Come gli capita troppo spesso negli ultimi tempi, il presidente del Consiglio non aveva capito che gli umori del Paese avrebbero messo alle corde la resistenza del partito di Bossi. Così, i suoi pronostici ottimistici, fondati su un voto segreto che avrebbe dovuto mascherare il tradimento dei leghisti rispetto alle dichiarazioni ufficiali, si sono scontrati, ancora una volta, con una realtà che sembra ormai sfuggirgli.
Eppure, gli sarebbe bastato notare quella mancata presenza e il plateale spostamento di Maroni dai banchi del governo a quelli del suo gruppo alla Camera per comprendere che nella Lega si è chiusa una stagione e, con essa, forse anche una legislatura.
Occorreva un’occasione importante perché l’azionista di riferimento di questo governo, la Lega, mandasse questo segnale di distacco al suo amministratore delegato, Silvio Berlusconi. E la giornata alla Camera, ieri, è stata addirittura drammatica e dall’esito sconvolgente, perché da quasi trent’anni l’assemblea di Montecitorio non spediva un suo deputato dietro le sbarre di un carcere. Ma l’esito non era certo prevedibile per chi si fosse ostinato a seguire solo le liturgie del Palazzo, collaudate in anni di accordi trasversali, tra tutti i partiti, per difendere ad oltranza chiunque, tra quelle mura, fosse indagato anche con gravissime accuse. Bisognava intuire che la pressione dei cittadini contro una classe politica, apparsa inadeguata rispetto alla gravità dei problemi del Paese e indifferente di fronte ai sacrifici imposti, avrebbe sconvolto l’ordinario rito corporativo delle Camere e spezzato l’anello più sensibile della maggioranza, il partito della Lega.
Solo i prossimi mesi chiariranno se l’assenza di Bossi, ieri nell’aula di Montecitorio, abbia avuto anche un altro significato: quello del passaggio di testimone di una leadership così carismatica e, fino a poco tempo fa, del tutto indiscussa. Se sarà Maroni a ereditare la guida della Lega o se la lotta per la successione provocherà una guerra fratricida, con una conclusione, magari, del tutto sorprendente. Ma il motivo di fondo del cambio di rotta clamorosamente annunciato ieri è già abbastanza chiaro: è finita, nella Lega, l’illusione che, pur di conquistare il federalismo, valesse la pena sopportare il sempre più faticoso appoggio a Berlusconi, alle sue leggi ad personam, ai suoi stili di vita, ai suoi metodi di governo. Per una contraddizione evidente e molto concreta: da una parte, gli effetti positivi per il Nord del federalismo fiscale appaiono lontani e molto dubbi, man mano che i decreti attuativi vengono approvati; dall’altra, tutti i tagli e le manovre del governo finiscono per penalizzare soprattutto le risorse degli enti più vicini al territorio, Comuni e Regioni. Con il risultato, reso evidente del voto delle amministrative, di una rivolta degli elettori della Lega, costretti a subire riduzioni dei servizi locali, senza vedere vantaggi da un sogno federalista rivelatosi assai deludente.
E’ difficile prevedere se, in questa situazione di sbando parlamentare e governativo, la maggioranza numerica che sostiene Berlusconi, pur con la clamorosa eccezione del voto di ieri alla Camera, potrà resistere ancora. Certo il segnale lanciato dalla Lega, alla Camera, è molto forte. Ma più determinante per la sorte della legislatura sarà, forse, l’andamento dei mercati nelle prossime settimane. L’esito del vertice europeo, formalmente convocato per il salvataggio della Grecia, ma dedicato soprattutto alla difesa dell’euro, potrebbe aiutare anche il nostro governo, così traballante. Ma il logoramento politico di questi giorni, tra sconfitte parlamentari e dilagante sfiducia dei cittadini, non aiuta a offrire al mondo l’immagine di un’Italia pronta a superare una delle crisi più difficili della sua storia.