Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 12 luglio 2012
mercoledì 11 luglio 2012
Direttori in mutande.
D'estate si sa, c'è la caccia al vip in spiaggia. Circonferenze, toraci, rotondità, adipe e salamelle, cellulite e, nei casi più fortunati per i fotografi, anche piselli. Personaggi conosciuti sono sui giornali come al banco del pesce. Tonni, cernie, polipi, code di rospo, balenotteri. Negli ultimi tempi sono il "corpo" più immortalato con il sottinteso che se Grillo può permettersi fare il bagno in Sardegna è uguale a tutti gli altri politici, corrotti, corruttori, bancarottieri e mafiosi. A questa galleria, usata con costanza dal Corriere della Sera e dalla Repubblica di De Benedetti (tessera numero uno pdimenoellina), mancano però due supervip: i direttori dei quotidiani italiani più venduti, pur in netto calo di vendite. E' un vuoto informativo nella stampa italiana che va colmato. Se di Beppe Grillo si conosce il numero dei peli sotto le ascelle, è corretto che il fisico dei due Bronzi di Riace De Bortoli e Mauro sia messo a conoscenza del largo pubblico, in particolare di quello femminile. Si tratta di persone riservate, difficili da fotografare in mutande. Nessuno li ha mai visti neppure nella vasca da bagno. E' aperta quindi da oggi la caccia fotografica. Ho pensato a una taglia, una cifra modesta alla genovese, c'è la crisi... Mi rovino, offro ben 1.000 euro che saranno riconosciuti alle miglior foto autentiche (ragazzi non taroccatele!) della coppia dell'informazione cartacea nazionale. Le foto dovranno essere pubblicate su Flickr con il tag "direttoriinmutande". Il concorso si chiuderà alla fine di luglio con la pubblicazione delle prime 10 foto a mio insindacabile giudizio sottoposte a sondaggio. Il grosso, grasso assegno sarà consegnato da me personalmente e la foto del vincitore pubblicata sul blog. Prego i tritoni De Bortoli e Mauro di non rimanere chiusi in cabina. Sarebbe antisportivo.
http://www.beppegrillo.it/2012/07/direttori_in_mutande.html
Lombardo si confessa a Radio 24 "Voglio coltivare marijuana".
Il governatore Raffaele Lombardo interviene alla trasmissione radiofonica La Zanzara su Radio 24 e annuncia che tra i suoi progetti per il futuro c'è anche quello di coltivare cannabis: "Mi dedicherò all'agricoltura e coltiverò anche la marijuana, so che è illegale ma pazienza". Stuzzicato dai canduttori, Lombardo è intervenuto anche sui gay considerato che tra gli aspiranti presidenti della Regione c'è l'ex sindaco di Gela Rosario Crocetta, omosessuale dichiarato. "Io - ha detto Lombardo - collaboro quotidianamente con omosessuali e qui non c'è nessun problema. Rosario Crocetta è stato sindaco della città più difficile della Sicilia, ha fatto bene, la Sicilia l'ha voluto europarlamentare e potrebbe senza dubbio diventare governatore".
Un passaggio anche sul processo per mafia che lo attende: "Non ho niente a che fare con la mafia e nessun governo ha combattuto e toccato gli interessi della mafia come il mio. La mafia non mi fa schifo, molto di più, mi fa schifissimo. Il 31 luglio mi dimetto di sicuro - ha aggiunto - e non farò mai più politica. Ormai è una cosa che appartiene al passato, non mi candiderò più a niente".
Ma poco dopo Lombardo è tornato sui proprio passi e ha precisato, attraverso il suo blog, che quella dello spinello era solo una provocazione ironica, "surreale". "Ho partecipato alla trasmissione La Zanzara su Radio 24 adeguandomi al tono ironico del programma ed assecondando le provocazioni, sempre simpatiche e mai volgari, dei conduttori, in una conversazione dai toni evidentemente surreali, a partire dalle battute dedicate all'uso di marijuana, distante anni luce dal mio modo di concepire la vita. Esperienze come questa servono a sdrammatizzare la politica ed a rendere più umano ed accessibile il volto di chi governa, troppo spesso eccessivamente impegnato nella gestione delle grandi questioni che quotidianamente coinvolgono una realtà complessa come la Sicilia, da dimenticare anche l'aspetto ludico della vita"
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/07/11/news/lombardo_si_confessa_a_radio_24_vorrei_provare_uno_spinello-38886381/
Perché i privati finanziano i partiti. - Filippo Gregorini* e Filippo Pavesi** (lavoce.info)
Il finanziamento dei partiti da parte di privati rappresenta una minaccia per il processo democratico? I dati sugli Stati Uniti mostrano che i gruppi d’interesse tendono a finanziare le campagne elettorali per motivi ideologici o per influenzare le politiche dei candidati. Più sono trasparenti le informazioni sui finanziamenti privati, maggiore sarà il costo di “comprare” le politiche. E il finanziamento privato può rivelare informazioni sulle capacità dei candidati che quello pubblico per sua natura non può dare.
Una delle obiezioni più frequenti al finanziamento privato ai partiti è che questi verrebbero catturati dai gruppi d’interesse minando alla base la natura stessa del processo democratico.
Per avere qualche elemento utile al fine di verificare la fondatezza di questo rischio è inevitabile prendere spunto da cosa succede negli Stati Uniti, dove le campagne elettorali sono prevalentemente finanziate da privati. A conferma dello spirito liberista americano, una sentenza della Corte suprema federale del 2010 ha eliminato qualsiasi limite ai finanziamenti privati ai partiti: i limiti precedentemente vigenti sono stati ritenuti lesivi della libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento. (1)
È indubbio che le lobby di potere possano avere interesse a finanziare i partiti nel tentativo di condizionare le scelte dei politici o di influenzare il voto. Assumendo che le campagne elettorali abbiano un impatto puramente persuasivo, e quindi non contengano alcuna informazione utile per gli elettori, la loro effettiva influenza sull’esito elettorale dipende da quanto gli elettori stessi siano facilmente manipolabili.
Per avere qualche elemento utile al fine di verificare la fondatezza di questo rischio è inevitabile prendere spunto da cosa succede negli Stati Uniti, dove le campagne elettorali sono prevalentemente finanziate da privati. A conferma dello spirito liberista americano, una sentenza della Corte suprema federale del 2010 ha eliminato qualsiasi limite ai finanziamenti privati ai partiti: i limiti precedentemente vigenti sono stati ritenuti lesivi della libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento. (1)
È indubbio che le lobby di potere possano avere interesse a finanziare i partiti nel tentativo di condizionare le scelte dei politici o di influenzare il voto. Assumendo che le campagne elettorali abbiano un impatto puramente persuasivo, e quindi non contengano alcuna informazione utile per gli elettori, la loro effettiva influenza sull’esito elettorale dipende da quanto gli elettori stessi siano facilmente manipolabili.
Lobby: ideologia e interessi economici
In primo luogo va detto che i finanziatori (e i votanti) vanno distinti tra i cosiddetti ideologici, cioè quelli che tendono a preferire candidati di destra o sinistra indipendentemente dalle politiche adottate, e i non-ideologici, le cui scelte di voto possono essere determinate da preferenze specifiche sulle politiche economiche (fiscali, industriali, sociali).
Prendendo gli Stati Uniti come modello di riferimento, la differenza appare con chiarezza. Come mostra un recente studio, si osserva una distinzione netta tra i gruppi d’interesse ideologici che finanziano prevalentemente democratici o repubblicani, e quelli non-ideologici, tipicamente legati a gruppi industriali. (2) Questi ultimi, nella stragrande maggioranza dei casi, tendono a finanziare i candidati che hanno una maggiore possibilità di essere eletti, nel tentativo di influenzarne le politiche.
Gli elettori ideologici, per loro stessa natura, tendono a essere meno influenzabili e a seguire in modo acritico le linee del loro partito di riferimento. Le campagne elettorali dovrebbero quindi avere un impatto limitato sulle loro scelte di voto.
Prendendo gli Stati Uniti come modello di riferimento, la differenza appare con chiarezza. Come mostra un recente studio, si osserva una distinzione netta tra i gruppi d’interesse ideologici che finanziano prevalentemente democratici o repubblicani, e quelli non-ideologici, tipicamente legati a gruppi industriali. (2) Questi ultimi, nella stragrande maggioranza dei casi, tendono a finanziare i candidati che hanno una maggiore possibilità di essere eletti, nel tentativo di influenzarne le politiche.
Gli elettori ideologici, per loro stessa natura, tendono a essere meno influenzabili e a seguire in modo acritico le linee del loro partito di riferimento. Le campagne elettorali dovrebbero quindi avere un impatto limitato sulle loro scelte di voto.
I votanti più influenzabili sono invece quelli non-ideologici, meglio noti come moderati. In linea teorica, adottare un sistema trasparente in cui sia possibile identificare da quali gruppi d’interesse provengano i fondi per le campagne elettorali, potrebbe ridurre l’influenzabilità di questa parte dell’elettorato.
Una conferma viene da uno studio sui finanziamenti alle campagne elettorali relative alle elezioni congressuali Usa. I dati sui gruppi d’interesse non ideologici, rappresentativi degli interessi industriali, mostrano che le industrie che spendono di più sono quelle che perseguono gli interessi economici di una minoranza ristretta. In altre parole, il prezzo da pagare per l’influenza sui votanti cresce di pari passo con “l’estremismo” delle politiche economiche supportate, in quanto difficilmente digeribili dall’elettorato moderato. (3)
Pertanto, adottare leggi che aumentino la trasparenza dei finanziamenti privati rende più difficile influenzare le politiche per via del loro “costo elettorale”.
Una conferma viene da uno studio sui finanziamenti alle campagne elettorali relative alle elezioni congressuali Usa. I dati sui gruppi d’interesse non ideologici, rappresentativi degli interessi industriali, mostrano che le industrie che spendono di più sono quelle che perseguono gli interessi economici di una minoranza ristretta. In altre parole, il prezzo da pagare per l’influenza sui votanti cresce di pari passo con “l’estremismo” delle politiche economiche supportate, in quanto difficilmente digeribili dall’elettorato moderato. (3)
Pertanto, adottare leggi che aumentino la trasparenza dei finanziamenti privati rende più difficile influenzare le politiche per via del loro “costo elettorale”.
Campagne elettorali e informazioni
In un contesto politico in cui i partiti competono tra di loro per accaparrasi i finanziamenti privati, le stesse lobby non-ideologiche, non avendo una preferenza per uno specifico candidato, hanno tutto l’interesse a finanziare i candidati che hanno maggior probabilità di vincere. Questo non è necessariamente vero per le lobby ideologiche che tendono a finanziare il loro partito di riferimento solo quando l’esito è incerto e la campagna elettorale può fare la differenza.
Come mostrano recenti studi teorici, se i gruppi d’interesse non-ideologici possiedono informazioni in più, rispetto all’elettorato, riguardo ad alcune qualità dei candidati che i votanti valutano positivamente (carisma, reputazione politica, esperienze pregresse), e se le campagne elettorali sono direttamente informative (rivelano anche in minima parte informazioni sulle qualità sottostanti dei candidati), tenderanno a finanziare i candidati più competenti, proprio perché questo genera un maggiore rendimento sul loro “investimento” elettorale. Questo fa sì che gli elettori ricevano informazioni utili per le scelte di voto. L’altro lato della medaglia, è che in cambio dei finanziamenti le lobby chiederanno ai candidati favori politici, che rappresentano un costo per l’elettorato. (4)
Come mostrano recenti studi teorici, se i gruppi d’interesse non-ideologici possiedono informazioni in più, rispetto all’elettorato, riguardo ad alcune qualità dei candidati che i votanti valutano positivamente (carisma, reputazione politica, esperienze pregresse), e se le campagne elettorali sono direttamente informative (rivelano anche in minima parte informazioni sulle qualità sottostanti dei candidati), tenderanno a finanziare i candidati più competenti, proprio perché questo genera un maggiore rendimento sul loro “investimento” elettorale. Questo fa sì che gli elettori ricevano informazioni utili per le scelte di voto. L’altro lato della medaglia, è che in cambio dei finanziamenti le lobby chiederanno ai candidati favori politici, che rappresentano un costo per l’elettorato. (4)
Le argomentazioni a favore del finanziamento pubblico hanno proprio l’obiettivo di evitare la compravendita di policy, ma spesso non tengono in considerazione gli eventuali benefici informativi che possono derivare dal finanziamento privato.
Il finanziamento pubblico in Italia, sia nella sua forma attuale di rimborso elettorale sia nella proposta di modifica presentata in parlamento, non possiede questo potenziale informativo. Entrambe le modalità, nella migliore delle ipotesi, possono rivelare informazioni sulle capacità passate ma nulla dicono riguardo alle competenze dei candidati attuali. Questo potenziale informativo potrebbe essere garantito dal finanziamento pubblico, solo se i fondi venissero erogati in funzione di quanto raccolto privatamente dai candidati.
Tralasciando quindi l’anomalia non solo italiana (basta pensare a Ross Perot candidatosi alle elezioni presidenziali Usa 1992 e 1996) del magnate che autofinanzia la propria “discesa in campo”, forse potrebbe essere utile riaprire il dibattito sul finanziamento privato ai partiti, ridimensionando almeno in parte le paure che ispirarono la legge Piccoli del 1974, che appunto introdusse il finanziamento pubblico ai partiti. Quella legge aveva infatti l’intento di rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi interessi economici.
Il finanziamento pubblico in Italia, sia nella sua forma attuale di rimborso elettorale sia nella proposta di modifica presentata in parlamento, non possiede questo potenziale informativo. Entrambe le modalità, nella migliore delle ipotesi, possono rivelare informazioni sulle capacità passate ma nulla dicono riguardo alle competenze dei candidati attuali. Questo potenziale informativo potrebbe essere garantito dal finanziamento pubblico, solo se i fondi venissero erogati in funzione di quanto raccolto privatamente dai candidati.
Tralasciando quindi l’anomalia non solo italiana (basta pensare a Ross Perot candidatosi alle elezioni presidenziali Usa 1992 e 1996) del magnate che autofinanzia la propria “discesa in campo”, forse potrebbe essere utile riaprire il dibattito sul finanziamento privato ai partiti, ridimensionando almeno in parte le paure che ispirarono la legge Piccoli del 1974, che appunto introdusse il finanziamento pubblico ai partiti. Quella legge aveva infatti l’intento di rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi interessi economici.
(1) Fino al 2010, la legge statunitense (il McCain-Feingold Act, approvato con votazione unanime dai due principali partiti) prevedeva restrizioni al finanziamento di partiti e candidati da parte di corporations e sindacati.
(2) Chamon, E., Kaplan, M., 2012. “The Iceberg Theory of Campaign Contributions: Political Threats and Interest Group Behavior”, American Economic Journal: Public Policy, forthcoming.
(3) Bassetti, T., Pavesi, F., 2012. “Deep Pockets, Extreme Preferences: Interest Groups and Campaign Finance Contributions”, working paper 222, Università di Milano-Bicocca.
(4) Coate, S. 2004. “Pareto Improving Campaign Finance Policy”, American Economic Review, 94, 628-655. E Gregorini, F., Pavesi F., 2011. “Do Campaign Finance Policies Really Improve Voters’ Welfare?”, working paper 209, Università di Milano-Bicocca.
(2) Chamon, E., Kaplan, M., 2012. “The Iceberg Theory of Campaign Contributions: Political Threats and Interest Group Behavior”, American Economic Journal: Public Policy, forthcoming.
(3) Bassetti, T., Pavesi, F., 2012. “Deep Pockets, Extreme Preferences: Interest Groups and Campaign Finance Contributions”, working paper 222, Università di Milano-Bicocca.
(4) Coate, S. 2004. “Pareto Improving Campaign Finance Policy”, American Economic Review, 94, 628-655. E Gregorini, F., Pavesi F., 2011. “Do Campaign Finance Policies Really Improve Voters’ Welfare?”, working paper 209, Università di Milano-Bicocca.
*Attualmente professore a contratto di Microeconomia presso l’Università di Milano-Bicocca, già consulente del World Trade Organization (Ginevra) e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia Politica dell’Università di Milano-Bicocca.
**Collaboratore
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Capacità produttiva dei nostri parlamentari.
Secondo una ricerca di Openpolis alla Camera si è lavorato 80 giorni l'anno, al Senato 50. I parlamentari si difendono: "gli altri giorni siamo sui territori". Ma c'è chi replica: "Solo scuse, sono tutti nominati"
Ottanta giorni di lavoro in un anno alla Camera, cinquanta al Senato. E' questo il numero striminzito di giorni lavorati secondo una ricerca condotta da Openpolis (http://www.openpolis.it/) sulla "capacità produttiva" del nostro Parlamento. E' quanto si ottiene dividendo il numero di ore lavorate dai nostri rappresentanti per otto, cioè la durata media di una giornata lavorativa di un impiegato o di un operaio.
Insomma, Palazzo Madama e Montecitorio non sono proprio abitati da moderni Stakanov. Sostanzialmente, la settimana lavorativa di un parlamentare si concentra dal martedì al giovedì, giorni in cui tradizionalmente si votano in aula i provvedimenti legislativi. Non è raro, invece, trovare l'aula semideserta il lunedì e il venerdì. Molti parlamentari, infatti, valigia in mano, sono pronti a fuggire da Roma il giovedì pomeriggio appena concluse le votazioni per non tornarci prima di lunedì sera. «E' normale che sia così – spiegano in molti - il fine settimana è dedicato alle iniziative sul territorio. Incontriamo gli elettori, partecipiamo ad iniziative, spesso senza soluzioni di continuità. E mancare quegli appuntamenti, non farebbe certo onore al nostro lavoro". Insomma, un modo diverso di espletare il proprio incarico.
Secondo Elio Lannutti, senatore indipendente eletto nelle liste dell'Italia dei Valori, si tratta solo di scuse: « Ma quali territori? Sono tutti nominati. Non hanno collegi con cui mantenere rapporti. Io da quando sono stato eletto, per seguire i lavori in quattro commissioni, neanche mangio. Neanche un panino». Accenti duri verso i propri colleghi, che non trovano riscontro nel resto della categoria, tutta compatta nel respingere l'accusa di disertare i lavori parlamentari. Lucio Malan, senatore del PdL, propone un'alternativa di cui si era discusso ad inizio legislatura « Se ci fosse una settimana al mese libera dai lavori parlamentari, concentreremmo tutte le iniziativa sul territorio in quella settima. Il lavoro di un parlamentare – spiega - non si misura solo dalle ore passate in aula; per presentare un disegno di legge, o un'interpellanza c'è bisogno di uno studio, di preparazione. Ovviamente anche tra noi, chi non vuole fare niente, come in tutte le professioni, può riuscirci».
Altri parlamentari si difendono ricordando come molto del lavoro di un deputato o di un senatore si svolga in commissione. Un lavoro più difficile da quantificare, anche perché a differenza dell'aula in commissione, nonostante le richieste anche di openPolis, ancora non c'è il voto elettronico, che permetterebbe di sapere con sicurezza quanti e quali parlamentari sono presenti in commissione. Ad oggi, siamo ancora nella fase di sperimentazione, e la registrazione delle presenze, ora valida anche ai fini del calcolo della diaria, è demandata al sistema della raccolta delle firme. Un po' come accadeva ai tempi dell'università, quando alcuni studenti firmavano e poi uscivano dall'aula, lo stesso secondo alcune voci provenienti dai palazzi romani accadrebbe in commissione. Un malcostume, almeno ufficialmente, smentito all'unisono da tutta la categoria: «I vizietti hanno nome e cognome - spiega Malan - altrimenti si spara nel mucchio. Io non ho davvero mai avuto questa contezza, però non si dice che magari uno partecipa a tutta la seduta, e si scorda di firmare e perde la diaria. Se il nostro lavoro consistesse nel rimanere seduti in aula per un certo numero di ore a settimana, dovremmo essere pagati come un impiegato di basso livello basso, se facciamo altro, allora ci meritiamo uno stipendio più alto».
Anche Flavia Perina, di Futuro e Libertà, mette l'accento sul problema della qualità del lavoro parlamentare: «Ricordo un'immagine di Calderoli che con un lanciafiamme brucia dei faldoni, a seguito dell'approvazione del decreto semplificazione. Agli italiani risulta che qualcosa oggi sia più semplice? Assolutamente no. Su quel provvedimento di legge abbiamo lavorato moltissime ore e gli esiti sono stati irrilevanti, come nel caso dei decreti attuativi del federalismo. Un lavoro immenso che ha tenuto impegnate le camere per ore e ore. Ma la qualità del lavoro era bassissima, a dispetto della mole del lavoro». L'ex direttore del Secolo si sofferma anche su alcune indubbie migliorie nella trasparenza del lavoro del parlamentare: «Non dimentichiamoci che con l'introduzione delle impronte digitali per votare abbiamo stroncato il malcostume del fenomeno del pianista, il vero problema del Parlamento è che tra il bipolarismo muscolare e la crisi che stiamo vivendo, alla camera si lavora praticamente solo per convertire i decreti del governo. In questo, c'è oggi il vero limite dell'attività parlamentare».
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Tutti a casuccia loro!
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