Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 26 maggio 2013
sabato 25 maggio 2013
venerdì 24 maggio 2013
Ezio Greggio, un tapiro per il conduttore: lo stipendio pagato all’estero. - Luigi Franco
Mediaset in quattro anni ha sborsato 23 milioni di euro per il volto di Striscia: vanno tutti in Irlanda e a Montecarlo. Quasi 15 milioni sono stati versati a lui, residente nel Principato. Altri 8 milioni sono finiti a una società con sede a Dublino.
Di ramanzine a personaggi più o meno noti, Ezio Greggio ne ha fatte un bel po’. Maghi truffaldini, terapeuti imbroglioni, politici beccati in fuori onda imbarazzanti. Il prossimo Tapiro d’oro, però, potrebbe meritarselo proprio lui, dopo 25 anni passati alla conduzione di Striscia la notizia. Perché il suo caso è tra quelli che stanno suscitando l’interesse dell’Agenzia delle entrate. Per aggiudicarsi le sue battute e le sue frecciate irriverenti, Mediaset ha speso negli ultimi quattro anni più di 23 milioni di euro, parte dei quali sono finiti a una società con base in Irlanda. E da valutare, per l’agenzia, c’è soprattutto la residenza dello showman, che non si trova a Milano o nelle vicinanze di Cologno Monzese, ma in uno dei paradisi fiscali più prossimi a casa nostra, il principato di Monaco.
Vicino sì, ma da Montecarlo agli studi tv della famiglia Berlusconi – ragionano gli ispettori del Fisco – sono sempre più di 300 chilometri ad andare e altrettanti a tornare. Un bel viaggio da fare per ognuna delle oltre 160 puntate all’anno che Greggio conduce a Striscia. Insomma, di tempo nei dintorni di Milano, deve passarne parecchio, soprattutto nei mesi in cui il tg satirico è affidato a lui. Ci sono poi da fare i promo, le riunioni con gli autori e con la produzione, ogni tanto pure qualche prova. Il contratto con Mediaset, poi, oltre a Striscia comprende anche le ospitate a Paperissima, una fiction e trasmissioni serali come Veline, andata in onda l’estate scorsa.
Per ogni partecipazione di Greggio a Striscia, la società Rti del gruppo Mediaset spende intorno ai 24mila euro. La cifra va moltiplicata per tutte le puntate di un anno e poi vanno aggiunte le altre presenze sullo schermo. Così nelle quattro stagioni che vanno dal 2009 al 2013 Greggio è costato a Rti oltre 23 milioni di euro. Di questi, più di 12 milioni sono stati versati direttamente a lui per le trasmissioni e quasi 2,5 per l’esclusiva. Mentre altri 8 milioni sono finiti alla Wolf Pictures Ltd, una società con sede a Dublino, in Irlanda, in cui in passato ha lavorato anche Leonardo Recalcati, una vecchia conoscenza con cui Greggio ha collaborato nel 2011 per produrre ‘Box Office 3D – Il film dei film’, la sua ultima fatica cinematografica da regista.
Alla Wolf Pictures Ltd Greggio ha ceduto tutti i diritti di sfruttamento economico della sua immagine, che poi sono stati venduti a Mediaset. Un triangolo su cui l’Agenzia delle entrate vuole vederci più chiaro. Come sulla residenza a Monaco, grazie a cui Greggio può cavarsela con una ritenuta alla fonte del 30 per cento su quanto ricevuto da Mediaset, invece di versare nel nostro Paese imposte con aliquote che per importi così elevati superano il 40 per cento. La residenza monegasca, tra l’altro, non vale a Greggio solo vantaggi fiscali. È capitato infatti che per partecipare a una puntata di Paperissima, ai 60mila euro di cachet ne siano stati aggiunti 25mila per le spese di viaggio da Monaco, 600 chilometri davvero ben pagati.
Greggio non è il primo vip che attira l’attenzione del Fisco. Tra gli altri, nel 2008 Valentino Rossi ha dovuto firmare un accordo da 35 milioni di euro per chiudere il contenzioso con l’Agenzia delle entrate che gli contestava la residenza londinese. Luciano Pavarotti invece ha sostenuto di essere residente a Montecarlo, finché nel 2000 ha dovuto rimborsare all’Erario 24 miliardi delle vecchie lire. Da Greggio, per ora, nessun commento: il suo cellulare ieri ha suonato a vuoto per tutto il giorno, né gli sms hanno avuto risposta. È all’estero, fanno sapere dalla Greggio Comunicazione di Milano, l’agenzia della sorella Paola. In ogni caso, nulla dovrebbe accadere a Mediaset, che nel contratto si è fatta garantire dall’artista una manleva nel caso di sanzioni fiscali per sue dichiarazioni false. Ma il Gabibbo, di certo, una bella predica non la risparmierebbe. Quella, del resto, è pur sempre l’azienda di chi per anni ha governato il Paese.
Ilva, sigilli al tesoro dei Riva sequestrati 8,1 miliardi di euro. - MARIO DILIBERTO e GIULIANO FOSCHINI
Sequestro da oltre otto miliardi di euro all'Ilva. I militari della guardia di Finanza di Taranto hanno avviato questa mattina il provvedimento di sequestro per equivalente disposto dal gip Patrizia Todisco su richiesta del pool titolare dell'inchiesta per disastro ambientale, guidato dal procuratore capo Franco Sebastio. La procura ha ottenuto il sequestro di beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Rivafire spa.
LEGGI / "Così hanno nascosto i soldi"
Il provvedimento si inquadra nell'indagine che ha messo sulla graticola la grande fabbrica per l'inquinamento killer sprigionato dagli impianti delle acciaierie sulla città. Il sequestro record è scaturito proprio dal mancato risanamento dei reparti dell'area a caldo, indicati come la fonte dei veleni industriali ritenuti causa di malattia e morte. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica.
Gli investimenti non eseguiti si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro. L'inchiesta per disastro ambientale è scattata nel luglio dello scorso anno con l'arresto di Emilio Riva, l'anziano patron dell'Ilva, finito ai domiciliari, e il contestuale sequestro degli impianti inquinanti. Da allora l'inchiesta ha fatto registrare numerose e violente sterzate. A novembre scorso un altro blitz della Finanza ha portato in carcere alcuni dirigenti, ma alla retata sfuggì Fabio Riva, figlio di Emilio, attualmente latitante a Londra. Solo due giorni fa la procura di Milano aveva disposto il sequestro preventivo di circa 1,2 miliardi a carico di Emilio e Adriano Riva per truffa allo Stato.Oggi il nuovo colpo di scena con il sequestro record.
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Il provvedimento si inquadra nell'indagine che ha messo sulla graticola la grande fabbrica per l'inquinamento killer sprigionato dagli impianti delle acciaierie sulla città. Il sequestro record è scaturito proprio dal mancato risanamento dei reparti dell'area a caldo, indicati come la fonte dei veleni industriali ritenuti causa di malattia e morte. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica.
Gli investimenti non eseguiti si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro. L'inchiesta per disastro ambientale è scattata nel luglio dello scorso anno con l'arresto di Emilio Riva, l'anziano patron dell'Ilva, finito ai domiciliari, e il contestuale sequestro degli impianti inquinanti. Da allora l'inchiesta ha fatto registrare numerose e violente sterzate. A novembre scorso un altro blitz della Finanza ha portato in carcere alcuni dirigenti, ma alla retata sfuggì Fabio Riva, figlio di Emilio, attualmente latitante a Londra. Solo due giorni fa la procura di Milano aveva disposto il sequestro preventivo di circa 1,2 miliardi a carico di Emilio e Adriano Riva per truffa allo Stato.Oggi il nuovo colpo di scena con il sequestro record.
Mediaset, i giudici su Berlusconi: “Vi è la prova che abbia gestito enorme evasione”.
Frode fiscale anche da capo del governo. E’ questa la riflessione in sintesi dei giudici della d’appello di Milano che l’8 maggio scorso hanno confermato la condanna a 4 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset. Nelle motivazioni della sentenza si parla di “un sistema portato avanti per molti anni” dall’ex premier e “proseguito nonostante i ruoli pubblici assunti. E condotto in posizione di assoluto vertice”. Il leader del Pdl è considerato quindi tra i “responsabili di vertice di tale illecita complessiva operazione”.
Se Cassazione confermerà sarà il Senato a decidere il destino del Cavaliere. Il verdetto e le motivazioni aprono adesso la strada verso quello che sarà il giudizio definitivo in Cassazione. Quello che teme il Cavaliere non è la condanna a 4 anni (3 anni sono stati indultati), ma la pena accessoria ovvero l’interdizione dei pubblici uffici che comporterebbe la decadenza dalla sua carica di senatore come prevede la legge. Ebbene, e non è un dato di poco rilievo, la perdita del pubblico ufficio a causa di una sentenza definitiva deve comunque essere votata dalla Camera di appartenenza. Quindi se e quando gli ermellini dovessero confermare in terzo grado questo verdetto comunque sarà la politica e non la legge a decidere se “espellere” il Cavaliere dalle istituzioni. Una possibilità che, in considerazione del “matrimonio di interesse” tar Pd e Pdl, sembra molto più che lontana.
Spetterebbe quindi alla Giunta delle elezioni e dell’immunità (il cui presidente non è stato ancora eletto, ndr) avviare la “Procedura di contestazione dell’elezione”. Quasi un altro giudizio che nel caso di Berlusconi prevederebbe un relatore della Regione Molise il collegio elettorale scelto dal leader del Pdl. Il parere della giunta poi dovrebbe ricevere il definitivo e vincolante via libera dall’aula di Palazzo Madama. Quello che potrebbe cambiare lo scenario sarà un eventuale verdetto di condanna nel processo Ruby, ma la nuova legge sulla corruzione-concussione potrebbe riservare qualche sorpresa di carattere procedurale e si è ancora in attesa della decisione delle sezioni Unite della Cassazione sulla questione.
Per i giudici di secondo grado la gestione dei diritti faceva capo al leader del Pdl. La gestione dei diritti televisivi e cinematografici faceva capo al leader del Pdl. “Era assolutamente ovvio – scrivono – che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse una questione strategica e quindi fosse di interesse della proprietà, di una proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali, pur abbandonando l’operatività giornaliera”. I giudici, presieduti da Alessandra Galli, sottolineano che “almeno fino al 1998 e, quindi, fino a quando ai vertici della gestione dell’acquisto dei diritti vi era stato Bernasconi, vi erano state anche le riunioni per decidere le strategie del gruppo, riunioni con il proprietario del gruppo, con Berlusconi”. E ancora i magistrati ragionano spiegando che: “Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti (da Bernasconi ad Agrama, da Cuomo a Lorenzano) personalmente, al sostanziale proprietario (rimasto certamente tale in tutti quegli anni) del medesimo, l’odierno imputato Berlusconi. Un imputato – continuano – un imprenditore che pertanto avrebbe dovuto essere così sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto notevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende e che tutti questi personaggi, che a lui facevano diretto riferimento, non solo gli occultavano tale fondamentale opportunità ma che, su questo, lucravano ingenti somme, sostanzialmente a lui, oltre che a Mediaset, sottraendole”. In base alle testimonianze rese in aula nel processo di primo grado, secondo il giudice d’appello “Berlusconi rimane infatti al vertice della gestione dei diritti, posto che (…) Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il cda”. Inoltre, si legge nelle motivazioni, tra il Cavaliere e l’ex manager morto nel 2001 non c’era “altro soggetto con poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa e la cosidetta ‘discesa in campo’, nella politica, di Berlusconi”.
I magistrati: “Impossibile concedere le attenuanti a Berlusconi”. Negli anni Mediaset si è resa protagonista di una gestione dei diritti tv secondo i giudici di secondo grado ”del tutto incomprensibile dal punto di vista societario”. Il collegio evidenzia che ”non aveva alcun senso acquistare ad un determinato prezzo quel che si era già individuato acquistabile ed effettivamente acquistato ad un prezzo molto minore”. Il riferimento e’ alle numerose societa’ schermo che – stando all’ipotesi accusatoria – sarebbero servite a Berlusconi per far lievitare il prezzo dei diritti televisivi e cinematografici acquistati da Mediaset presso le principali majors statunitensi e, percio’, a creare fondi neri all’estero per frodare il fisco italiano. La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che ”in relazione alla oggettiva gravità del reato, è ben chiara l’impossibilità di concedere le attenuanti generiche”.
“Prova orale e documentale che Berlusconi abbia gestito fase iniziale dell’enorme evasione fiscale”. Nelle carte del processo d’appello sui diritti tv di Mediaset ”vi è la prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell‘enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore … Era riferibile a Berlusconi – puntualizzano i giudici – l’ideazione, la creazione e lo sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto al fine di mantenere ed alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati a varie società che erano a loro volta amministrate da fiduciari di Berlusconi”. Così il sistema dei diritti tv di Mediaset ”si scrive in un contesto più generale di ricorso a società off shore anche non ufficiali ideate e realizzate da Berlusconi avvalendosi di strettissimi e fidati collaboratori”. Invece “non vi è prova sufficiente” che il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri (assolto), “fosse realmente consapevole” del sistema “illecito” creato per la compravendita dei diritti tv. Operazione di cui “non gli si poteva attribuire un adeguata conoscenza (…) al punto da sovvertire quei bilanci” delle società.
I giudici della Corte d’appello di Milano, insomma, non hanno dubbi sulle responsabilità dirette di Berlusconi: ”Non è verosimile – scrivono a questo proposito nelle motivazioni – che qualche dirigente di Fininvest o Mediaset abbia organizzato un sistema come quello accertato e, soprattutto, che la società abbia subito per 20 anni truffe per milioni di euro senza accorgersene”. Il sistema delle società off shore è stato ideato ”per il duplice fine di realizzaer un’imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio di Fininvest e Mediaset a beneficio di Berlusconi”. Identico ragionamento utilizzato dai giudici di primo grado per motivare la pena inflitta al leader del Pdl: in quelle motivazioni i magistrati definivano l’imprenditore “dominus assoluto” di una “evasione notevolissima”.
I legali Niccolò Ghedini e Piero Longo: “Ricorso in Cassazione”. “Si deve sottolineare come nella motivazione depositata quest’oggi le argomentazioni utilizzate siano del tutto erronee e sconnesse rispetto alla realtà fattuale e processuale” affermano, in una nota, Niccolò Ghedini e Piero Longo, legali di Silvio Berlusconi e annunciano ricorso. “Saranno oggetto di impugnazione nella certezza di una ben diversa decisione nel prosieguo del processo che riconoscerà l’insussistenza del fatto e l’estraneita’ del presidente Berlusconi”, scrivono.
Il "Delinquolo" per eccellenza non vuole saperne di pagare il dovuto o di agire in conformità alle leggi. La stessa parola "legalità" gli procura l'orticaria.
I suoi avvocati dovrebbero, anzicchè fare ricorso in cassazione, consigliargli di uscire dalla scena politica e di dedicarsi al suo privato.
giovedì 23 maggio 2013
Fukushima. 3’000 kamikaze lavorano per ripulire il sito nucleare.
Sono oltre 3’000 gli uomini che lavorano per ripulire il sito di Fukushima Dai Ichi, la centrale nucleare giapponese distrutta dal gigantesco tsunami dell’11 marzo 2011.
Due anni dopo la catastrofe, in Giappone non si placano le polemiche sulle condizioni di lavoro di questi uomini. Il 22 aprile, l’Asia Pacific Journal pubblicava un editoriale di Sumi Hasegawa, ricercatrice presso la McGill University di Montreal, che metteva in evidenza le penose incombenze affidate a questi operai.
L’editoriale è una lettera aperta al primo ministro giapponese e al ministro giapponese della sanità, oltre che ai vertici della Tepco, la compagnia elettrica che gestiva la centrale.
Gli operai che lavorano fra le macerie della centrale nucleare di Fukushima ricevono dosi massicce di radioattività ogni giorno e malgrado siano ben oltre i limiti accettabili per l’organismo proseguono il loro lavoro. Alcuni media parlano di loro chiamandoli “ i kamikaze di Fukushima”.
L’editoriale è una lettera aperta al primo ministro giapponese e al ministro giapponese della sanità, oltre che ai vertici della Tepco, la compagnia elettrica che gestiva la centrale.
Gli operai che lavorano fra le macerie della centrale nucleare di Fukushima ricevono dosi massicce di radioattività ogni giorno e malgrado siano ben oltre i limiti accettabili per l’organismo proseguono il loro lavoro. Alcuni media parlano di loro chiamandoli “ i kamikaze di Fukushima”.
La metà degli operai che opera alla centrale non sono impiegati regolarmente : la compagnia per cui lavorano e quella che versa loro il salario sono diverse.
La Tepco approfitta della confusione giuridica e smentisce il degrado delle condizioni di lavoro e il calo dei salari. Per i dirigenti “questi operai sono ingaggiati da subappaltanti e non sappiamo quali siano le loro condizioni contrattuali e salariali. Non possiamo parlare del funzionamento di compagnie con cui non abbiamo stipulato un contratto.”
Il volume di lavoro è aumentato, mentre i salari sono diminuiti. Poco dopo la catastrofe, la Tepco aveva annunciato un calo del 20% dei salari e la soppressione delle gratifiche per far fronte ai costi esorbitanti della catastrofe. Oggi il 5% degli operai dichiara di guadagnare meno dell’equivalente di 6 euro all’ora, una somma inferiore al salario minimo in vigore a Tokyo. La maggior parte ha un salario poco più elevato per compiti ad alto rischio e dannosi per la salute.
La Tepco approfitta della confusione giuridica e smentisce il degrado delle condizioni di lavoro e il calo dei salari. Per i dirigenti “questi operai sono ingaggiati da subappaltanti e non sappiamo quali siano le loro condizioni contrattuali e salariali. Non possiamo parlare del funzionamento di compagnie con cui non abbiamo stipulato un contratto.”
Il volume di lavoro è aumentato, mentre i salari sono diminuiti. Poco dopo la catastrofe, la Tepco aveva annunciato un calo del 20% dei salari e la soppressione delle gratifiche per far fronte ai costi esorbitanti della catastrofe. Oggi il 5% degli operai dichiara di guadagnare meno dell’equivalente di 6 euro all’ora, una somma inferiore al salario minimo in vigore a Tokyo. La maggior parte ha un salario poco più elevato per compiti ad alto rischio e dannosi per la salute.
Per “ripulire” la centrale, viene cercata manodopera soprattutto tra i freeters, un neologismo che indica i lavoratori a tempo parziale o i disoccupati di età compresa fra 15 e 34 anni, giovani precari che guadagnano di che vivere facendo lavori che non richiedono competenze specifiche e che sono mal pagati.
Per attirare i più giovani, spesso gli annunci di lavoro restano su termini vaghi. In generale il testo indica unicamente il luogo di lavoro, gli orari e il salario. Nessun accenno ai rischi e chi viene ingaggiato ignora i rischi ai quali va incontro, anche perché non ha alcuna esperienza del genere.
Questi lavoratori precari non sono iscritti ad alcun sindacato, non hanno uno statuto ufficiale e sono sfruttati da compagnie senza scrupoli.
I poteri pubblici e la Rengo, la principale confederazione sindacale giapponese, li ignorano. Le associazioni indipendenti Citizens Nuclears Information Center e il Japan Occupational Safety and Health Resource Center sono le uniche che difendono questa manodopera invisibile.
Per attirare i più giovani, spesso gli annunci di lavoro restano su termini vaghi. In generale il testo indica unicamente il luogo di lavoro, gli orari e il salario. Nessun accenno ai rischi e chi viene ingaggiato ignora i rischi ai quali va incontro, anche perché non ha alcuna esperienza del genere.
Questi lavoratori precari non sono iscritti ad alcun sindacato, non hanno uno statuto ufficiale e sono sfruttati da compagnie senza scrupoli.
I poteri pubblici e la Rengo, la principale confederazione sindacale giapponese, li ignorano. Le associazioni indipendenti Citizens Nuclears Information Center e il Japan Occupational Safety and Health Resource Center sono le uniche che difendono questa manodopera invisibile.
mercoledì 22 maggio 2013
Morto don Gallo.
Don Andrea Gallo, 84 anni, e' morto. Lo ha reso noto a Genova il portavoce della Comunita' di San Benedetto al Porto, Domenico Chionetti.
Le condizioni di salute del religioso si erano notevolmente aggravate negli ultimi giorni.
Uno degli ultimi baluardi della libertà di pensiero è volato via.
Resterà per sempre nei nostri cuori.
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