di Giona A. Nazzaro
Con la rutilante potenza di una macchina inarrestabile, Hollywood continua a produrre irresistibile cinema politico di massa. Apparentemente una contraddizione in termini, stando a certi pregiudizi elitisti. In realtà una genuina forma di controinformazione diretta che non è filtrata dal tetto della raccolta pubblicitaria o del pregiudizio ideologico dell’emittente o editore di turno ma solo attraverso l’efficacia spettacolare del prodotto. La velocità di un raccordo di montaggio diventa il segno di una connessione o di un’intuizione. La presunta superficialità l’arma in più per centrare il bersaglio. Con la libertà concessa solo alla grande cultura popolare e autenticamente di massa, il cinema statunitense sta offrendo uno spettacolo estremamente interessante di come si rielabora in tempo reale una guerra che non si riesce a chiudere.
In Leoni per gli agnelli, Robert Redford mostra a un studente disilluso una cicatrice sulla fronte celata alla vista dalla sua chioma ancora bionda. Il ragionamento è evidente. Per affrontare il trauma del Vietnam, il cinema americano ha impiegato molto tempo. Forse addirittura battuto sul tempo dall’effetto shock prodotto dalle immagini televisive di giornalisti impegnati in prima film contro il conflitto nel sudest asiatico.
Con le guerre in Iraq e in Afghanistan, il cinema hollywoodiano ha reagito in tempo reale offrendo l’immagine di un’industria sana e critica che i propri panni non ci pensa nemmeno lontanamente a lavarli in casa. Basti pensare ancora al superbo dramma del petrolio che è Syriana. Se Redford ha dato il via a questo particolarissimo filone, Brian De Palma con Redacted e Kathryn Bigelow con The Hurt Locker, senza contare titoli meno riusciti come The Messenger – Oltre le regole e il mediocre Brothers, hanno affrontato a testa bassa le conseguenze del conflitto iracheno e afghano trasformandolo incontestabilmente in un “fatto di cinema”.
In questo senso Green Zone di Paul Greengrass, autore dei capitoli più riusciti della saga dell’agente smemorato Bourne, che aveva esordito con Bloody Sunday, dimostra non solo che è possibile produrre un cinema schiettamente politico, ma che questo non debba affatto soccombere alla noia o al vezzo di predicare solo ai già convertiti.
Green Zone segue Matt Damon militare impegnato nella localizzazione dei siti dove sarebbero custodite le famigerate armi di distruzione di massa di Saddam. Poco alla volta al soldato Damon sorge il sospetto che ci sia qualcosa che non funziona nei flussi di informazione che l’intelligence e i servizi offrono ai militari. Poco alla volta Greengrass evidenzia come e perché è nato l’inganno delle armi di distruzione di massa. A chi serviva e chi lo ha manipolato. Di fatto spiegandoci come mai gli Stati Uniti sono ancora in guerra. Questo è cinema popolare.
Con la lucidità dei grandi film paranoici degli anni Settanta post-Watergate, Greengrass mette in piedi un universo che potrebbe essere benissimo quello del super-agente Jack Bauer di 24. Nessuno è ciò che sembra. La verità è una valuta estremamente pregiata che viaggia meglio se falsa perché più leggera. Tra le strade di Baghdad, che si trasformano poco alla volta in budelli guardati a vista da cecchini, Matt Damon tenta, con l’aiuto di un Brendan Gleeson anziano agente della CIA, di evitare che la città diventi una polveriera più di quanto non lo sia già. Fatalmente essere paranoici significa semplicemente non ti fidare di nessuno e resta in vita più che puoi.
Al di là della grande lezione etica di Green Zone, Paul Greengrass si dimostra superbo montatore di azioni frenetiche messe in scene con impeccabile chiarezza, nonostante l’abbondante uso di macchina a spalla e a mano. Lo sguardo non si smarrisce mai fra gli innumerevoli tagli di montaggio, evidenziando straordinaria abilità nell’equilibrare tutte le informazioni necessarie alla comprensione della vicenda senza sacrificare mai il tasso adrenalinico della vicenda.
Provate a immaginare un film animato da tale autonomia e libertà in Italia. Un film diretto al grande pubblico, ovviamente, e non al solito manipolo di bene informati. Un film italiano “politico” distribuito in tutto il mondo che ti trovi tanto nei multiplex quanto nelle sale di provincia (quelle che ancora resistono all’avanzata della fine). Impossibile, vero? Immaginate i distinguo, le discussioni e le polemiche che alla fine non fanno altro che partorire il solito topolino miserrimo?Green Zone è tutt’altro: cinema. E si va a vederlo soprattutto per questa ragione. Il plusvalore del film sta in tutto ciò che lo spettatore porta a casa dopo che si sono accese le luci in sala. Paghi uno e prendi tre.
Green Zone è cinema politico. Cinema complesso. Che non rinuncia a una sola oncia di spettacolo senza praticare sconti a nessuno. E mentre in Italia si continua impunemente a blaterare di “americanate” e di “impegno”, film come Green Zonesbugiardano i governi e divertono chi paga il biglietto. A dirla così, sembra proprio una cosa comunista e invece è solo Hollywood.
(15 aprile 2010)