sabato 21 luglio 2012

Nessuno ascolti il Presidente. - Bruno Tinti.


Napolitano ha un ex collega che lo ha preceduto nella sua lotta con la Giustizia. Nel 1990 Cossiga rifiutò di testimoniare avanti al pm Casson che indagava sulla vicenda Gladio e che aveva chiesto di potersi recare al Quirinale per interrogarlo quale persona informata sui fatti. Anche allora la piramide si frazionò: i vertici, tutti dalla parte di Cossiga; la base e il centro, sovranamente indifferenti; e qualche libero pensatore dubbioso e propositivo. Più o meno come adesso.
Ricordo che pensai: ma se a Cossiga fosse stato richiesto di testimoniare su un incidente stradale avrebbe fatto tanto casino sulle sue prerogative costituzionali violate? Sarà che, pensai, il problema non è la prerogativa costituzionale del Presidente della Repubblica, ma l’eventualità di trovarsi in una scomoda situazione nell’indagine Gladio? Proprio come oggi. Com’è che le telefonate tra Napolitano e Bertolaso da cui emerge il pio interessamento del Presidente per i terremotati de L’Aquila non lo stimolarono (né lo stimolano) a evitare “precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. 
Mentre quelle con Mancino, a caccia di raccomandazioni e interventi, invece sì?  Tra i pochi liberi pensatori che allora presero posizione ci fu Gustavo Zagrebelsky. Scrisse (La Stampa 10.11.90) che la testimonianza del Presidente della Repubblica era prevista dalla legge e che però, per via dell’art. 90 della Costituzione, non potevano essere adottate misure coercitive se Cossiga avesse rifiutato di testimoniare né incriminazioni se avesse detto il falso; che un conflitto avanti alla Corte costituzionale tra il Presidente e un giudice sarebbe stato “un fatto inaudito, un cattivo servizio alla Repubblica”; che si sarebbe potuto uscire da questa micidiale situazione se la Procura avesse sollevato di sua iniziativa (avanti al gip) un’eccezione di legittimità costituzionale (dunque una questione di carattere generale e non un duello tra istituzioni) delle norme che regolamentavano la testimonianza del Capo dello Stato. Ma non se ne fece nulla, Cossiga non testimoniò e l’arroganza del potere, come sempre, prevalse.
Oggi la Procura di Palermo è più fortunata (in verità di fortune così ne farebbe volentieri a meno): faccia Napolitano quello che vuole; le indagini proseguono e le intercettazioni restano in cassaforte, tanto non servono a niente perché non hanno rilevanza penale; si assuma Napolitano la responsabilità di fare “un cattivo servizio alla Repubblica” e soprattutto convinca i cittadini che tra lui e Mancino non si parlò di cose inconfessabili. In realtà ho sbagliato a scrivere che le intercettazioni non servono a niente; in un paese a normale democrazia conoscere quali rapporti intercorrano tra un Presidente della Repubblica e un indagato per falsa testimonianza in un processo come quello di Palermo (trattativa Stato-mafia, mica taccheggio al supermercato) potrebbe indurre i cittadini a cambiare Presidente; o quantomeno a provarci.
Sicché queste intercettazioni servono a molto; sono, come si dice, rilevanti. Ecco, si potrebbe cominciare a pensare che la “rilevanza” delle intercettazioni non è solo quella penale; anzi, in democrazia, dovrebbe essere soprattutto politica, sociale e, naturalmente – ma diciamolo sottovoce, non è un concetto popolare – etica.
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