Una “crisi endemica di produttività”, figlia di una cultura “nepotista”, eccessivamente legata alla famiglia, in definitiva fortemente “limitante”. E’ ciò che caratterizza il sistema economico italiano nell’analisi espressa in questi giorni dal Washington Post, uno dei più prestigiosi quotidiani statunitensi. Un quadro estremamente negativo a partire dalla tesi di fondo: è la stessa cultura italiana minacciare il futuro economico del Paese.
C’è una parte di Italia, scrive l’editorialista Steven Pearlstein, “composta, soprattutto al Nord, di diverse migliaia di grandi e medie imprese che sono innovative, efficienti, competitive a livello internazionale”, e ce n’è un’altra “soprattutto al Sud, composta di imprese statali, piccole aziende familiari, giganti delle utilities e banche che operano in mercati protetti o non competitivi la cui produttività è in calo da decenni. Mettete tutto insieme e, facendo una media, otterrete un’economia a crescita zero incapace di sostenere una popolazione che invecchia o di generare buoni posti di lavoro e adeguata formazione per i giovani o di mantenere gli attuali standard di vita della classe media”.
L’aspetto peggiore è però un altro: ad oggi, rileva il Washington Post, il trend continua ad essere negativo. In altre parole, i settori improduttivi crescono, quelli più efficienti perdono terreno. “Dall’introduzione dell’euro – scrive il quotidiano della capitale Usa – la produttività italiana ponderata con l’inflazione è diminuita del 30% rispetto a quella della Germania. A partire dalla recessione del 2008, la produzione industriale è calata del 25%”.
Gli aspetti culturali, come si diceva, risulterebbero quindi decisivi. A cominciare dalla centralità concettuale della “famiglia”, un aspetto particolarmente limitante. Sono poche le imprese capaci di crescere ampiamente, e anche quelle che raggiungono grandi dimensioni “tendono a restare private, con i componenti della famiglia che finiscono per occupare tutte le posizioni chiave” e un fabbisogno di capitale tendenzialmente compensato “dai prestiti delle banche locali”. Insomma, non c’è da stupirsi se “la dimensione relativa del mercato azionario italiano sia una delle più ridotte nel mondo industrializzato e se tanto i venture capital quanto le società di private equity abbiano fatto poche incursioni nel mercato italiano”. Aggiungiamo la diffusa presenza del nepotismo e delle raccomandazioni, sistemi non certo confinati alle sole imprese familiari, e il gioco è fatto. In fondo è il destino di un Paese dove resta determinante “la mancanza di senso civico”, dove “è diffusa l’evasione fiscale” e la Mafia “mantiene la propria forza”. Un Paese, insomma, dove “nessuno si aspetta che l’altro sia onesto” e nel quale, di conseguenza, “resta difficile creare un ambiente economico in cui il business e la competizione possano crescere e prosperare”.
Certo, rileva in conclusione il Washington Post, “vi sono pur sempre migliaia di imprese di successo che rendono l’Italia il 2° produttore industriale europeo e che generano un export complessivo capace di compensare la bilancia nazionale dei pagamenti (…). Ma queste imprese sono troppo poche e il loro sviluppo è minacciato spesso dalla cultura economica prevalente e dalla necessità di sostenere quelle parti del Paese che, dal punto di vista economico, assomigliano di più alla Grecia e al Portogallo”. L’agenda delle riforme del governo, la vera missione di Monti, in altri termini, passa necessariamente dalla costruzione di un nuovo sostegno politico attorno alle aziende di successo. “In assenza di una rivoluzione politica e culturale – conclude il quotidiano – è difficile intravedere come questo meraviglioso e affascinante bastione della vecchia Europa possa emergere dalla crisi dell’euro con grandi speranze per il suo futuro”.
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