Annientare la Cgil sta diventando il principale obiettivo della destra. Dove per destra non si intende semplicemente Silvio Berlusconi o il Pdl, ma una galassia molto più complessa che comprende parte del berlusconismo (ma non tutto), l’intero gruppo delle “Quattro Emme” Montezemolo-Marchionne-Monti-Marcegaglia, gran parte dell’area De Benedetti (ma non tutta), e ancora buona parte del terzo polo (in particolare i gruppi che si raccolgono attorno a Casini) e un pezzo non indifferente del Pd (i miglioristi, una pattuglia consistente dei quarantenni, i veltroniani, la corrente di Letta e settori consistenti della ex Dc). A questo schieramento composito e assai vasto si unisce – con ruolo anche dirigente – quasi tutta la grande stampa. E si aggiungono – seppure in forme e con ruoli particolari e non facilissimi da capire – la Uil e anche la Cisl.
Chi resta a difesa del vecchio sindacato di Di Vittorio, Trentin e Cofferati? Sel di Vendola, l’Italia dei Valori di Di Pietro e – al momento: e questa in parte è una sorpresa – il pezzo di Pd che si riconosce nel segretario Bersani compresa una buona fetta di dalemiani.
La partita è una grandissima partita. L’esito avrà un peso determinante nel disegnare i rapporti politici ed economici della società italiana nei prossimi dieci o vent’anni. I giornali tendono a tenere un po’ in secondo piano questo scontro, perché i giornali preferiscono – da sempre – anche per loro limiti intellettuali (non tutto è disegno, manovra, perfido complotto…) occuparsi di questione morale, di gossip, di scontri personalistici nel ceto dirigente: ma la vera battaglia che è aperta oggi in Italia è questa. E il grande interrogativo è tutto nella domanda: ne uscirà viva e libera la Cgil, o sarà uccisa dai suoi nemici, oppure presa prigioniera e messa in condizione di non nuocere?
Le prove generali furono fatte lo scorso anno, sempre in estate, ai tempi dell’attacco di Marchionne a Pomigliano. Fu una specie di “prova in palestra”, con un bersaglio – e cioè la Fiom – più limitato e più facilmente contrastabile. Non ci fu una vittoria piena, ma la Fiom uscì ammaccata e la Cgil si fece mettere fuori gioco.
Ora l’attacco è al bersaglio grosso: direttamente alla Cgil cioè al più grande sindacato europeo. L’occasione è stata la manovra economica. Il governo, per compiacere gli industriali – che però non lo hanno ricambiato con molta gentilezza – ha introdotto nella manovra la demolizione all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (quello che vieta i licenziamenti immotivati). Probabilmente questa misura non ha nessuna ragione economica forte, ma una fortissima ragione simbolica: cancellare, di fatto, l’articolo 18, vuol dire chiudere la lunga stagione sindacale iniziata alla fine degli anni ’60 e che aveva avuto la sua prima e più clamorosa sanzione, ai tempi del ministro Brodolini, proprio nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto era quell’atto legislativo che di fatto poneva i diritti essenziali dei lavoratori alla base delle relazioni industriali. E rendeva il profitto una variabile dell’attività imprenditoriale. Chiudere con quella stagione vuol dire rovesciare lo stato delle cose: tornare a porre il profitto come pilastro dell’attività economica e i diritti dei lavoratori – ed eventualmente i loro salari – come una variabile dipendente del profitto.
L’idea che ha in mente la destra dunque è chiarissima: entrare in una fase della modernizzazione post-socialdemocratica, liberandosi dai meccanismi della contrattazione sindacale che hanno caratterizzato i sessant’anni precedenti. La destra ritiene che il superamento del compromesso socialdemocratico debba prevedere, appunto, la fine dell’epoca dei diritti. Le relazioni tra dipendenti e imprenditori non dovranno più essere regolate dal conflitto, dai rapporti di forza e da una griglia intoccabile di diritti assoluti, ma dovranno, sempre, dipendere, dall’interesse generale, cioè dalla necessità del profitto di riprodursi e di aumentare, perché solo in questo modo è possibile produrre sviluppo crescente e dunque far crescere la società e dare impulso alla modernità.
L’idea che hanno in mente la Cisl e la Uil (in particolare la Cisl, che su questo terreno ha una vecchia e gloriosa tradizione di pensiero e di elaborazione politica) è che questa linea della destra vada non fronteggiata facendo muro, ma, in qualche modo, utilizzata e modificata. Come? Puntando alla “cogestione”. Cioè a una condizione di relazioni industriali nella quale la rinuncia ai diritti e l’accettazione dell’interesse universale del profitto sia controbilanciato da una partecipazione dei dipendenti agli utili. È un vecchio pallino della Cisl: io lavoratore sono disposto a rinunciare a qualcosa, ma perché il tuo interesse di imprenditore assuma il ruolo di interesse generale, tu devi accettare che io sia compartecipe di questo interesse. Quindi i diritti vengono sacrificati sull’altare di una partecipazione al profitto.
Il problema è: quale idea ha in mente la Cgil e quella parte di sinistra che ancora resiste a fianco del vecchio sindacato? Se l’unica moneta da spendere è la difesa ad oltranza del passato, non è una gran moneta, e la Cgil allora è destinata ad essere sconfitta.
Proviamo a riassumere con una immagine la battaglia che si è aperta. La destra vuole riportare il funzionamento dell’economia e della produzione all’800. Cioè cancellare il ’900 delle lotte sindacali, degli ideali socialisti e dell’affermazione dei diritti. È possibile contrastare questa spinta reazionaria con una forza d’urto conservatrice che si attesta sulla dichiarazione di principio: “Non ci muoviamo dal Novecento”?
Probabilmente no. La pura conservazione è sempre destinata alla sconfitta di fronte a una ondata reazionaria forte, sostenuta da settori importanti di opinione pubblica e che ha fatto breccia in pezzi consistenti dello schieramento politico di sinistra Per opporsi alla destra occorre una idea di modernizzazione del lavoro che oggi la sinistra non sembra avere.
Cosa vuol dire modernizzazione? Probabilmente c’è una sola strada per opporsi all’“ottocentismo” di Montezemolo e soci: decidersi a scindere il diritto al reddito dal diritto al lavoro. Non considerarli più la stessa cosa. E quindi ricomporre l’unita del mondo del lavoro, che oggi è irrimediabilmente compromessa dalla divisione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari. Distinguere il diritto al reddito dal diritto al lavoro vuol dire chiamare la politica – e in particolare la sinistra, ma no son solo – a entrare a pieno titolo nella discussione tra imprese e lavoratori. Perché solo la politica può impegnarsi ad affermare il diritto al reddito per tutti, lasciando così lo spazio per una battaglia sul lavoro che possa svolgersi in termini del tutto nuovi e con tutt’altra forza e tutt’altra libertà. Per farlo bisogna che il sindacato rinunci a qualche certezza, a qualche “casamatta” del passato. Proprio così: capisca che se non esce dal Novecento, se non si spinge nel nuovo secolo, i padroni lo trascineranno indietro di cent’anni.
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