebbe l’estensione di un diritto e l’acquisizione del concetto di rete come “bene comune”.

Oggi a Roma il mondo della rete si mobilita contro una delibera dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni per cui, in nome della salvaguardia del diritto d’autore si rischierebbe la chiusura di decine di migliaia di siti internet, giornali o line, blog e profili dei social network. Un’istituzione amministrativa potrebbe infatti assumere le sembianze del giudice, determinando l’oscuramento dei siti ‘rei’ di violare la normativa medesima. Un’ipotesi grave, sciuagurata, illegittima che dovrà essere contrastata con forza, nelle piazze virtuali e in quelle reali, nelle sedi politiche e in quelle legali, nazionali e internazionali.

Perché non impegnarci concretamente su questa proposta di un articolo bis della Costituzione (e di una specifica Costituzione europea) come risposta a tutti i tentativi passati, presenti e futuri di imbavagliare la rete?