giovedì 21 luglio 2011

La fine di un'illusione. - di Luigi La Spina



Può sembrare un paradosso. In una giornata politica di fortissima tensione, con le aule parlamentari ribollenti di urla, litigi al limite dello scontro fisico, e sintetizzata persino da un pugno sul tavolo sferrato dal presidente del Consiglio, i veri protagonisti sono stati due: una assenza e un lungo silenzio. La prima è stata quella di Umberto Bossi. Il secondo è stato quello che ha accolto il sì della Camera all’arresto di un suo componente. L’assenza certificava l’impossibilità, da parte del leader della Lega, di mantenere quel patto con Berlusconi che ha varato la legislatura e ha sostenuto per tre anni il governo. Il silenzio esprimeva la sorpresa, lo sconcerto, il disorientamento, quasi il panico dei deputati che assistevano alla fine di quell’intesa senza che se ne potesse intravedere un’altra.

Come gli capita troppo spesso negli ultimi tempi, il presidente del Consiglio non aveva capito che gli umori del Paese avrebbero messo alle corde la resistenza del partito di Bossi. Così, i suoi pronostici ottimistici, fondati su un voto segreto che avrebbe dovuto mascherare il tradimento dei leghisti rispetto alle dichiarazioni ufficiali, si sono scontrati, ancora una volta, con una realtà che sembra ormai sfuggirgli.

Eppure, gli sarebbe bastato notare quella mancata presenza e il plateale spostamento di Maroni dai banchi del governo a quelli del suo gruppo alla Camera per comprendere che nella Lega si è chiusa una stagione e, con essa, forse anche una legislatura.

Occorreva un’occasione importante perché l’azionista di riferimento di questo governo, la Lega, mandasse questo segnale di distacco al suo amministratore delegato, Silvio Berlusconi. E la giornata alla Camera, ieri, è stata addirittura drammatica e dall’esito sconvolgente, perché da quasi trent’anni l’assemblea di Montecitorio non spediva un suo deputato dietro le sbarre di un carcere. Ma l’esito non era certo prevedibile per chi si fosse ostinato a seguire solo le liturgie del Palazzo, collaudate in anni di accordi trasversali, tra tutti i partiti, per difendere ad oltranza chiunque, tra quelle mura, fosse indagato anche con gravissime accuse. Bisognava intuire che la pressione dei cittadini contro una classe politica, apparsa inadeguata rispetto alla gravità dei problemi del Paese e indifferente di fronte ai sacrifici imposti, avrebbe sconvolto l’ordinario rito corporativo delle Camere e spezzato l’anello più sensibile della maggioranza, il partito della Lega.

Solo i prossimi mesi chiariranno se l’assenza di Bossi, ieri nell’aula di Montecitorio, abbia avuto anche un altro significato: quello del passaggio di testimone di una leadership così carismatica e, fino a poco tempo fa, del tutto indiscussa. Se sarà Maroni a ereditare la guida della Lega o se la lotta per la successione provocherà una guerra fratricida, con una conclusione, magari, del tutto sorprendente. Ma il motivo di fondo del cambio di rotta clamorosamente annunciato ieri è già abbastanza chiaro: è finita, nella Lega, l’illusione che, pur di conquistare il federalismo, valesse la pena sopportare il sempre più faticoso appoggio a Berlusconi, alle sue leggi ad personam, ai suoi stili di vita, ai suoi metodi di governo. Per una contraddizione evidente e molto concreta: da una parte, gli effetti positivi per il Nord del federalismo fiscale appaiono lontani e molto dubbi, man mano che i decreti attuativi vengono approvati; dall’altra, tutti i tagli e le manovre del governo finiscono per penalizzare soprattutto le risorse degli enti più vicini al territorio, Comuni e Regioni. Con il risultato, reso evidente del voto delle amministrative, di una rivolta degli elettori della Lega, costretti a subire riduzioni dei servizi locali, senza vedere vantaggi da un sogno federalista rivelatosi assai deludente.

E’ difficile prevedere se, in questa situazione di sbando parlamentare e governativo, la maggioranza numerica che sostiene Berlusconi, pur con la clamorosa eccezione del voto di ieri alla Camera, potrà resistere ancora. Certo il segnale lanciato dalla Lega, alla Camera, è molto forte. Ma più determinante per la sorte della legislatura sarà, forse, l’andamento dei mercati nelle prossime settimane. L’esito del vertice europeo, formalmente convocato per il salvataggio della Grecia, ma dedicato soprattutto alla difesa dell’euro, potrebbe aiutare anche il nostro governo, così traballante. Ma il logoramento politico di questi giorni, tra sconfitte parlamentari e dilagante sfiducia dei cittadini, non aiuta a offrire al mondo l’immagine di un’Italia pronta a superare una delle crisi più difficili della sua storia.

Verso il Disgelo.





Molti domandano, a volte anche in buona fede, come faranno i giornalisti che si sono accanitamente opposti a Berlusconi e al berlusconismo, e magari hanno fatto fortuna sull’antiberlusconismo, a campare quando la lunga agonia del suo tempo politico finira’. La domanda non è soltanto oziosa o polemica. Sarà effettivamente necessario un periodo di riaggiustamento, perchè questa lunga notte della ragione e del nulla che ha travolto l’Italia, limitando i danni e le tentazioni di regime grazie alla nostra appartenenza a una comunità di nazioni, è stata una droga per tutti, amici e nemici, e disintossicarsi dal bipolarismo – nel senso psichiatrico, non politico – non sarà facile. Dovremo rimparare a camminare, come fa chi esce da un’ ingessatura e lascia le stampelle. Ma come il mondo esisteva prima di SB, così continuerà a esistere dopo SB anche nell’ informazione. Capisco che nei suoi sostenitori onesti (non parlo dei sicari o dei sicofanti, quelli troveranno altri padroni da servire, essendo servi) come nei suoi avversari il pensiero di un’ Italia che non abbia più un Berlusconi da venerare o da detestare, da adulare o da maledire, da difendere o da attaccare, produca un senso di vertigine e di vuoto dopo quasi vent’anni, testimoniato dalla famosa e angosciata frase: “Chi potrebbe prendere il suo posto?”. Nessuno potrà prendere il suo posto, per fortuna e speriamo per un lungo periodo, nel quale, se vorremo davvero disintossicarsi, dovremo tutti riprenderci le nostre responsabilità di giornalisti, di imprenditori, di politici, di cittadini, senza attribuire ogni colpa a lui e senza aspettarci, come ancora tragicamente fanno alcune “ultime raffiche”, che lui sfoderi l’arma segreta per risorgere e uscire dalle rovine della cancelleria nella quale si e’ asserragliato con i suoi fidi. C’e’ un intera generazione di ventenni che non ha mai conosciuto un’Italia sulla quale non incombesse Lui, dall’ opposizione o dal governo, nelle polemiche, nelle tv, nei giornali, nei nuovi media, giovani che non riescono a concepire, a immaginare, una nazione senza SB. Sarà duro e sarà bello ricominciare a vivere nell’ Era del, Dopo Berlusconi, e non mancheranno argomenti, avversari, battaglie, opinioni. Anzi. Non vedo l’ora che cominci.



Il disfacimento di Berlusconi. - di Luca Telese


Dopo il voto della Camera a favore dell'arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa, il premier batte il pugno sul tavolo e grida: "Sono impazziti, vergogna". Il sospetto del tradimento di Bossi lo turba. Così finisce un ventennio di consenso al Cavaliere.

“Sono impazziti, è una vergogna!”, grida Silvio Berlusconi, e batte il pugno sul banco e si incazza, e corre inseguito da due ali di ministri nei meandri di Montecitorio, verso la stanzetta del presidente del Consiglio, sguardi attoniti passi di minuetto, la faccia stupefatta di Michela Brambilla e quella costernata di Andrea Ronchi dietro di lui, e rumori di tacchi, forse anche così finisce un’era. Questi sono impazziti: il paese che si congeda dal ventennio di consenso al Cavaliere, i parlamentari che sfuggono al controllo dei capibastone, un blocco di ghiaccio che si scioglie per colpa di un dito.

GIÀ, IL DITO. Il dito indice della Creazione, ma anche quello del voto elettronico. Nel primo pomeriggio questo dito lo roteava Tonino Di Pietro, in pieno Transatlantico, come se fosse un’arma. “Vedi? Se voti con l’indice attaccato alla buca dei tasti di voto, si vede solo quello. E se hai dentro la buca un solo dito, non puoi andare sul tasto del no!”. Intorno deputati, giornalisti, le portavoci del gruppo dell’Italia dei Valori. Di Pietro sorride alla sua capoufficio stampa, Fabiola Paterniti. “Sai che faccio io? Mentre voto mi scatto una foto con il telefonino e poi lo mettiamo sul blog!”.

Esce dall’aula elettrizzato dal dito anche Dario Franceschini, capogruppo del Pd. Per un giorno intero tutti dicevano che il suo gruppo sarebbe crollato, sotto il peso dei franchi tiratori, protetti dallo scudo del voto segreto. È accaduto esattamente il contrario. E adesso Franceschini, mentre corre verso la sala stampa con passo garibaldino sorride: “Se non ci fosse stato il dito la Lega non sarebbe crollata”. Cioè? “Ha avuto un peso di deterrenza, no? Mi pare chiaro. L’idea che il nostro voto fosse trasparente, ha impedito la sommersione di chi voleva votare a favore. Ed è questo che ha spaccato la Lega. Se Papa si salvava, era chiaro che si trattava di loro”. Già, la Lega. Quanto conta quel colpo d’occhio dall’alto della tribuna, la feroce sintesi dei simboli. Umberto Bossi non c’era. E tra i banchi svettava Bobo Maroni, questa volta più vicino ai suoi che al governo. I “Maroniti”, ormai tutti li chiamano così, sono stati quelli che seguendo il grande ventre della base popolare del Carroccio hanno spinto in ogni modo sul sì. Prima in commissione, poi in aula.

Più di tutti vale il racconto di Anna Rossomanno, deputata piemontese del Pd, che ha seguito il caso Papa nel dettaglio. “Vedi, già in quei giorni del voto c’erano segnali importanti e stupefacenti, su come stava montando la marea nella Lega”. Ovvero? “Due colleghi del partito di Bossi mi hanno fatto vedere i loro telefonini: mentre noi discutevamo di Papa, erano tempestati di messaggini di militanti che li azzannavano. ‘Mica manderete libero quello lì’”. Quello lì. Papa, “il terrone”. Pier Luigi Bersanirilascia interviste sulla rampa del giardino: “È finito il vincolo di maggioranza”. Ci deve essere un mondo che scompare e il sipario di un’epoca che si avvicina all’ultimo atto, anche nella reazione a catena che si potrebbe innescare. Sì a Papa e Sì anche a Milanese, ma poi perché dire No, allora, per i reati del Ministro Saverio Romano? La grande montagna dell’emiciclo pidiellino rumoreggiava cori e insulti – “Vergogna!” – contro quelli che chiedevano l’arresto, e sommergevano letteralmente di improperi Rita Bernardini che diceva: “Il 40 per cento degli italiani sono in carcere per la custodia cautelare. Ma non abbiamo fatto nulla per loro. Quindi, noi Radicali, riteniamo di dover votare…”. E parte il grido: “Buffona!”. La Bernardini non si scompone: “Votare sì”. Torna a battere sullo stesso tasto, Benedetto Della Vedova di Futuro e libertà: “Il vostro rigore garantista , onorevole Paniz, non l’ho ascoltato quando in gioco c’era la libertà dei poveracci”.

Ci deve essere un mondo che finisce nell’ira con cui Silvio Berlusconi in serata, dopo il voto insegue Bossi, con il sospetto del tradimento che gli scava dentro. “Chiarirò con lui. Questo è un gioco allo sfascio, così finisce anche la Lega”. In fondo anche il Senatùr è chiuso dentro un paradosso feroce: o è sospettato di aver fatto un gioco delle parti con Maroni. Oppure è sospettato di non controllare più lui il gruppo parlamentare del partito (e forse nemmeno più il partito). Forse c’è un’epoca che finisce nella regolare sfida a duello che si inscena in Transatlantico fra il casiniano Angelo Cera e il pidiellinoVincenzo D’Anna: “Se vuoi usciamo di fuori e la regoliamo come dico io”, grida il deputato dell’Udc. E D’Anna, sarcastico: “Allora facciamo così. Quando arriva l’autorizzazione su Cesa ci divertiamo!!”.

FORSE il mondo che finisce lo puoi leggere anche nelle parole di Roberto Castelli, uomo forte del Carroccio che dice: “Berlusconi è arrabbiato? Mi dispiace perché domani io gli darò un altro dispiacere votando contro la missione”. E come mai l’arringa di Maurizio Paniz questa volta non fa presa? Come mai tutti dicono che l’Udc potrebbe smarcarsi invece non accade nulla? Quando il voto si celebra Rosy Bindi corre via dall’aula, con le lacrime agli occhi: “Piange per Papa?”. E lei: “No. Per quel poveraccio mi dispiace. Ma sto piangendo di gioia perché il voto di oggi è una grande prova per questo paese, un segnale che la politica può cambiare”. Le lacrime della Bindi, e l’ira di Berlusconi. Forse anche così passa un’epoca. Berlusconi ha perso molte battaglie, in questi mesi. Ma è la prima volta che vediamo la sua rabbia indiretta, la sua impotenza, il suo pugno che batte sul tavolo. Forse è la prima volta che vediamo il Cavaliere rappresentare la sua debolezza in diretta televisiva, sotto l’occhio delle telecamere. Una debolezza che potrebbe costargli cara.





Precedenti di questo articolo



Appalti e mazzette, il business del caro estinto Dal San Raffaele fino al Comune di Milano. - di Davide Milosa.


La moglie di Mario Cal, il vice di Don Verzè, morto suicida il 18 luglio scorso, per anni ha gestito un'impresa di pompe funebri all'interno dell'ospedale di Segrate. Si tratta della Generali che h affidato i lavori a Mario Sciannameo, imputato per associazione a delinquere nel processo milanese sul racket dei funerali.


Mario Cal, storico braccio destro di don Verzè, entra nel suo ufficio poco dopo le dieci di mattino del 18 luglio. Dodici giorni prima, complice un buco di bilancio di 900 milioni, il cda del San Raffaele è stato rimescolato con l’ingresso di quattro uomini del Vaticano. La Santa Sede garantisce un piano di salvataggio e 200 milioni sicuri dalle casse dello Ior. Per l’ex vice presidente della Fondazione del Monte Tabor che controlla l’ospedale di Segrate la partita si chiude quel giorno. Il resto avviene il 18 luglio. Il rewind dei fatti è impietoso: pochi minuti dopo le dieci, due spari, quindi la corsa in rianimazione, la concitazione, la paura, alla fine il decesso. Mario Cal, 71 anni, muore così. Un suicidio sul quale si allungano due lettere lasciate alla famiglia, l’ombra di un giallo (poi risolto) sulla pistola (calibro 38 Smith Wesson detenuta regolarmente), una dinamica tutta da ricostruire e un movente ancora da cercare. Molte ipotesi e poche certezze. La più accreditata ruota attorno a quel buco finanziario per il quale ora la procura di Milano pensa anche a un’istanza di fallimento da avanzare nei confronti del San Raffaele.

In realtà, sulla figura di Mario Cal e su quella di sua moglie Redentina Besana, pesa anche un’altra storia non meno inquietante. Una storia che mette insieme interessi nel giro delle pompe funebri e che da qui rimbalza dentro al cuore di Milano, pescando nel far west di bare e sepolture. Una storia (ancora tutta d accertare dal punto di vista giudiziario) che racconta di singolari tavolini con la politica per spartirsi il business del caro estinto, di regole scritte sotto dettatura e di strane municipalizzate concepite e poi abortite in pochi mesi. Una storia che squaderna i nomi dei tanti comprimari che hanno calcato il proscenio giudiziario di Mani Pulite.

Ecco allora i fatti. Nell’agosto del 2010, l’associazione Sos Racket usura denuncia strane collusioni tra diversi ospedali e alcune imprese di pompe funebri. Due anni prima la procura di Milano con l’operazione Caronte scoperchia il pentolone dell’illecito: cartelli d’impresa che in totale monopolio e grazie a un vorticoso giro di mazzette si spartiscono il mercato. Sul registro degli indagati finiscono nomi eccellenti come Alcide Cerato (patron dell’impresa San Siro, leader a livello nazionale) e Mario Sciannameo, socialista della prima ora, grande amico dell’ex presidente del Pio Albergo TrivulzioMario Chiesa e, naturalmente, navigato ras del settore pompe funebri. I due, assieme, ad altre persone finiscono a processo.

Nel 2010, secondo Frediano Manzi, presidente dell’associazione Sos racket e usura poco è cambiato. Il dubbio viene girato a Renato Miazzolo presidente della Feniof (Federazione nazionale onoranze funebri). Tra i due il discorso è schietto. Niente formalismi. Si va subito al sodo. E si affrontano argomenti delicati. Su tutti (ma non solo) quello di Mario Cal e di un’impresa di pompe funebri, la Generali srl che al San Raffaele lavora in regime di monopolio. Strano, ma non troppo. Il grave arriva dopo, quando Miazzolo svela: “La Generali è di Mario Cal, ma viene gestita dalla moglie e ultimamente chi dirige i lavori è il nipote di Cal”. In realtà l’amministratore di questa srl è un signore di Varese. Socio unico, invece, è la fiduciaria Bankonrd spa con sede nel centro di Milano. Qui, una parte delle quote, risulta intestata alla moglie del braccio destro di don Verzè, Redentina Besana. E del resto, questo ginepraio societario, era già stato svelato nel 1997 da un articolo del Corriere della Sera. L’allora portavoce del San Raffaele Gabriele Battipaglia spiegava che “da una decina d’anni esiste una convenzione con la società di pompe funebri Generali (…) e non abbiamo problemi a confermare che la Generali è intestata a Redentina Besana, moglie di Mario Cal”. E già all’epoca il dottor Miazzolo rispondeva: “Siamo contrari alla presenza di imprese private negli ospedali a qualsiasi titolo”.

Nel 2010, davanti a Manzi che naturalmente registra l’intero colloquio, Miazzolo racconta qualcosa di più: “Le operazioni dentro al San Raffaele vengono gestite dalla Magugliani srl per conto di Generali”. Il Fatto ha tentato di contattare Miazzolo per ottenere una conferma. “Il presidente è in vacanza e non è raggiungibile”, ci è stato risposto dal segretario nazionale della Feniof Alessandro Bosi.

Il quadro, comunque, è chiaro: la Generali da anni gestisce i morti del San Raffaele, lo fa in regime di quasi monopolio e in pieno conflitto d’interessi, visto il tipo di proprietà che sta dietro a questa srl. Di più: un imprenditore del settore, che preferisce restare anonimo e che chiameremo Carlo conferma “il monopolio della Generali” da un lato “e i lavori subappaltati alla Magugliani” dall’altro. Carlo, poi, aggiunge un particolare: “Oggi davanti alla camera mortuaria ci sono due impiegati, uno della Generali e uno della Magugliani”.

Ma chi c’è dietro a quest’altra impresa? Una semplice visura camerale risponde alla domanda: la società è riconducibile a quel Mario Sciannameo, grande amico dell’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa. Nel 2008 Sciannameo finisce indagato per associazione a delinquere nell’inchiesta Caronte coordinata dal pm Grazia Colacicco. Oggi è un imputato in attesa di giudizio. Particolare che rende ancora più imbarazzante la posizione di Mario Cal e di sua moglie, naturalmente mai coinvolti penalmente.

Giunti a questo punto, però, la vicenda, partita dalla stanza mortuaria del San Raffaele, atterra direttamente sui tavoli di palazzo Marino, squadernando per intero il grande business del caro estinto. Riassumiamo: nel 2010 Miazzolo confida a Manzi il collegamento di Mario Cal con la Generali srl. Nel 2008 la procura di Milano svela il racket del caro estinto. Un anno prima, nel luglio 2007, e dunque a indagini ancora coperte, nasce il Consorzio servizi funebri La Fenice composto da 23 imprese. Tra queste la Magugliani riconducibile a Sciannameo e la Generali della moglie di Mario Cal.

A cosa serve il consorzio? Secondo Miazzolo a fare cartello per spartirsi il 50% del mercato. Mentre l’altro 50%, stando sempre alle parole del presidente della Feniof, andrebbe alla San Siro di Alcide Cerato. L’intero progetto, stando a una denuncia fatta da Manzi ai Nas nell’agosto 2010 e trasmessa al pm Grazia Colacicco, prende forma negli uffici del Comune di Milano.

Siamo nella primavera-estate 2007. E’ in questo momento che nasce l’idea di creare la Mi.Sef. (Milano ser vizi funebri), una municipalizzata che ufficialmente ha il compito di mettere fine al far west del settore visto che a dire dello stesso assessore di allora Stefano Pillitteri “nelle pompe funebri a volte tira aria da Chicago anni Venti”.

Ecco cosa succede, seconda la versione, ancora tutta da verificare, del presidente di Sos racket e usura. Nella sua denuncia Manzi riporta un colloquio avuto con Alcide Cerato nel 2008: “Mi raccontò di un grande business che era la creazione da parte del comune di Milano di una società municipalizzata denominata Mi.Sef”. Dopodiché lo stesso Cerato racconta “di un incontro, in Comune, dove viene proposto al Cerato di gestire il 50% degli appalti e l’altro 50% al gruppo Varesina”. Gruppo, quest’ultimo, riconducibile al duo Sciannameo-D’Antoni. Questo denuncia Manzi in due verbali dell’agosto 2010 che hanno dato il via a un’inchiesta ad oggi priva d’indagati. Il quadro viene confermato dallo stesso Renato Miazzolo che conferma “l’incontro per la spartizione del mercato ai due gruppi”. Miazzolo, però, racconta anche che l’accordo non fu trovato. Da qui in poi la storia è nota: nell’ottobre 2008 la squadra Mobile procede agli arresti. Un anno dopo il progetto Mi.Sef naufraga definitivamente. “Ma quello – racconta lo stesso Pillitteri – era un progetto che andava contro gli stessi interessi dei due consorzi. La Mi.Sef. aveva l’obiettivo di regolamentare una piccola fetta di mercato legata alle lapide e ai giardini. E comunque quell’idea fu bocciata da un movimento lobbistico politicamente trasversale. Manzi ha preso un abbaglio”

Questi i fatti. Una parte della storia finisce comunque dentro a una cella di Opera. Quella in cui sarà rinchiuso per qualche settimana del 2008 Alcide Cerato. In quei giorni il via vai dei notabili lombardi è impressionante. Il patron della San Siro, infatti, riceve le visite di Roberto Formigoni, del deputatoGiancarlo Abelli (Pdl), di Matteo Salvini (Lega), di Massimo Ponzoni e di Stefano Maullu (Forza Italia).


mercoledì 20 luglio 2011

Germania, entrate fiscali record. Niente “lacrime e sangue”, il segreto è la crescita. - di Mauro Meggiolaro


Il Pil tedesco è cresciuto del 3,6% nel 2010 e del 5,2% nel primo trimestre del 2011. Alla base dell'aumento delle entrate non ci sono misure di austerità ma, appunto, un'economia capace di crescere. E anche a Berlino è in arrivo lo scudo fiscale, ma con misure più rigide (e introiti più alti) di quello italiano.


Sullo stato tedesco piovono nuove entrate fiscali per 22 miliardi di euro. L’ha reso noto il quotidiano economico Handelsblatt, citando fonti governative. “A giugno, il mese più importante per il fisco, le entrate sono cresciute in media del 9,8% rispetto al primo semestre del 2010”, scrive il giornale. In crescita dell’8,2% il gettito dell’Umsatzsteuer (Iva) e del 10,9% quello della Lohnsteuer (imposta sul salario). Alla base della crescita record delle entrate non ci sono misure di austerità, né manovre “lacrime e sangue” ma solo la crescita economica, la stessa che da dieci anni manca nel nostro paese. Il Pil tedesco è cresciuto del 3,6% nel 2010 e del 5,2% (anno su anno) nel primo trimestre del 2011, contro il +1,1% dell’Italia a fine 2010 e il +1% a fine marzo 2011.

Ma il dato che influisce di più sulle maggiori entrate è sicuramente quello dei nuovi posti di lavoro: nel primo trimestre del 2011 sono 552.000 rispetto allo stesso periodo del 2010 (+1,4%). “Il numero degli occupati in Germania è salito a 40,4 milioni”, spiega in una nota l’istituto nazionale di statistica Destatis. “E’ il livello più alto dai tempi della riunificazione (1990)”. Lo stesso Handelsblatt non esita a usare il termine Jobwunder (miracolo occupazionale) e anticipa che il governo avrebbe già raggiunto “un accordo per allentare la pressione fiscale sui cittadini”, senza però citare alcun dettaglio.

Nei prossimi mesi altri miliardi di euro potrebbero arrivare all’agenzia delle entrate di Berlino dal trattato fiscale con la Svizzera, che sta per essere siglato in questi giorni. Come è successo in Italia i nomi degli evasori rimarranno segreti, in cambio però le banche svizzere verseranno subito un anticipo di 4 miliardi di euro allo stato tedesco, per rivalersi poi sui clienti, prelevando fino al 30% dei redditi generati dal capitale depositato oltrefrontiera negli ultimi dieci anni. Il governo, che stima in 150 miliardi di euro i depositi tedeschi in Svizzera, prevede di recuperare altri 6 miliardi di euro (oltre all’anticipo) dalla tassazione dei redditi da interesse, incassando un totale di 10 miliardi di euro dall’amnistia.

“E’ un premio per gli evasori, soprattutto per quelli che sono rimasti per più a lungo nell’illegalità”, ha dichiarato Thomas Eigenthaler, rappresentante sindacale dell’agenzia delle entrate tedesca. “E’ come un pugno in faccia per i cittadini onesti”. Eigenthaler mette in dubbio anche il sistema di compensazione previsto dall’accordo, visto che non ci sarà alcun controllo sul fatto che le banche svizzere, una volta pagato l’acconto, prelevino poi effettivamente le imposte dovute da tutti i clienti. “Cosa succede se un cliente, per evitare di pagare, decide di farsi restituire i soldi in contanti per trasferirli poi da un’altra parte?”.

A queste domande risponderà molto probabilmente l’agenzia delle entrate nei prossimi mesi. Intanto una cosa sembra chiara: la Germania potrebbe recuperare dai conti svizzeri fino al doppio degli introiti dell’ultimo scudo fiscale italiano (che ha portato alle casse dello stato circa 5,6 miliardi di euro), nonostante i patrimoni italiani in Svizzera (pre-scudo) fossero stimati a 125 miliardi di euro, una cifra non molto lontana dal livello tedesco. L’imposta prevista dallo scudo italiano (50% dei redditi generati su un rendimento lordo presunto del 2% annuo) è stata infatti applicata su un periodo di cinque anni: la metà dell’arco temporale considerato dai tedeschi.




Lega Nord, polemiche interne sul Trota “Consigliere regionale senza requisiti”. - di Alessandro Madron


Mal di pancia nel partito sul figlio di Umberto Bossi, entrato nell'assemblea regionale lombarda senza rispetto dei criteri di anzianità di militanza richiesti dal Carroccio. Il rampollo del Senatur, infatti, solo da poco ha richiesto la tessera di socio militante. A rigor di statuto gli mancano 4 anni di vita politica.


LUINO (Varese) – Le regole valgono per tutti tranne che per il figlio del Capo. In queste ore all’interno della Lega serpeggia una voce insistente, figlia della chiara frattura che si è aperta tra due modi di intendere il partito: quello fedele alla linea e quello fedele al Capo. Il protagonista è Renzo Bossi, la cui unica colpa probabilmente è quella di essere una semplice e costosissima Trota in una vasca di squali.

Renzo questa volta è finito nel mirino dei franchi tiratori per aver presentato solo ora (dopo oltre un anno dalla sua elezione in consiglio regionale) la domanda per ottenere la tessera di militante dellaLega Nord. Lo ha fatto in questi giorni nella sezione di Gemonio (Varese), a confermarlo sono gli stessi responsabili locali del partito. “Si, è vero, si è appena iscritto come militante – ha confermatoAndrea Tessarolo, responsabile della sezione di Gemonio – ma ha sempre partecipato. Che poi sia socio sostenitore o militante poco importa, probabilmente si è sempre dimenticato”.

Un fatto forse politicamente poco rilevante, ma che non ha mancato di suscitare l’indignazione dei militanti di lunga data. Quelli che nonostante diversi anni di impegno e dedizione alla causa sono riusciti appena a conquistarsi un posto in consiglio comunale o nella giunta di un paesino sperduto. Sono proprio loro a faticare nel tenere a freno la lingua: commentano e si arrabbiano. A questo proposito si mormora che alla porta di una sezione qualcuno abbia addirittura appeso un cartello con la scritta: “Si raccolgono le uova scadute”, firmato “il militante ignoto”.

Del resto il livello di frustrazione deve essere salito alle stelle nello scoprire che anche nella Lega le regole che valgono per le persone ordinarie non valgono per la casta. Già la candidatura e l’elezione del giovane Bossi (che ha negato la poltrona a tanti pretendenti) erano state mal digerite da una parte consistente dei leghisti, che vedevano in questo fatto l’appiattimento della Lega ai modi e ai costumi degli altri. Ora una nuova verità su Renzo: non solo non ha fatto la gavetta, ma per lui si è chiuso un occhio anche sulle regole interne. Per diventare socio militante della Lega occorre infatti aver maturato almeno un anno da sostenitore. Dopo si inoltra la domanda alla sezione, che la discute e la approva con il via libera dei livelli superiori. Non una banalità.

Probabilmente nel caso di Renzo Bossi l’idoneità è stata data per acquisita con diritto di sangue. Per capire meglio è opportuno leggere l’articolo 13 del regolamento della Lega Nord, quello che fissa i criteri di anzianità di militanza dei candidati a cariche amministrative e politiche. Secondo la norma interna al partito le candidature possono essere accettate “solo se alla data del deposito delle relative liste elettorali gli interessati saranno in possesso di un’anzianità di militanza di 1 anno per i comuni con meno di 15 mila abitanti, 2 anni per i comuni con più di 15 mila abitanti e le province, 3 anni per le regioni e le elezioni politiche”.

Le tempistiche vengono raddoppiate per tutti quelli che in occasione di precedenti elezioni erano schierati contro la Lega. La stessa norma dice anche che: “Resta inteso che gli elenchi dei candidati o degli aspiranti assessori dovranno essere inviati alla segreteria organizzativa federale che verificherà le anzianità e rilascerà il successivo ed indispensabile nulla osta”. Insomma secondo questa regola Renzo Bossi è in debito di almeno quattro anni di militanza. Sulla faccenda è impossibile far parlare qualcuno, tantomeno i vertici locali del partito. Il segretario provinciale Stefano Candiani si limita a dire: “Francamente non ne ho notizia diretta, ma non vedo cosa possa esserci di interessante. Anche se fosse non sono valutazioni che mi competono”.

Altri, con la garanzia dell’anonimato confermano la circostanza, ma poi aggiungono: “Non mi stupisce più di tanto, ci sono stati altri casi di parlamentari eletti senza tessera in tasca”. Sarà, ma la sensazione rimane quella di una forte divaricazione tra le aspettative della base e dei militanti rispetto alle risposte che il partito di Bossi è in grado di fornire in questo momento. Lo si capisce dalla frequenza con cui i mal di pancia vengono portati allo scoperto. Un altro termometro dello scontento sono le feste della Lega: non più affollate come un tempo, talvolta riservano anche qualche brutta sorpresa, come quella di domenica 19 luglio a Caronno Varesino, quando il senatore Massimo Garavaglia è stato accolto a muso duro da una leghista. Qualche parola di troppo e il senatore si è risentito. La verità fa male, ma quando a colpire al cuore sono i tuoi stessi sostenitori le parole diventano fendenti mortali.