Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 2 luglio 2012
Washington Post: nepotismo e corruzione minacciano il futuro dell’Italia.
Una “crisi endemica di produttività”, figlia di una cultura “nepotista”, eccessivamente legata alla famiglia, in definitiva fortemente “limitante”. E’ ciò che caratterizza il sistema economico italiano nell’analisi espressa in questi giorni dal Washington Post, uno dei più prestigiosi quotidiani statunitensi. Un quadro estremamente negativo a partire dalla tesi di fondo: è la stessa cultura italiana minacciare il futuro economico del Paese.
C’è una parte di Italia, scrive l’editorialista Steven Pearlstein, “composta, soprattutto al Nord, di diverse migliaia di grandi e medie imprese che sono innovative, efficienti, competitive a livello internazionale”, e ce n’è un’altra “soprattutto al Sud, composta di imprese statali, piccole aziende familiari, giganti delle utilities e banche che operano in mercati protetti o non competitivi la cui produttività è in calo da decenni. Mettete tutto insieme e, facendo una media, otterrete un’economia a crescita zero incapace di sostenere una popolazione che invecchia o di generare buoni posti di lavoro e adeguata formazione per i giovani o di mantenere gli attuali standard di vita della classe media”.
L’aspetto peggiore è però un altro: ad oggi, rileva il Washington Post, il trend continua ad essere negativo. In altre parole, i settori improduttivi crescono, quelli più efficienti perdono terreno. “Dall’introduzione dell’euro – scrive il quotidiano della capitale Usa – la produttività italiana ponderata con l’inflazione è diminuita del 30% rispetto a quella della Germania. A partire dalla recessione del 2008, la produzione industriale è calata del 25%”.
Gli aspetti culturali, come si diceva, risulterebbero quindi decisivi. A cominciare dalla centralità concettuale della “famiglia”, un aspetto particolarmente limitante. Sono poche le imprese capaci di crescere ampiamente, e anche quelle che raggiungono grandi dimensioni “tendono a restare private, con i componenti della famiglia che finiscono per occupare tutte le posizioni chiave” e un fabbisogno di capitale tendenzialmente compensato “dai prestiti delle banche locali”. Insomma, non c’è da stupirsi se “la dimensione relativa del mercato azionario italiano sia una delle più ridotte nel mondo industrializzato e se tanto i venture capital quanto le società di private equity abbiano fatto poche incursioni nel mercato italiano”. Aggiungiamo la diffusa presenza del nepotismo e delle raccomandazioni, sistemi non certo confinati alle sole imprese familiari, e il gioco è fatto. In fondo è il destino di un Paese dove resta determinante “la mancanza di senso civico”, dove “è diffusa l’evasione fiscale” e la Mafia “mantiene la propria forza”. Un Paese, insomma, dove “nessuno si aspetta che l’altro sia onesto” e nel quale, di conseguenza, “resta difficile creare un ambiente economico in cui il business e la competizione possano crescere e prosperare”.
Certo, rileva in conclusione il Washington Post, “vi sono pur sempre migliaia di imprese di successo che rendono l’Italia il 2° produttore industriale europeo e che generano un export complessivo capace di compensare la bilancia nazionale dei pagamenti (…). Ma queste imprese sono troppo poche e il loro sviluppo è minacciato spesso dalla cultura economica prevalente e dalla necessità di sostenere quelle parti del Paese che, dal punto di vista economico, assomigliano di più alla Grecia e al Portogallo”. L’agenda delle riforme del governo, la vera missione di Monti, in altri termini, passa necessariamente dalla costruzione di un nuovo sostegno politico attorno alle aziende di successo. “In assenza di una rivoluzione politica e culturale – conclude il quotidiano – è difficile intravedere come questo meraviglioso e affascinante bastione della vecchia Europa possa emergere dalla crisi dell’euro con grandi speranze per il suo futuro”.
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Arriva il Super Porcellum. - Paolo Flores d'Arcais
Tempi bui, quando i proverbi sono all’ordine del giorno. Quello di oggi suona: al peggio non c’è mai fine.
Il triumvirato della partitocrazia sta infatti approntando nelle basse cucine della riforma elettorale una sbobba peggiore dell’attuale “Porcata”. I delegati di Alfano, Bersani e Casini nella preparazione dell’immondo intruglio si chiamano Quagliariello, Violante e Adornato/Cesa (per l’Udc un’intelligenza sola non bastava, evidentemente). L’osceno della “Porcata”, come è noto anche ai sassi, consiste nel fatto che la libertà dei cittadini si riduce a un altro proverbio: o mangi questa minestra o salti dalla finestra. I parlamentari sono “bloccati”, nominati dalle nomenklature partitocratiche, se non ti vanno bene non ti resta che non votare.
Una riforma elettorale degna del nome, perciò, dovrebbe togliere il maltolto ai capibastone dei partiti e restituirlo ai cittadini elettori, rendendoli di nuovo sovrani almeno in quantità omeopatiche (con la “Porcata” contano zero). Ma la sbobba della quadriglia Q-V-A-C non ci pensa affatto. Anzi, hanno in mente di blindare come “cosa loro” l’attuale monopolio elettorale: metà dei seggi con la “Porcata” e l’altra metà con l’uninominale a turno unico (una “Porcata” al quadrato), il tutto condito da sbarramenti e altri marchingegni che impediscano il nascere di liste della società civile.
Contano sulla disattenzione che accompagna anche presso l’opinione pubblica democratica la discussione sui sistemi elettorali, in apparenza così astratta e “tecnica”. E sull’afa estiva, quando la sbobba arriverà nelle aule parlamentari. Non bisogna cadere nella trappola. Bisogna costringere Bersani a finirla con lo slalom sulle primarie (di coalizione e “aperte”, ma solo per chi sottoscrive un programma già confezionato dai partiti, come dire: un ottimo Barolo, ma analcolico). E pretendere da Vendola e Di Pietro l’evangelico “sì sì, no no” anziché l’ennesimo ultimatum non-ultimatum.
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Deluderli porterà solo a clamorose riedizioni della fallimentare “gioiosa macchina da guerra”. L’establishment, che si presenterà con abiti politici nuovi di zecca, già brinda.
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Gli apprendisti stregoni del presidenzialismo. - Lorenza Carlassare
«Il rischio di un ennesimo stallo sulle riforme costituzionali ed elettorali, dopo l'eventuale fallimento del tentativo sperimentato in questi mesi, non sarebbe senza effetti per il Paese. Le forze politiche presenti in Parlamento si giocano su questo terreno larga parte della loro credibilità». E' questo il grave ammonimento dei senatori del Pd Ceccanti e Chiti, che hanno depositato un disegno di legge costituzionale per consentire l'indizione di un referendum costituzionale di indirizzo sulla forma di governo. Sconcerta l'attivismo di questi senatori e la loro pervicacia nell'intento di stravolgere la Costituzione in un senso o nell'altro.
Ed è sconcertante la disinvolta equiparazione fra riforme costituzionali, poco utili e non richieste, e riforma della legge elettorale da tutti invocata e assolutamente necessaria. Mischiando l'indispensabile con l'inutile-dannoso si confondono utilmente le idee. L'uso della parola «riforme», ormai quasi magica, buona per entrambe, consente di coprire una mistificante omologazione.
Il referendum d'indirizzo sarebbe del resto l'unica via d'uscita per chi voglia procedere a tutti i costi alla modifica della Costituzione. Come sarebbe possibile, altrimenti, far approvare una riforma come quella oggi al senato, basata su due testi fra loro incompatibili? Il primo, uscito dalla Commissione a fine maggio, che esalta i poteri del primo ministro riducendo i poteri presidenziali; il secondo, frutto di un'ispirazione berlusconiana, che prevede esattamente il contrario: un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, dotato di poteri politici forti sul modello della V Repubblica francese. Per rendersi conto della loro inconciliabilità basta pensare che un potere importante e delicato come lo scioglimento anticipato delle camere viene attribuito a un diverso titolare: nel testo concordato in Commissione spetta al Primo Ministro, nel testo aggiunto compete al solo presidente della Repubblica senza alcuna partecipazione governativa. Si tratta infatti di un decreto presidenziale esente da controfirma.
Con il referendum di indirizzo proposto dai senatori Pd - che richiede l'approvazione di un'apposita legge costituzionale non essendo previsto dalla Costituzione italiana - si sottoporrebbero agli elettori due quesiti e tre opzioni: Quesito 1: «Ritenete voi che si debba modificare la forma di governo parlamentare della nostra Costituzione?»; Quesito 2: «Se alla domanda precedente ha prevalso il Sì, ritenete voi che si debba preferire la forma di governo del primo ministro (soluzione 1) o la forma di governo semi-presidenziale (soluzione 2)?».
Come dicevo, ciò che interessa è cambiare, cambiare comunque, per consentire a chi governa massima libertà di azione e debolissimi controlli politici: fra le due opzioni, tanto differenti, c'è infatti un intento comune, il medesimo che ha traversato la lunga storia delle incessanti proposte di riforma: indebolire il parlamento, organo rappresentativo del popolo e quindi il popolo stesso; rafforzare i poteri di un unica persona, presidente della Repubblica o primo ministro che sia.
Non vale richiamare l'esperienza di altri paesi nei quali, al di là dei meccanismi istituzionali, gli anticorpi antiautoritari funzionano: in Francia, De Gaulle, con tutto il suo potere, si è spontaneamente dimesso dopo la risposta negativa del popolo francese a un referendum da lui proposto!
http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-apprendisti-stregoni-del-presidenzialismo/
Il posto fisso.
E' il posto fisso in Parlamento che dà alla testa. Deve esserci un virus potentissimo che contagia tutti quelli che ne varcano la soglia.
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=341410475935887&set=a.167172016693068.42388.163818167028453&type=1&theater
Ingroia sul blog di Grillo: “Trattativa, le istituzioni non ci hanno sostenuto”.
Il sostituto procuratore di Palermo spiega in un video le difficoltà dei magistrati nel fare luce sul biennio delle stragi e sul patto Stato-mafia. "Iniziative di realtà giudiziaria accolte con freddezza, fastidio, a volte con ostilità. Come se questo Paese la verità non la volesse".
I magistrati lasciati soli “dalla politica e dal mondo dei mass media” davanti all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che non ha ancora ancora trovato “la giustizia e la verità cui hanno diritto le vittime, i familiari delle vittime, i cittadini”. Antonio Ingroia, sostituto procuratore di Palermo, interviene in un video sul blog di Beppe Grillo per sottolineare che “ognuno di noi ha il diritto” di fare tutto ciò che può “per conquistare la verità e pretenderla a voce alta” e le istituzioni non hanno sostenuto, “almeno finora”, l’azione dei pm volta ad accertare la verità giudiziaria.
Appena qualche giorno fa, in un’intervista a Libero, Ingroia aveva spiegato che ”il reato che la Procura sta perseguendo è quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio. Noi riteniamo che il cosiddetto papello e tutte le altre ambasciate per influenzare le decisioni del governo costituiscano un reato”. Se poi ci sono uomini dello Stato o delle istituzioni che hanno consapevolmente “indotto i mafiosi a certe mosse o hanno intermediato le richieste - aveva aggiunto -, rispondono in concorso nella minaccia e per questo noi li abbiamo indagati”. Ragione per cui pezzi delle istituzioni sono sotto inchiesta. Come Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, che ha cercato più volte l’appoggio e il sostegno del Quirinale, o Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia, che nel novembre 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis dopo le stragi del ’92 e dopo le bomba dell’estate a Milano, Roma, Firenze.
“In un Paese normale – afferma Ingroia nel video sul blog di Grillo – di fronte a questa azione della magistratura, il paese delle istituzioni e la società si stringerebbero attorno ai magistrati, li si sosterrebbe in questo compito difficile, anzi ciascuno cercherebbe di fare la propria parte”. Per il sostituto procuratore, “la politica dovrebbe occuparsene, accertando quello che alla politica tocca accertare rispetto al passato, la verità politica, la verità storica. Non tocca alla magistratura appurare la verità storica”. Inoltre “la politica dovrebbe anche individuare responsabilità storiche e responsabilità politiche, non certo le responsabilità penali”. Un fatto che “fino a oggi non è avvenuto” perché per esempio” tante e tante commissioni parlamentari antimafia si sono avvicendate in questi vent’anni, ma nessuna di queste ha messo al centro della propria attenzione, al centro della propria indagine, l’accertamento della verità su quel terribile biennio ’92-’93, che è poi il biennio sul quale è nata questa Repubblica“. La “Seconda”, che “affonda letteralmente i suoi pilastri nel sangue di quelle stragi, in quella trattativa che si sviluppò dietro le quinte di quelle stragi”.
E, prosegue il pm, “non solo la politica non ha fatto questo, ma nè dalla politica, nè dal mondo dei mass media, è venuto un sostegno nei confronti della magistratura, anzi queste iniziative di verità, di realtà giudiziaria, sono state accolte con freddezza, fastidio, a volte con ostilità come se questo Paese la verità non la volesse, come se ci fosse una grande parte del Paese che preferisce vivere in quell’eterno presente immobile senza conoscere le proprie origini, forse per la paura di scoprire qualcosa di cui vergognarsi nella propria vita”.
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