domenica 22 luglio 2012

Angry Birds sbarca sul televisore.



Grazie a Smart Tv Samsung, si gioca col gesto di una mano.
(ANSA) - ROMA, 20 LUG - Angry Birds sbarca anche in tv. Con un solo gesto della mano, gli utenti possono controllare le funzionalita' di gioco, incluso il lancio della fionda di inizio e l'attivazione delle capacita' speciali di ogni 'pennuto arrabbiato'. E' possibile con la Smart tv di Samsung, grazie alla quale diventa fruibile sul piccolo schermo una delle app di maggiore successo su smartphone: sviluppata da Rovio, e' stata scaricata oltre 1 miliardo di volte dal lancio avvenuto a novembre 2009.

Formigoni, una villa in Sardegna a ‘prezzo di favore’ per la Sanità. - Gianni Barbacetto e Antonella Mascali

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L'immobile viene rogitato il 28 ottobre 2011 al prezzo di 3 milioni di euro, ma per l'ex assessore regionale Massimo Buscemi valeva “9-10 milioni”. Uno sconto che sarebbe giustificato dalla nomina, fortemente caldeggiata da Pierangelo Daccò, di Alessandra Massei ai vertici della sanità pubblica lombarda.

Roberto Formigoni ripete: “Non ho ricevuto un euro da Daccò”. Eppure l’informativa della polizia giudiziaria che Il Fatto Quotidiano ha potuto leggere, elenca puntigliosamente “le utilità a favore del presidente di Regione Lombardia”: 3,7 milioni in yacht, 800 mila euro in vacanze ai Caraibi, 70 mila in spese al Meeting di Rimini, 500 mila in ristoranti da grand gourmet, almeno 600 mila in contributi elettorali. E circa 4 milioni come generoso sconto per l’acquisto della villa ad Arzachena, in Sardegna. Non un euro, dunque, ma almeno 9 milioni di euro sono “le utilità” di cui ha beneficiato il presidente.
La villa è il pezzo più pregiato del ventaglio di “benefit” elencati nell’informativa ed è anche quello con la storia “politica” più interessante. Perché, secondo gli investigatori, ha come “contraccambio” immediato la nomina ai vertici della sanità pubblica lombarda di una persona di assoluta fiducia del superfaccendiere Pierangelo Daccò: Alessandra Massei. Una villa da favola: in cima alla collina del Pevero, non lontano da Porto Cervo, sette stanze su tre livelli, patio, verande coperte, terrazzo da cui si contempla Cala di Volpe. Potrebbe essere chiamata “Villa Formigoni”. Formalmente ad acquistarla, nell’ottobre 2011, è Alberto Perego, amico e convivente del presidente della Regione Lombardia. Ma gli investigatori si convincono che sia di fatto di Formigoni, o almeno “anche” di Formigoni: dopo le “vacanze di gruppo”, ecco una “villa di gruppo”. Il Celeste, in effetti, il 13 maggio 2011 ci mette del suo: 1 milione di euro. Ma dice che si tratta di un prestito all’amico Perego, che per motivi di salute aveva bisogno di una “casetta” al mare.
Non la pensa così Massimo Buscemi, genero di Daccò, che parla della villa con Formigoni come se il reale proprietario fosse il presidente. Subito dopo essere stato cacciato dalla giunta (era assessore alla cultura), il 10 febbraio 2012 si precipita minaccioso dal presidente per pretendere in cambio una poltrona altrettanto remunerativa. Quand’è nell’ufficio del capo, fa partire una telefonata dal suo cellulare, perfido, facendo così intercettare tutto il colloquio. Che cosa evoca? Proprio la villa in Sardegna. Dice (mentendo) che i magistrati hanno chiamato la moglie, Erika Daccò: “Le chiederanno della casa… e come mai così poco… Tre milioni? Contro 9/10 milioni di valore commerciale! No guarda, siamo nella merda fino a qua, Roberto”. Commenta la polizia giudiziaria: “È evidente che Formigoni né ha disconosciuto l’operazione, né contestato le cifre espresse da Buscemi”, che “non si rivolge a Perego, parte acquirente negli atti ufficiali, ma ne parla con Formigoni”. Insomma: “Buscemi ha la cosciente consapevolezza di interloquire con il reale beneficiario economico dell’operazione o quantomeno uno dei beneficiari”.
L’operazione va in porto il 28 ottobre 2011: viene firmato il rogito. Per 3 milioni di euro. Ok il prezzo è giusto? Per Buscemi valeva “9/10 milioni”. L’immobiliare Brunati l’aveva messa in vendita – e prima delle sostanziose ristrutturazioni – a 7 milioni. Sulla base delle dichiarazioni di Piero Cipelli, uomo di fiducia di Daccò, la polizia giudiziaria rileva che “il prezzo pagato da Formigoni e Perego altro non è che la mera ‘copertura’ dei costi sostenuti dalla Limes” (società di Daccò) per il terreno, la costruzione e le modifiche successive. E Formigoni che c’entra? “L’interesse di Formigoni”, mette a verbale Cipelli, “era legato al fatto che la villa l’avrebbe occupata insieme con Perego, almeno così mi disse Perego… Intendo dire che ritengo che la villa sia stata acquistata da entrambi, anche se formalmente solo da Perego”.
Nel bel mezzo di questa operazione, entra in scena Alessandra Massei (oggi indagata per riciclaggio). Ciellina, bocconiana, in affari di Daccò (“È socia con me nelle operazioni immobiliari in Argentina con la società Avenida”), è stata direttore generale del Fatebenefratelli e direttore amministrativo della Fondazione Maugeri. Daccò la catapulta ai vertici della sanità pubblica lombarda. È il 29 maggio 2011. Annotano gli investigatori: “Relativamente alla vicenda connessa alla cessione della villa… dopo circa un mese dal preliminare di vendita” la giunta lombarda nomina Massei dirigente regionale con competenze cruciali nella sanità. “Appare quindi evidente che, nel periodo di maggio-giugno 2011, il ‘controllo’ di Daccò sulla sanità lombarda era in fase di espansione. Le indagini fin qui svolte”, si legge nell’informativa, “hanno permesso di delineare la ‘figura chiave’ di Alessandra Massei nel contesto criminale che ruota attorno alla figura del faccendiere. La Massei, infatti, è stato uno degli ‘strumenti’ attraverso cui Daccò avrebbe operato il ‘controllo’ su alcune strutture sanitarie”. E il suo ruolo in Regione “avrebbe consentito a Daccò di esercitare un potere di intervento diretto e immediato sulle strategie politiche e di indirizzo organizzativo-economico della sanità” in Lombardia.
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UNA FASE COSTITUENTE PIU’ DEMOCRATICA. - Stefano Rodotà


Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.
In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadiniche, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali.
La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali.
Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.
L’altro fatto compiuto riguarda la riforma costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose. È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei parlamentari, modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali.
Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione?
Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana. A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo.
Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini. Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri.
Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.

Imu pazza, il governo sbaglia i conti. Contribuenti di nuovo a rischio salasso. Thomas Mackinson

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Le previsioni di incasso fornite dal ministero del Tesoro a marzo si sono rivelate in gran parte sballate: il saldo è inferiore di solo 100 milioni, ma le cifre sono errate in molti Comuni. Un pasticcio che rischia di costare caro ai cittadini. Per giunta mette in difficoltà gli enti locali: "Alcune città - denuncia l'Anci - rischiano il default".

Dopo gli esodati esplode la grana dell’Imu-pazza. Il ministero del Tesoro ha pubblicato i dati definitivi sui versamenti del primo acconto sull’aliquota base, stavolta non aggregati per provincia, ma distinti per singolo comune. E per molti sindaci non è proprio una bella notizia e neppure per i cittadini che rischiano di pagare un salasso a dicembre con il saldo dell’imposta immobiliare. Tutto perché le previsioni di incasso fornite dal Tesoro a marzo si sono rivelate oggi in gran parte sballate.
Il saldo generale doveva essere di 9,7 miliardi ed è stato di 9,6, 100 milioni in meno. Uno scarto non grandissimo frutto però della compensazione negli errori commessi: le città che incassano più del previsto compensano le minori entrate delle altre. Il rischio di errori era stato segnalato per tempo dall’Anci che a marzo aveva invitato il governo a usare come dato le cifre contabili inserite a consuntivo dalle singole amministrazioni. Il Ministero è andato dritto per la sua strada facendo proiezioni e analisi su dati nazionali.
Il risultato è una collezione di errori, una raccolta a macchia di leopardo che in alcuni casi ci prende (pochi), in altri va sotto (tanti) e qualche volta sopra gli importi stimati. Insomma, un pasticcio che rischia di costare caro ai contribuenti che a dicembre saranno chiamati a versare il saldo per rimettere a posto le cose e che getta nel panico gli amministratori. L’effetto immediato dell’Imu-impazzita è infatti l’impossibilità per molte amministrazioni di rispettare le previsioni inserite nel bilancio 2012. Alcune città, denuncia l’Anci, rischiano il “default“.
LA MAPPA DEGLI ERRORI
La ripartizione per comuni fa capire dove la seconda rata potrebbe fare più male. A Firenze, ad esempio, l’acconto è stato di 57 milioni di euro contro i 68 preventivati dal Tesoro. La discrepanza era stata già messa in luce nelle audizioni di bilancio a Palazzo Vecchio che avevano indicato uno scarto di 11 milioni di euro. E ora viene puntualmente viene confermata. La ricca Bergamo ha registrato un ammanco che si aggira intorno ai 35 milioni. Gli uffici tecnici comunali avevano calcolato (e poi messo a bilancio) 30 milioni, il ministero 5 di più. Alla fine l’incasso reale è stato ancora minore: 25,3 milioni da ripartire tra comune (15) e Stato (10,3).
Così nel Bresciano sono saltati tutti i parametri. Desenzano, ad esempio, per il Mef avrebbe dovuto incassare con la prima rata 7 milioni mente il dato pubblicato oggi dallo stesso ministero si ferma a 5,3. Per alcune amministrazioni l’errato calcolo apre la breccia a un buco di bilancio come Palazzolo, che doveva incassare 6 milioni ma si è fermata a 2 con la prima rata, il 33% del tributo. Gli uffici comunali avevano lanciato l’allarme settimana scorsa il consiglio comunale ha dovuto varare una variazione di bilancio per sanare quello che per il sindaco Giuseppe Zanni è “un buco di bilancio da 2 milioni di euro”.
Mantova la previsione era di 20 milioni tra parte comunale e statale. L’incasso è stato di 13,2 (7,5 locale e 5,6 per lo Stato). Fano, terza città delle Marche ha incassato 1,5 milioni in meno. A Salerno la stima del Tesoro era di 12 milioni ma il gettito reale è stato di 10. A Reggio Emilia il governo contava di incassare 55 milioni ma l’operazione Imu-prima-rata ne porta 10 in meno. Le cifre ballano anche per le ammnistrazioni di BolognaNapoliTorino. Poi ci sono quelle in cui l’errore del governo è stato per difetto: Milano, ad esempio, ha incassato 410 milioni, cioè il 10% in più rispetto alle stime.
COMUNI NEL PANICO
A fronte di incassi eccedenti o inferiori le attese dovranno scattare le perequazioni, un sistema dalla logica farragginosa che finisce per premiare chi ha pagato di meno: chi avrà versato di più infatti dovrà restituire allo Stato la quota parte eccedente, chi invece sarà sotto le previsioni non dovrà farlo e sarà sostenuto dal “fondo sperimentale di riequilibrio”. Ma a questo punto le certezze sono poche e forte è il rischio che i Comuni debbano tagliare ancora servizi o rifarsi sui contribuenti aumentando la fiscalità locale.
Ecco perché i sindaci martedì mattina protesteranno davanti al Senato per chiedere al governo un tavolo per rimettere in ordine le cose. “Tra Imu e spending review – accusa il presidente dell’Anci Graziano Delrio – il governo ha giocato una partita durissima sulla pelle dei comuni e i parlamentari si sono lasciati andare a entusiasmi troppo facili. Gli incassi dell’Imu sono a macchia di leopardo e i tagli sono stati invece lineari per tutti, sulla base di previsioni che si sono rivelate sbagliate. Saremo costretti a intaccare servizi essenziali o a aumentare la pressione fiscale”.
I sindaci insomma non la prendono bene, anche perché hanno fatto la parte degli esattori per conto dello Stato e indietro hanno ottenuto ben poco. “L’Imu sulla prima casa – spiega Delrio – non l’abbiamo neanche vista perché è andata dritto alle casse dello Stato. Per contro tutti i comuni hanno subito l’aggravento degli obiettivi del Patto di stabilità interno e l’effetto delle manovre finanziarie degli ultimi governi su risorse e trasferimenti. Dal 2007 al 2013 hanno fatto mancare 22 miliardi e oggi è altissimo il rischio che i comuni debbanno correre ai ripari con nuove imposte”, dice Delrio che richiama il governo a una responsabilità precisa. “Metta in moto subito le compensazioni per quei comuni ai quali ha tolto risorse sbagliando i conti. Se le amministrazioni randranno in default ci saranno conseguenze pesanti per tutta l’economia e il governo dovrà assumersi la reponsabilità di aver messo in ginocchio il sistema delle autonomie locali. Forse bisogna ricordare ai tecnici che è nelle città che si produce il Pil italiano, non nei ministeri”.

sabato 21 luglio 2012

Nessuno ascolti il Presidente. - Bruno Tinti.


Napolitano ha un ex collega che lo ha preceduto nella sua lotta con la Giustizia. Nel 1990 Cossiga rifiutò di testimoniare avanti al pm Casson che indagava sulla vicenda Gladio e che aveva chiesto di potersi recare al Quirinale per interrogarlo quale persona informata sui fatti. Anche allora la piramide si frazionò: i vertici, tutti dalla parte di Cossiga; la base e il centro, sovranamente indifferenti; e qualche libero pensatore dubbioso e propositivo. Più o meno come adesso.
Ricordo che pensai: ma se a Cossiga fosse stato richiesto di testimoniare su un incidente stradale avrebbe fatto tanto casino sulle sue prerogative costituzionali violate? Sarà che, pensai, il problema non è la prerogativa costituzionale del Presidente della Repubblica, ma l’eventualità di trovarsi in una scomoda situazione nell’indagine Gladio? Proprio come oggi. Com’è che le telefonate tra Napolitano e Bertolaso da cui emerge il pio interessamento del Presidente per i terremotati de L’Aquila non lo stimolarono (né lo stimolano) a evitare “precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. 
Mentre quelle con Mancino, a caccia di raccomandazioni e interventi, invece sì?  Tra i pochi liberi pensatori che allora presero posizione ci fu Gustavo Zagrebelsky. Scrisse (La Stampa 10.11.90) che la testimonianza del Presidente della Repubblica era prevista dalla legge e che però, per via dell’art. 90 della Costituzione, non potevano essere adottate misure coercitive se Cossiga avesse rifiutato di testimoniare né incriminazioni se avesse detto il falso; che un conflitto avanti alla Corte costituzionale tra il Presidente e un giudice sarebbe stato “un fatto inaudito, un cattivo servizio alla Repubblica”; che si sarebbe potuto uscire da questa micidiale situazione se la Procura avesse sollevato di sua iniziativa (avanti al gip) un’eccezione di legittimità costituzionale (dunque una questione di carattere generale e non un duello tra istituzioni) delle norme che regolamentavano la testimonianza del Capo dello Stato. Ma non se ne fece nulla, Cossiga non testimoniò e l’arroganza del potere, come sempre, prevalse.
Oggi la Procura di Palermo è più fortunata (in verità di fortune così ne farebbe volentieri a meno): faccia Napolitano quello che vuole; le indagini proseguono e le intercettazioni restano in cassaforte, tanto non servono a niente perché non hanno rilevanza penale; si assuma Napolitano la responsabilità di fare “un cattivo servizio alla Repubblica” e soprattutto convinca i cittadini che tra lui e Mancino non si parlò di cose inconfessabili. In realtà ho sbagliato a scrivere che le intercettazioni non servono a niente; in un paese a normale democrazia conoscere quali rapporti intercorrano tra un Presidente della Repubblica e un indagato per falsa testimonianza in un processo come quello di Palermo (trattativa Stato-mafia, mica taccheggio al supermercato) potrebbe indurre i cittadini a cambiare Presidente; o quantomeno a provarci.
Sicché queste intercettazioni servono a molto; sono, come si dice, rilevanti. Ecco, si potrebbe cominciare a pensare che la “rilevanza” delle intercettazioni non è solo quella penale; anzi, in democrazia, dovrebbe essere soprattutto politica, sociale e, naturalmente – ma diciamolo sottovoce, non è un concetto popolare – etica.
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Roma, primo trapianto al mondo salvafegato da staminali.



Le cellule sono state usate per riscostruire l'organo devastato dalla cirrosi epatica.

ROMA
Cellule staminali prelevate da feti abortiti terapeuticamente sono state usate per ricostruire il fegato devastato dalla cirrosi epatica. Il primo trapianto al mondo di questo tipo è stato eseguito in Italia, nel Policlinico Umberto I di Roma, nell'ambito di un protocollo di ricerca che comprende 20 pazienti, tutti nello stadio avanzato della malattia.

Le cellule prelevate dal feto, abortito a causa di una malformazione, sono state infuse in un uomo di 72 anni ad uno stadio molto avanzato della malattia. La ricerca è stata sostenuta da finanziamenti del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e dal Consorzio Interuniversitario dei Trapianti d'Organo e dall'Agenzia Regionale dei Trapianti. L'intervento è stato eseguito circa una settimana fa con il coordinamento di Domenico Alvaro, Eugenio Gaudio, Pasquale Berloco e Marianna Nuti. Dal fegato del feto, dal peso 10-15 grammi, sono state isolate le cellule che servono a rigenerare il fegato, in tutto circa 50 milioni. «Sono cellule staminali pluripotenti», ha spiegato Alvaro. Sono cioè staminali in grado di maturare dando origine a cellule adulte di tipo molto diverso. Cellule di questo tipo, ha aggiunto, non danno alcun rischio di rigetto e non richiedono perciò che i pazienti debbano seguire cure immuno soppressive, volte cioè a ridurre le difese immunitarie perché queste non attacchino le nuove cellule.

Il risultato è il punto di arrivo di cinque anni di ricerche condotte dal gruppo di Alvaro e Gaudio, della facoltà di Medicina e Farmacia dell'università Sapienza di Roma, in collaborazione con il gruppo statunitense di Lola Reid, della North Carolina University. Il prelievo delle cellule fetali ha richiesto sei ore e le cellule non hanno subito alcuna manipolazione. Sono state quindi infuse nel fegato del paziente attraverso l'arteria epatica. «L'obiettivo - ha spiegato Alvaro - è di ripopolare in questo modo il fegato del paziente, in modo da ottenere aree di fegato funzionanti, che dovrebbero essere in grado di sostenere il fegato malato».

Il paziente è stato dimesso senza complicanze e saranno necessari circa due mesi per ottenere questo risultato. Se la risposta sarà positiva, la nuova tecnica permetterà alle persone con la cirrosi epatica allo stadio avanzato, che hanno solo pochi mesi di vita, di attendere il trapianto di fegato. «Sostenere pazienti in lista attesa per il trapianto è il nostro primo obiettivo - ha detto ancora Alvaro - e in futuro la stessa tecnica potrebbe essere utilizzate nei pazienti con l'epatite fulminante e nei bambini colpiti da malattie metaboliche».

Paperoni di Stato, ecco le dichiarazioni dei redditi dei manager pubblici. - Stefano Feltri e Carlo Tecce

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Il bollettino su quanto guadagnavano nel 2010 i super dirigenti, da Bankitalia, alla Rai e al Tesoro. Il presidente di Finmeccanica Orsi ha dichiarato 1,6 milioni, meno del predecessore Guarguaglini (5,5). Il presidente dell'Inps Mastrapasqua 1,3. Da sei anni diversi governi hanno cercato invano di mettere un tetto agli stipendi.

Sono ricchi, talvolta ricchissimi, hanno storie diverse, alcuni lavorano tantissimo, altri hanno solo cariche di rappresentanza ma ben remunerate. Ma hanno tutti una cosa in comune: lavorano per la Pubblica amministrazione. Grazie a una legge del 1982, ogni anno i “titolari di cariche elettive e direttive di alcuni enti”, cioè manager scelti dalla politica per guidare pezzi del potere economico statale o parastatale, devono rendere nota la loro dichiarazione dei redditi dell’anno precedente e la loro situazione patrimoniale, le auto che possiedono e le società di cui hanno azioni. Attenzione: si parla dei redditi complessivi, non degli stipendi pagati dalla pubblica amministrazione (anche se per molti le due cose coincidono, soprattutto per quelli al vertice di istituzioni che rendono incompatibili gli incarichi privati). Dal bollettino pubblicato il 16 luglio sui redditi 2010 che Il Fatto Quotidiano ha potuto consultare emerge uno spaccato della società italiana, il racconto di chi sono i veri ricchi di questo Paese (almeno i veri ricchi che non evadono, o quasi).
Nell’elenco compaiono alcuni politici, tipo Piero Fassino (128.191 euro) o Matteo Renzi (109.573 euro) in quanto presidenti di fondazioni locali, a Torino il teatro Regio, a Firenze il Maggio Fiorentino. Gianni Alemanno, citato in quanto presidente della Fondazione teatro dell’Opera di Roma, dichiara 152.055. Ma sembrano indigenti a confronto degli altri. Gli stipendi più alti si trovano nella prima linea delle società controllate dal Tesoro, nomi poco conosciuti al grande pubblico ma strapagati: guadagna 727.170 euro Domenico Arcuri, amministratore delegato di quell’Invitalia che aveva scelto lo squattrinato Massimo Di Risio per rilevare la Fiat di Termini Imerese (ora è stato scaricato da tutti, dopo aver fatto perdere un anno di tempo). Il vicepresidente di Fintecna, società che sta passando dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, Vincenzo Dettori, dichiara 392.392 euro. Mentre i due vertici della Cassa depositi e prestiti sono su un altro ordine di grandezza: il presidente Franco Bassanini ha un reddito di 567.262, l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini 1.925.997.
Ci sono anche figure di cui ci eravamo un po’ dimenticati: a fine 2011 il professor Augusto Fantozzi si è dimesso da commissario straordinario di Alitalia, incaricato di liquidare quel che restava della bad company, ma per il 2010 ha dichiarato un reddito di 3.686.272. Il suo compenso per l’attività di commissario è sempre stato misterioso e tuttora non sappiamo quanta parte di quei 3,6 milioni sia dovuta a tale attività. Il suo successore Stefano Ambrosini, che nel 2010 ancora non era subentrato a Fantozzi, si ferma a 957.379. L’ex leghista Dario Fruscio è stato per anni nel cda dell’Eni, poi è passato all’Agea, la società che gestisce i finanziamenti all’agricoltura, Umberto Bossi lo aveva rimosso e lui è riuscito a riprendersi la poltrona a colpi di ricorsi al Tar: deve essere ben pagata, visto che nel 2010 Fruscio ha dichiarato 1.048.478 euro. Un altro manager di area leghista, il varesotto Giuseppe Bonomi, alla Sea che gestisce l’aeroporto di Malpensa, dichiarava 919.847 euro.
NEL RAPPORTO curato dalla presidenza del Consiglio ci sono anche curiose eccezioni verso l’alto e verso il basso. L’imprenditrice milanese Diana Bracco, che figura in quanto presidente di Expo 2015, ha un reddito di 5,6 milioni di euro, ma non stupisce più di tanto, è noto che il suo gruppo sia redditizio. Sorprende invece un po’ la situazione di Mauro Cipollini, amministratore delegato di TechnoSky, una controllata dell’Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile che è finito al centro di alcune inchieste per presunte tangenti. Cipollini nel 2010 ha dichiarato soltanto 3.987 euro. Eppure nel 2007 ha comprato una Mini Cooper e l’anno successivo, nel 2011, immatricola una Porche Cayenne. Altra curiosità: nell’elenco c’è perfino il professor Francesco Alberoni, un tempo guru della sociologia all’Università di Trento oggi pensionato ed editorialista (nel 2010 ancora al Corriere della Sera) e presidente del Centro sperimentale di cinematografia: reddito da 396.389 euro.
Chi lavora alla Rai e alla Banca d’Italia ha redditi decisamente superiori. L’ex presidente della tv pubblica, il giornalista Paolo Garimberti, nel 2010 guadagnava 670.304 euro, l’allora direttore generale Mauro Masi ne dichiarava quasi altrettanti, 695.466, la sua sostituta Lorenza Lei si fermava a 424.106. Alla Banca d’Italia nel 2010 il più ricco era Mario Draghi, allora governatore, con 1,021 milioni di euro. Il suo direttore generale, Fabrizio Saccomanni, che ora potrebbe essere riconfermato dopo aver sfiorato la nomina a governatore, non se la passava tanto peggio: 838.596 euro. Ignazio Visco, suo vice all’epoca e oggi governatore, dichiarava la metà ma comunque cifre consistenti: 405.201 euro. Poi c’è Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e di cui tutto è noto, visto che è quotata in Borsa. O meglio, sono noti gli stipendi dei suoi top manager ma non le loro dichiarazioni dei redditi. Eccole: nel 2010 Giuseppe Orsi, oggi presidente, dichiarava 1,654 milioni, l’allora presidente Pier Francesco Guarguaglini 5,5 milioni, Giorgio Zappa e Alessandro Pansa, entrambi con la carica di direttore generale, avevano rispettivamente un reddito di 2,5 e 2,6 milioni.
DA QUASI SEI ANNI diversi governi hanno provato a mettere un tetto agli stipendi, anche cumulati, dei manager che lavorano nel settore pubblico. L’ultimo tentativo è del governo Monti che a marzo ha fissato il limite a 294mila euro lordi all’anno. Sarebbe un bel crollo del reddito di molti dei protagonisti del rapporto di palazzo Chigi. Per rendere operativo il tetto serve un decreto del ministero del Tesoro che, come ricordato ieri da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, ancora non si è visto. Qualche mese fa il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, reddito 2010 da 1,36 milioni, si era detto sicuro che nel 2013 avrebbe dichiarato soltanto i 294 mila euro previsti dal governo. Forse era stato troppo pessimista.
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