Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 4 luglio 2012
Se la politica è ostile ai movimenti. - Stefano Rodotà
Il “principio di realtà” sembra irrompere nella politica solo quando si fanno più drammatiche le questioni dell’economia, alle quali tuttavia si guarda troppo spesso come se in esse si manifestasse una ineludibile legge “naturale”. I mercati “votano”, si attendono le “reazioni” dei mercati. Soggetti onnipresenti e impersonali, alle cui pretese la politica si piega, e palesa le sue impotenze, smarrisce ogni filo razionale, sembra rassegnata alle dimissioni.
Di questo contagio la politica è vittima consapevole. Prigioniera della sola dimensione economica, perde la capacità di misurarsi con le grandi questioni della società, di elaborare strategie di più largo respiro e di più lunga durata. E si priva così degli strumenti che possono consentirle di ricominciare a pensare lo stesso mercato come una creazione sociale, non come una entità naturale, alle cui leggi si è costretti ad obbedire.
Nella realtà vi sono più cose da vedere, analizzare, comprendere. A questa ricchezza la politica deve attingere. Non è una impresa impossibile, a condizione che si voglia davvero uscire dall’autoreferenzialità e dalle logiche oligarchiche che si sono impadronite dei partiti. I punti di riferimento non mancano. Questa sembrava l’indicazione venuta dal segretario del Pd quando, lanciando la sua candidatura verso primarie aperte, l’associava con una dichiarata attenzione per le nuove dinamiche sociali, per le richieste di partecipazione, per i diritti civili, per il tema centrale del lavoro, dando la sensazione che si volesse così dar vita ad una agenda politica finalmente espressiva di contenuti concreti, abbandonando le abitudini che hanno trasformato l’azione del partito in una eterna schermaglia tra persone. Solo in questo modo si può evitare che le primarie si trasformino in un’altra tappa verso quell’estrema personalizzazione della politica che è all’origine di infinite distorsioni istituzionali.
Il principio di realtà dovrebbe portare verso una riflessione sulle effettive dinamiche degli ultimi tempi. Tutto quello che usciva fuori dai canali della politica ufficiale è stato sbrigativamente etichettato come antipolitica. Questo non è stato solo un errore analitico. Si è rivelato come un modo per sottrarsi ad un confronto scomodo, non con l’antipolitica, ma con l’altra politica che si è presentata in modo incisivo sulla scena italiana, suscitando nei partiti una reazione di fastidio e di sufficienza, quasi che si trattasse di inutili iniziative “movimentiste” e protestatarie.
Le cose non sono andate così. Tra il 2010 e il 2011 si sono svolte grandi manifestazioni di donne e lavoratori, studenti e mondo della cultura. A questa iniziativa diffusa si deve la reazione che ha bloccato la “legge bavaglio” sulle intercettazioni, fino a quel momento contrastata blandamente dall’opposizione parlamentare. Quel variegato movimento ha contribuito grandemente ai successi nelle elezioni amministrative dell’anno scorso, non a caso vinte, in città chiave come Milano e Napoli, da candidati scelti fuori dalle indicazioni dei partiti. In quelle campagne elettorali, come ha ricordato Ilvo Diamanti, vi fu una straordinaria e spontanea presenza dei cittadini. Punto di approdo di tutta quella fase fu il voto referendario del 13 giugno dell’anno scorso, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, alle leggi ad personam.
Altro che movimentismo sterile, del quale disinteressarsi. Quelle sono state tutte iniziative vincenti, che avrebbero dovuto sollecitare la massima attenzione della politica “ufficiale”, rimasta invece sorda, lontana, ostile. Ora proprio a quel mondo si dice di voler rivolgere l’attenzione. Ma questo non è affare di parole.
Non si può dire di voler prendere sul serio i segnali che arrivano dalla società e poi contribuire a una strategia che vuole sostanzialmente cancellare i risultati del referendum sull’acqua. Sta accadendo proprio questo con una rottura della legalità costituzionale che giustifica un appello al Presidente della Repubblica. Migliaia di cittadini si organizzano in una campagna di “obbedienza civile”, pagando le bollette dell’acqua in base a quel che essi stessi hanno deciso con il referendum. Una convincente nuova politica non può eludere questo terreno, che i cittadini hanno pacificamente occupato non con iniziative sgangherate, ma con il loro voto. Quale credito può recuperare un partito che ignora la voce di ventisette milioni di persone?
Vi è una lezione generale da trarre da questa storia recente. Tutti quei movimenti non hanno mai scelto la strada non solo antipolitica, ma antistituzionale, che altri hanno imboccato o vogliono imboccare. Al contrario. I loro interlocutori sono stati i parlamentari al tempo della legge bavaglio. Gli strumenti adoperati sono quelli della democrazia quando si sceglie di partecipare convintamente alle elezioni amministrative e quando si raccolgono le firme e si vincono i referendum. Se davvero si vuole rafforzare la partecipazione, la via da seguire è nitidamente segnata.
Tutto questo, infatti, è avvenuto all’insegna della Costituzione, salvata nel giugno del 2006, da sedici milioni di cittadini che, dicendo no alla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi, indicavano pure una strada da seguire. Se oggi si vuol discutere seriamente di riforma costituzionale, bisogna tenere nel giusto conto le indicazioni venute in questi anni da milioni (insisto, milioni) di cittadini, non dalle intemperanze di gruppetti o dalle pretese di professori (anche se un po’ di attenzione per la grammatica costituzionale non guasterebbe).
Queste indicazioni sono chiarissime. Il rifiuto dell’accentramento del potere e di una più intensa personalizzazione dovrebbe essere ancor più tenuto in considerazione oggi, di fronte alla minaccia di pericolose derive populiste. L’attenzione per la partecipazione dei cittadini non può essere ridotta a una giaculatoria. Ma nelle proposte di riforma costituzionale non vi è nulla (insisto, nulla) che vada in questa direzione, anzi si va verso accentramenti e smantellamento di equilibri e garanzie. E questa è una linea autolesionista, al limite del suicidio, perché la stessa democrazia rappresentativa può essere salvata solo da una sua intelligente integrazione con forme di partecipazione dei cittadini. Dall’Europa ci vengono indicazioni che consentono, ad esempio, di rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, come vado dicendo da anni.
Ma l’altra politica manifesta pure una fortissima richiesta di diritti, che non può essere sacrificata all’economia con il trucco della politica dei due tempi, come ha benissimo ricordato Chiara Saraceno, né può essere affidata a documenti come quello predisposto dal Pd, elusivo su troppe questioni. I diritti del lavoro sono emblematici del legame scindibile tra economia e diritti, come dimostrano alcuni opportuni interventi dei giudici, resi possibili anche da indicazioni provenienti dall’Europa che, anch’essa, deve essere considerata nella dimensione dei diritti.
Sono molte, dunque, le possibilità concrete di riprendere il filo del rapporto spezzato tra partiti e cittadini. Ma questa, evidentemente, non è una operazione a costo zero. Esige l’abbandono di pessime abitudini e qualche segnale immediato. Torno alla questione dell’acqua come bene comune e ricordo che in Parlamento, su vari temi, giacciono proposte di legge di iniziativa popolare o regionale. Perché non metterle all’ordine del giorno, cominciare a discuterle? I cittadini capirebbero.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/se-la-politica-e-ostile-ai-movimenti/
Firme false, Podestà stizzito: “False? Giudizio mediatico”. - Franz Baraggino
“Non posso dire se quelle firme siano vere o false, ce lo dirà la sentenza alla fine del processo”.
Nel giorno in cui il pm Alfredo Robledo ha chiesto il rinvio a giudizio del presidente della Provincia di Milano Guido Podestà con l’accusa di falso ideologico in merito alla vicenda delle firme false raccolte dal Pdl per le ultime regionali, l’interessato suggerisce di aspettare che la giustizia faccia il suo corso. Ma nella vicenda che riguarda le due liste a sostegno della candidatura di Roberto Formigoni, una cosa è certa: 926 firme tra quelle raccolte e autenticate sono state falsificate. Un dato che non scompone il presidente della Provincia, che rinnova l’invito alla prudenza: “Non si possono avallare giudizi mediatici, solo una sentenza potrà dirci se quelle firme sono false”. Il nome di Podestà, che all’inizio del 2010 era coordinatore lombardo per il Pdl e responsabile politico della campagna elettorale per le amministrative, è saltato fuori nel corso dell’interrogatorio di Clotilde Strada, una delle responsabili operative della campagna. Secondo la Strada, infatti, sarebbe stato Podestà a suggerire di utilizzare i certificati elettorali per autenticare le firme false, quando la scadenza del termine per la presentazione delle liste era ormai prossima. Podestà smentisce: “Quella sera arrivai nella sede del Pdl”, conferma, “ma mi dissero che tutto procedeva per il meglio”. E ancora: “Guardando bene le carte”, continua Podestà, “si capirà che la Strada ha anche cambiato versione”. L’udienza preliminare è fissata per il 12 ottobre prossimo. Nel frattempo arriva la solidarietà del presidente della Regione Formigoni: “Io non c’entro niente e spero che il presidente Podestà potrà presto vedere affermata la sua estraneità”.
Concorso esterno a Cosa nostra, chiesti otto anni per l’ex ministro Romano. - Giuseppe Pipitone
Rito abbreviato a Palermo per il politico del Pid chiamato al governo da Silvio Berlusconi. Secondo i pm Di Matteo e De Francisci tutta la sua carriera è stata favorita dalla mafia, "ramo" Provenzano, e legata a quella di Totò Cuffaro. Tra i suoi accusatori il collaboratore Angelo Siino. Sentenza il 17 luglio.
Un patto politico elettorale mafioso avrebbe garantito l’ascesa di Saverio Romano, deputato del Pid ed ex ministro delle politiche agricole del premier Silvio Berlusconi. È quanto sostenuto nella lunga requisitoria del pm Nino Di Matteo, che ha chiesto la condanna dell’esponente del Pid a otto anni di carcere. Romano è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e ha scelto di essere processato con il rito abbreviato. Davanti al gup Ferdinando Sistito l’accusa – rappresentata in aula oltre che da Di Matteo anche dal procuratore aggiunto Ignazio De Francisci – ha passato in rassegna tutte gli elementi probatori che dimostrerebbero un patto politico elettorale siglato tra Romano e la parte predominante di Cosa Nostra, quella che faceva capo al boss Bernardo Provenzano. Il pm Di Matteo ha paragonato a più riprese la condotta di Romano a quella di Salvatore Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia, dove sta scontando sette anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra.
“Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”. Quel patto politico mafioso avrebbe avuto la sua origine nel 1991 quando l’allora ventisettenne Saverio Romano si recò insieme a Cuffaro a casa di Angelo Siino, pilota amatoriale di rally e “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, fautore dell’infiltrazione mafiosa nel sistema degli appalti regionali. “Romano e Cuffaro – ha detto il pm – sapevano benissimo che peso avesse Siino dentro Cosa Nostra: in un primo momento Romano volle incontrarlo per chiedergli di tenere in considerazione nel sistema degli appalti anche gli imprenditori di Belmonte Mezzagno, suo paese d’origine. Poi all’incontro partecipò anche Cuffaro e l’oggetto del colloquio diventò quindi la richiesta di sostegno elettorale per le consultazioni regionali del 1991, in cui lo stesso Cuffaro era candidato”. A sostegno della sua tesi il pm ha citato più volte le dichiarazioni dello stesso Siino, che oggi è un collaboratore di giustizia.
Il patto con Cosa Nostra, secondo la ricostruzione della procura, sarebbe poi continuato negli anni successivi raggiungendo il suo apice nel 2001, anno in cui Romano venne eletto per la prima volta alla Camera dei deputati e Cuffaro stravinse le consultazioni regionali diventando presidente della Sicilia. Un exploit che sarebbe dovuto soprattutto al sostegno massiccio offerto da Cosa Nostra ai due politici cresciuti alla corte di Calogero Mannino. E che sarebbe dimostrato dalla scelta di candidare a quelle elezioni regionali soggetti che facevano riferimento diretto a boss di Cosa Nostra: Domenico Miceli e Giuseppe Acanto. “La candidatura di Miceli e di Acanto – ha rivelato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Il medico Domenico Miceli, ex assessore alla sanità del comune di Palermo, era considerato il delfino di Cuffaro, prima che la sua voce finisse registrata dalle microspie nascoste a casa di Guttadauro.
Una parte importante della requisitoria dell’accusa è stata dedicata alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Primo tra tutti Francesco Campanella, già presidente del consiglio comunale di Villabate poi condannato per mafia. Campanella, esponente dell’Udeur di Clemente Mastella, ha raccontato ai magistrati di un pranzo avvenuto a Roma a Campo de’ Fiori nel 2001, in compagnia di Franco Bruno, allora capo di gabinetto del sottosegretario alla giustizia Marianna Li Calzi, di Cuffaro e dello stesso Romano. “Franco Bruno – si legge nel verbale di Campanella - conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Per l’accusa le dichiarazioni di Campanella troverebbero pieno riscontro in quelle dell’altro pentito Stefano Lo Verso, per anni vivandiere di Provenzano. “Nicola Mandalà – ha raccontato ai magistrati Lo Verso – mi disse che per la politica non avevamo problemi: abbiamo l’amico e socio di mio padre, Renato Schifani, abbiamo nelle mani Dell’Utri e al centro abbiamo Cuffaro e il paesano di mio padrino Ciccio (il boss di Belmonte Mezzagno Pastoia nda), Saverio Romano”. E nei verbali del pentito Giacomo Greco, pure lui originario di Belmonte Mezzagno, si legge che lo stesso Provenzano “aveva interesse” nell’elezione di Romano.
L’ex ministro ha ascoltato impassibile tutta la requisitoria dell’accusa e alla fine dell’udienza è andato via senza voler rilasciare alcuna dichiarazione. Adesso la palla passa ai suoi legali, gli avvocati Raffaele Bonsignore e Franco Inzerillo, che inizieranno l’arringa difensiva il 6 luglio. Per il 17 è invece attesa la sentenza del gup.
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Uccise Carlo Giuliani, ex carabiniere accusato di violenza sessuale sulla figlia.
Ad accusare l'ex militare dell'Arma, Mario Placanica, he sparò durante il G8 di Genova 2001, la madre della ragazzina. Il processo si aprirà il prossimo 16 novembre dopo la decisione del gup di rinviarlo a giudizio a Catanzaro.
Mario Placanica, l’ex carabiniere che sparò e uccise Carlo Giuliani durante il G8 di Genova 2001, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di violenza sessuale ai danni della figlia, nata dalla relazione con la ex convivente. La decisione è stata presa dal giudice per le indagini preliminari di Catanzaro Tiziana Macri che ha accolto le richieste della Procura. Il dibattimento si aprirà il 16 novembre prossimo davanti al tribunale collegiale. In aula ha già comunicato che sarà presente l’ex compagna di Placanica (e madre della piccola presunta vittima), che si è costituita parte civile, assistita dall’avvocato Teresa Lavecchia.
L’indagine partì proprio dalle denunce della donna datate al 2008, quando accusò l’ex militare di abusi sessuali ai danni della figlioletta undicenne, che sarebbero avvenuti nel 2007. Nel corso dell’udienza preliminare, su richiesta della difesa dell’imputato, il giudice Macrì dispose una perizia relativa alla capacità di stare in giudizio di Placanica, che venne accertata.
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Via libera della Camera alla spending review. Sindacati in rivolta.
Stangata sugli statali, via il 10% dei dipendenti e il 20% dei vertici. Monti: niente accetta. Cgil, Cisl e Uil: sciopero.
Roma, 3 lug. (TMNews) - Via libera dell'aula della Camera al decreto sulla spending review. I voti a favore sono stati 387, i contrari 20, le astensioni 47. Il provvedimento, modificato nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio, deve tornare in Senato per l'ok definitivo e sarà convertito in legge entro sabato prossimo, 7 luglio. Il via libera è arrivato dopo una giornata intensa, con il doppio incontro per il governo, che prima ha ricevuto a palazzo Chigi la delegazione degli enti locali e poi quella delle parti sociali. Nonostante le parole del premier Mario Monti che ha assicurato che non ci saranno "tagli fatti con l'accetta", sulla questione spending review è ancora bufera. E i sindacati sono rimasti sul piede di guerra, pronti allo sciopero generale. "Non credo si possa evitare lo sciopero generale se ci saranno solo tagli lineari" ha detto il segretario della Uil, Luigi Angeletti, uscendo da palazzo Chigi. "Una carezza alla politica e una stangata per i lavoratori" l'ha definita ancora Angeletti, aggiungendo che "di tutte le vostre buone intenzioni non vorrei che restasse solo il taglio del personale della Pa". Duro anche il segretario della Cisl Raffaele Bonanni: "Il governo non ci ha convinto. Sullo sciopero generale ancora non abbiamo deciso ma siamo comunque contrari al taglio sul pubblico impiego". "Governo criptico e reticente - ha incalzato Susanna Camusso, numero uno della Cgil - ci sono solo annunci di tagli lineari. Il metodo mi pare sbagliato. Siamo preoccupati. Allo stato manteniamo la nobilitazione delle categorie". Tra le misure previste ci sarebbe anche la riduzione del 20% per i dirigenti, e del 10% per tutti gli altri dipendenti. Lo ha ribadito il viceministro all'Economia, Vittorio Grilli, alle parti sociali. Il presidente del Consiglio Mario Monti, da parte sua ha voluto precisare la natura della spending review, che non è una nuova manovra di finanza pubblica ma l'assunzione di misure strutturali. L'obiettivo del governo, hanno spiegato fonti presenti all'incontro, è di eliminare gli sprechi e non di ridurre i servizi. Si dovrà guardare per questo alle priorità rifuggendo alla politica dei tagli lineari. Per evitare l'aumento dell'Iva, ha spiegato Monti, occorrono 4,2 miliardi. Ma "si sono poi aggiunte due esigenze: il tema degli esodati, meglio qualificati come salvaguardati; il, terremoto in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, rendendo la cifra di 4,2 miliardi molto più alta". Ci sono stati momenti di tensione alla Camera durante il voto sul decreto. Al termine del suo intervento, Francesco Barbato (Idv), ha concluso con un: "Mi sono rotto i c...". Subito il presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, ha cacciato il deputato fuori: "La prego di abbandonare l'aula - ha detto Fini - non può usare un linguaggio da trivio". Int.
http://notizie.virgilio.it/generated/topten/2012/07_luglio/03/via-libera-della-camera-alla-spending-review-sindacati-in-rivolta.html?shrbox=facebook
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“Quirinale e trattativa: intervento incongruo”. Intervista a Franco Cordero.
L’interrogativo sollevato dalle indagini sulla trattativa Stato-mafia non sopporta ombre: tergiversare significa non rispondere a una domanda che riguarda sopra tutti e prima di tutto la salute della democrazia. Sul Fatto quotidiano del 24 giugno Paolo Flores d’Arcais chiedeva se le dichiarazioni del presidente della Repubblica sulla necessità di una legge in materia d’intercettazioni fossero davvero il male minore. E commentava: “Pesa fin qui il silenzio di giuristi e intellettuali da sempre impegnati a difesa della democrazia”. Cinque giorni dopo il torpore è stato rotto suRepubblica da Franco Cordero, tra i più autorevoli processual-penalisti italiani.
Professore, gran parte del suo articolo riguarda interventi regi in materia giudiziaria. Perché?
La storia aiuta a capire i termini delle questioni: i re erano condottieri, taumaturghi, custodi dell’ordine naturale, giudici par excellence; l’istituto s’evolve nel senso laico d’una divisione dei poteri; l’ultimo residuo mistico è l’idea d’una justice retenue in capo al monarca, liquidata dalla rivoluzione francese; e anacronistica-mente riappare. Non è buon segno.
Qualcuno pensa che il capo dello Stato, in quanto presidente del Csm, sia primo giudice.Se lo fosse, saremmo tornati ai bei tempi in cui Luigi IX, il santo, teneva udienza sotto un olmo. L’autogoverno della magistratura non tocca la fisiopatologia dei processi e relative terapie: lì vigono norme codificate; l’insegna della relativa disciplina è “procedura penale”.
S’è parlato anche di poteri del Colle in merito al coordinamento tra le procure.
Nella sintassi del diritto i poteri non germinano spontaneamente: esistono in quanto norme, costituite in un dato modo da certi organi, li attribuiscono alla tal persona; qui non ne vedo; e coniarle sarebbe un salto indietro.
Lei ha scritto: le conversazioni erano legittimamente intercettate.
Il giudice spiegava perché convenisse ascoltarle: niente da obiettare; e quando vi sia qualcosa d’eccepibile, non spetta al Quirinale rilevarlo, né rimediarvi.
Le intercettazioni indicano un atteggiamento “interventista” nel consigliere del Quirinale.
Dove il fine sia coordinare il lavoro delle procure, se ne occupa il procuratore nazionale antimafia: il quale, interpellato, risponde che tutto è avvenuto regolarmente; non c’era materia controvertibile. L’incongruo intervento, dunque, era gratuito.
S’è detto che il Capo dello Stato funga da cerniera tra le istituzioni.
Lasciamo da parte le metafore. Il quesito appartiene alla procedura penale, antica materia (l’ha fondata Alberto Gandino, magnus practicus, autore del ‘ Tractatus de maleficiis ’ nel tardo Duecento), ancora fragile ma non al punto che vi attecchisca lo stravagante: supponiamo che Sua Maestà, reputandosi organo censorio in materia giudiziaria, intimi al pubblico ministero Rosso d’astenersi dall’indagare trasmettendo gli atti a Verde; o esiga una richiesta d’archiviazione; o chieda conto al giudice del come mai non ritenga legittimo l’impedimento addotto dall’imputato; o interloquisca sulle prove o prescriva una lettura dei testi legali (mattane simili sfilano in un vecchio film girato da René Clair negli Usa, L’ultimo miliardario); l’unica risposta sarebbe una caritatevole fin de non recevoir, fingere che non sia avvenuto niente.
Se uno studente sostenesse quell’idea nell’esame di procedura penale?
Cantare i commi del codice è atletismo mnemonico: basta averne sotto mano un’edizione up to date; l’amnesia quindi merita indulgenza. Le storture sintattiche, no.
I pochi che hanno osato chiedere conto al Quirinale sono stati immediatamente tacciati di attentare alla democrazia.
Dev’essersi formata una retorica le cui battute escono automaticamente, cariche d’enfasi. Il ministro degli Interni denuncia l’aggressione al Capo dello Stato esortando gli italiani al massimo sdegno; e a proposito d’intercettazioni raccomanda ripensamenti seri ossia restrittivi. Altri vedono “schegge” togate cospiranti in difesa del “privilegio corporativo”, formula rumorosa priva d’ogni senso. Nel coro cantano a pieni polmoni plaudi-tori dell’uomo d’Arcore, in livrea o pseudo-equidistanti.
Anche il presidente Napolitano, chiamato in causa personalmente, nomina il bavaglio.
Tipica gaffe, sia detto rispettosamente, e rincresce notarla: sed magis amica veritas.
Sotto il governo Berlusconi parte della stampa protestava.
Ogni tanto scattano riflessi condizionati, inibitori e compulsivi; vi sono cose da non dire, “infandum”. Manierismi e stereotipi segnalano un calo della tensione critica, spiegabile dopo tanti anni d’asfissiante maleducazione verbale. Berlusco Magnus, uomo d’una suprema inettitudine al governo, a parte la scaltra gestione d’affari suoi, passa alla storia come formidabile guastatore dei meccanismi mentali collettivi: non s’è rassegnato alla caduta; padrone dell’ordigno mediatico, ha ancora delle chances in ambienti ridotti al panico dalla crisi, lui che se l’era covata e la negava. Recessioni intellettuali non costano meno dell’economica. Siamo al punto in cui quasi tutto diventa sostenibile, anche 2 + 2 = 5.
Il governatore della Lombardia da giorni nega d’essere sotto indagine perché la Procura non gli ha mandato avvisi di garanzia.
Quanto contorcibili siano gli argomenti legali, lo dicono famosi processi. Discorrere seriamente è un handicap sui palchi dove qualunque gesto verbale ha corso, specie se violento, convulso, deforme: platee scalmanate applaudono. Da notare come l’effetto distorsivo colpisca anche l’establishment culturale configurandosi come logofobia: chiamiamola paura del pensiero; qualche scuola lo vuole corto, saltuario, liquido; le catene ragionate costano fatica; “faticoso” è epiteto ricorrente nel lessico degli addetti alla censura.
L’urlo continuo manda in secondo piano cose importanti: qui dei magistrati indagano sulle stragi, una delle ferite più dolorose nella storia d’Italia.
Fosse vera l’ipotesi d’un patto tra istituzioni e la mafia, saremmo uno Stato dall’identità molto equivoca. Quando Moro stava in mano alle Brigate Rosse, nella cosiddetta prigione del popolo, che un ministero degli Interni inquinato da Gladio e P 2 non riusciva a scovare, ed era condannato a morte se non fossero state accolte certe richieste, correva uno slogan: “Lo Stato non tratta con gli eversori terroristi”; costa poco declamare massime virtuose sulla pelle altrui. La premessa suona falsa, perché niente vietava il riscatto, giustificato dalla necessità di salvarlo “dal pericolo attuale d’un grave danno alla persona”, “da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile” (art. 54 Codice penale). Il caso attuale risulta alquanto diverso, supponendo negoziati al vertice: non eravamo ridotti al punto che la sopravvivenza dell ’ italicum genus dipenda da accordi con la mafia; né costituisce curiosità fatua sapere cosa avvenisse dietro le quinte; e spetta ai tribunali dire se l’accaduto sia delitto.
Tra poco sarà il 19 luglio, vent’anni dalla morte di Borsellino, e nelle cerimonie tutti chiederanno “tutta la verità”.
In Italia la politica è anche teatro, talvolta infimo, d’un vario genere, buffo, patetico, grottesco, feroce, gaglioffo, funereo (che spettacolo i visi alla messa funebre d’Aldo Moro), persino postribolare. Il senso dell’atto scenico va colto in particolari minimi, quali smorfie appena percettibili, tic, espressioni vacue. Speriamo che l’iter palermitano arrivi al dibattimento, se emergono prove tali che l’accusa sia sostenibile: affari simili è bene che diventino res iudicata; esiste una res iudicanda più seria del sapere in che Stato viviamo?
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/03/stato-mafia-franco-cordero-quirinale-e-trattativa-intervento-incongruo/282912/
“Quelle donne che restano con il marito violento”. - di Michela Marzano
“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”.
Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
La Repubblica 04.07.12
E c'è un altro tipo di violenza, molto più sottile, quella che non lascia lividi sul corpo, ma indelebili ematomi nell'anima: la violenza psicologica. Cetta.
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