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mercoledì 17 giugno 2015

Perquisizioni a Rai, Mediaset, La7, 44 indagati per appalti.

La sede della Rai in viale Mazzini (Ansa)


ROMA (Reuters) - Perquisizioni della Guardia di Finanza sono in corso tra Rai, Mediaset, La7 e Infront nell'ambito di un'inchiesta della procura di Roma che vede indagati 44 tra dirigenti e funzionari delle quattro società con l'accusa di aver affidato appalti a un imprenditore in cambio di tangenti.
Lo riferisce una fonte giudiziaria, precisando che sono circa 60 le perquisizioni in corso da parte del Nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle.
Secondo il pm romano Paolo Ielo, l'imprenditore titolare della società in questione, accusato di corruzione, avrebbe pagato le tangenti attraverso sovrafatturazioni per i lavori che gli venivano affidati.
Gli indagati della Rai, che avrebbero commesso il reato nello svolgimento di un servizio pubblico, sono accusati di concorso in corruzione. Gli altri indagati devono rispondere invece del reato di appropriazione indebita.
Non è stato possibile per il momento avere un commento da Rai e Mediaset.

lunedì 3 novembre 2014

La mappa del tesoro di Silvio: scoperti un miliardo e 277 mln. - Paolo Biondani

La mappa del tesoro di Silvio: scoperti un miliardo e 277 mln


E' il primato di Berlusconi rivelato in un libro inchiesta che ripercorre vent'anni di indagini sull'ex Cavaliere tra Milano, Bermuda, Bahamas, Stati Uniti, Svizzera, Hong Kong e San Marino.


MILANO - In Italia c'è abbondanza di evasori. Ma anche in questo campo Silvio Berlusconi non ha rivali. Dopo la condanna definitiva per frode fiscale, consacrata il primo agosto 2013 dalla Cassazione, ora è possibile fare un primo bilancio completo e documentato sui fondi neri scoperti in vent'anni d'indagini sul proprietario della Fininvest. Il conto finale è da primato: almeno un miliardo e 277 milioni di euro. Per guadagnare la stessa cifra un maresciallo della squadra anti-evasione della procura di Milano, che ha uno stipendio di 2 mila euro al mese se fa gli straordinari, dovrebbe lavorare per 53 mila e 208 anni.

Il forziere delle tangenti. 

Nel video-messaggio del 18 settembre Berlusconi si è proclamato "assolutamente innocente" e ha accusato la magistratura di averlo colpito con "una sentenza mostruosa e politica". La riprova del complotto sarebbe la presunta esiguità dell'evasione per cui è stato condannato: 7 milioni e 300 mila euro, nulla per un miliardario come lui. In realtà quella frode è l'unico pezzo di processo che è riuscito a sopravvivere alla legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dai suoi parlamentari, che ha dimezzato i termini di prescrizione dei reati. Ma in tutti i gradi di giudizio le sentenze definiscono "colossale" la massa di denaro nero che si è riversata 
sulle società offshore gestite dal gruppo Fininvest e risultate "di proprietà personale di Berlusconi".

L'accusa ha dimostrato che i prezzi dichiarati al fisco per i film americani comprati da Fininvest e Mediaset venivano costantemente gonfiati, per portare soldi all'estero. La condanna definitiva quantifica in 368 milioni e 510 mila dollari il totale dei fondi neri creati, con i contratti truccati, nel solo quinquennio esaminato nel processo, che va dal 1994 al 1998. Di questa "sistematica frode fiscale", spiegano i giudici, Berlusconi è stato "l'ideatore, l'organizzatore e il beneficiario finale": i soldi finivano su conti offshore gestiti dai suoi tesorieri personali. E le stesse sentenze precisano che questa è solo una parte di un enorme patrimonio segreto accumulato "fin dagli Ottanta". 

Le offshore per i figli.

Ora un libro-inchiesta di Paolo Biondani e Carlo Porcedda ("Il Cavaliere Nero", edito da Chiarelettere) ricostruisce come si è formato e in quali paradisi fiscali è stato nascosto l'intero tesoro nero di Silvio Berlusconi, pubblicando per la prima volta i documenti originali che comprovano le accuse.

Il processo Mediaset è nato da una costola delle indagini di Tangentopoli, che già negli anni Novanta avevano portato alla scoperta delle prime 64 società offshore del gruppo Fininvest, attive tra il 1989 e il 1994-95. La tesoreria centrale si chiamava All Iberian: un sistema di conti esteri "non ufficiali" che ha finanziato "operazioni riservate" per un totale di 1.550 miliardi di lire (775 milioni di euro). Un fiume di denaro nero utilizzato, tra l'altro, per pagare tangenti a politici come Bettino Craxi e per corrompere il giudice civile romano che ha regalato il gruppo Mondadori alla Fininvest. Per questo primo tesoro offshore il Cavaliere aveva ottenuto l'impunità, dopo le elezioni del 2001, grazie alla contestatissima legge che ha trasformato quel gigantesco falso in bilancio in una semplice contravvenzione a prescrizione ultra-rapida: le sentenze definitive però spiegano che Berlusconi "non può certo dirsi innocente".

Il processo Mediaset, quello che ha portato alla condanna finale, è partito dalla scoperta dei depistaggi organizzati per fermare Mani Pulite: documenti sottratti alle perquisizioni, conti svuotati per far sparire i soldi, fino alla corruzione del testimone chiave, l'avvocato inglese David Mills. L'obiettivo di tante manovre di "inquinamento probatorio", come le ha definite il pm Fabio De Pasquale, era nascondere le offshore personali di Berlusconi, tra cui spiccano le società Century One e Universal One: due forzieri esentasse con almeno 252 milioni di dollari. Le carte fatte sparire nel 1996, e ritrovate solo nel 2003-2004, riguardano anche la società Bridgestone, intestataria di uno yacht e di una villa da 12 milioni di dollari alle Bermuda: un regalo offshore di papà Silvio alla figlia Marina Berlusconi. Il Cavaliere, inoltre, controlla personalmente un sistema di conti alle Bahamas, che hanno ricevuto almeno 26 milioni di dollari fino al 1998, attraverso un grossista di carni di Montecarlo, trasformato in improbabile venditore di film. 

Non bastasse, c'è il nero italiano. Nella sentenza definitiva del processo per le tangenti alla Guardia di finanza, chiuso nel 2001, si legge che la Fininvest aveva notevolissime "disponibilità extra-bilancio" già negli anni Ottanta: almeno 65 milioni di euro. Un patrimonio nero così quantificato dagli stessi giudici della Cassazione che in quel caso avevano assolto il Cavaliere, spiegando che i manager della Fininvest avevano davvero corrotto 12 finanzieri tra cui un generale, ma lui poteva non saperlo.

Un altro tesoro nascosto è invece attualissimo. Nel processo Mediaset il ruolo di primattore spetta a Frank Agrama, imprenditore del cinema con base a Los Angeles, condannato a tre anni. La sentenza definitiva lo bolla come un "intermediario fittizio", che incassava il nero e lo spartiva segretamente con Berlusconi. Nel solo quinquennio 1994-98, le tv del Cavaliere hanno speso 200 milioni di dollari per acquistare film della Paramount attraverso quel fortunatissimo mediatore americano. Ma al colosso di Hollywood è arrivato soltanto un dollaro su tre. Ben 55 milioni li ha trattenuti Agrama "senza svolgere alcuna attività". E altri 80 milioni di dollari sono rispuntati sui conti delle solite offshore personali di Berlusconi.

Di tutti questi fondi neri, nessuna autorità italiana è mai riuscita a sequestrare un solo centesimo. La sentenza Mediaset ha condannato Berlusconi, per effetto della ex Cirielli, a risarcire solo 10 milioni di euro. Meno di un trentaseiesimo dei profitti accumulati con la frode fiscale di cui è stato riconosciuto colpevole.

(23 novembre 2013)

lunedì 29 luglio 2013

Andrea Scanzi.



L'attesa per domani è in buona parte ipocrita, perché Silvio Berlusconi è stato già condannato in primo grado e in appello. La Corte Suprema di Cassazione non entra nel merito della sentenza, limitandosi a valutare rispetto delle norme e procedure.
Berlusconi è già stato condannato a quattro anni per evasione fiscale e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. In qualsiasi altro paese non farebbe più politica. Oltretutto ha molti altri processi pendenti. Eppure sta sempre lì. Da vent'anni. Grazie agli italiani che lo votano e grazie al Pd (e predecessori: que viva Violante) che lo ha sempre tenuto in vita. Anzitutto adesso.
Nel centrodestra sono sicuri del rinvio di un mese. Anche ammesso che venisse confermata la condanna, sono certi che il governicchio Letta andrebbe avanti (come ha ordinato Berlusconi nella solita intervista rilasciata a Libero e poi smentita) e che in qualche modo Napolitano e centrosinistra organizzerebbero una sorta di amnistia ad personam.
Nel caso peggiore, molto poco probabile, Berlusconi è pronto ad affidarsi alla figlia Marina come megafono e portavoce.
E nel Pd? L'attesa è vissuta con grande nervosismo. Ciò che più innervosisce è proprio la conferma della condanna: "Il Pd non reggerebbe l'urto e salterebbe come un birillo", dice Ugo Sposetti. Gli unici a "sperare" in una conferma della condanna sono quelli di Occupy Pd: "Alle volte è difficile non dare ragione a Grillo. Pd sveglia".
Santanché promette guerriglia, Biancofiore promette guerriglia. E Letta, beato lui, è "sereno".
Berlusconi non andrà comunque in galera. Glielo impediscono - toh, che coincidenza - le norme che escludono la detenzione in carcere per gli ultrasettantenni. In caso di condanna definitiva, la prospettiva sarebbe quella dell'affidamento in prova ai servizi sociali. Se li rifiutasse, rischierebbe al massimo gli arresti domiciliari.
La Sezione Feriale della Cassazione che deciderà domani il suo futuro può scegliere tra il rinvio di un mese (con rischio prescrizione); la condanna, l'assoluzione e l'annullamento del procedimento con nuovo processo (e prescrizione certa). Berlusconi non ha troppi motivi di essere pessimista. Nessuno dei cinque giudici è una toga rossa. Al contrario, è una Sezione fortemente e dichiaratamente conservatrice. Il relatore sarà Amedeo Franco, il presidente Antonio Esposito (padre del Pm Ferdinando, noto anche per le cene private con Nicole Minetti). Non è "rosso" nemmeno il rappresentante della Procura della Cassazione, Antonio Mura, braccio destro del procuratore generale Gianfranco Ciani e uomo di punta di Magistratura Indipendente, la corrente di destra delle toghe (di cui è stato anche presidente). E non sono "rossi" gli altri tre giudici a latere: Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo.
La sensazione è che il Partito Unico vincerà anche stavolta, domani o tra un mese, e l'Italia perderà un altro treno per raggiungere un livello minimo di decenza.
Buona catastrofe.


https://www.facebook.com/pages/Andrea-Scanzi/226105204072482?hc_location=stream

lunedì 8 luglio 2013

Rai, ecco a chi vanno i due miliardi di euro all’anno di appalti pubblici. - Carlo Tecce

Rai, ecco a chi vanno i due miliardi di euro all’anno di appalti pubblici


In un documento segreto di 20 pagine, consegnato dal dg Gubitosi alla Commissione di Vigilanza, ci sono i nomi delle 2400 società che si sono divise la torta: dall'ex dalemiano Velardi ai fratelli 'berlusconiani' Casella, per finire a Dino Vitola, 'protetto dall'ex An Rositani.

Le pagine, venti. Le società, 2400. Le scatole, infinite. Il denaro, 2 miliardi di euro. Ogni anno, a ogni sussulto di canone che rispetta l’inflazione, la Rai distribuisce centinaia di appalti e commesse per le serie televisive e per la ristorazione, per i varietà e i trasporti. Un documento di viale Mazzini, che il Fatto Quotidiano ha visionato e la Commissione di Vigilanza dovrà esaminare, prova a servire la trasparenza: le tabelle, in ordine alfabetico, sembrano un elenco telefonico. Ma di nome e in nome, di sigla in sigla, si scoprono le aziende che lavorano con i migliori contratti.
I fratelli Casella, Losito e Mediaset
Per fare impresa in viale Mazzini, società pubblica che può apparire inespugnabile, non occorrono grossi capitali: una società a responsabilità limitata, 10mila euro per cominciare, un preventivo, un progetto. Ifratelli Casella, Cristian e Marco, avevano esperienza. Il minore Marco ha in carriera sette anni e mezzo nell’ufficio stampa di Silvio Berlusconi e un incarico nei giovani per la libertà. Il maggiore Cristian, l’amministratore, aveva gestito la televisione di propaganda berlusconiana. Il passato di rilievo, seppur politicamente non imparziale, fa scorrere il cancello di viale Mazzini. Qualche sospetto e qualche accusa nascono presto e finiscono ancora prima. I ragazzi sono cresciuti e, in questa stagione, possono vantare un programma (costato 600mila euro, una parte ai fratelli) su Rai1 condotto da Paola Perego e i 10mila euro di 2B Team Group valgono ancora di più.
La presenza di amici al quadrato di Silvio Berlusconi non è un’ossessione per la Rai, anzi, è quasi una prassi, una tradizione che si rinnova e si amplifica. Quando Teodosio Losito, rinomato ammiratore e produttore di Gabriel Garko e Manuela Arcuri su Canale 5, ha incassato un paio di commesse per la televisione pubblica, subito il pensiero è volato a Mediaset, a Cologno Monzese. Proprio a Cologno Monzese, Losito ha residenza: una curiosità, nulla più. Perché fra i soci di Ares Film c’è Rti, acronimo di Reti televisive italiane, una controllata di Mediaset. Losito non si è fatto impressionare, non ha mai commentato né smentito, finché la quota di Rti è scesa al 5 per cento. Non si è mai mossa dal 10 per cento, né un passo avanti né un passo indietro, l’ex compagna di Paolo Berlusconi, Patrizia Marrocco. La Luxvide di Ettore Bernabei e figli non è mai la novità, né in negativo né in positivo: la torta per la fiction si riduce di qualche milioni di euro, ma i santi e i poeti raccontati non perdono spazio né puntate. Anche se il franco-tunisino Tarak Ben Ammar, da sempre alleato di Berlusconi, vorrebbe vendere il 18 per cento del pacchetto azionario che detiene attraverso Prima Tv. L’ennesima edizione di Don Matteo, il prete interpretato da Terence Hill, sarà pronta al prezzo di oltre 15 milioni di euro. E la presenza di Banca Intesa fra i soci trasforma la Luxvide in un colosso multinazionale, non soltanto per le propaggini che si estendono sino a Londra.
Fiduciarie anonime e scatole cinesi
Ecco, per rintracciare un committente di spessore, per la quantità dei prodotti offerti, vale la pena fare un salto nella capitale inglese. E magari, però non sarà facile, capire chi si nasconde (o non vuole farsi riconoscere) dietro la fiduciaria Reynolds Advisor Limited, azionista di maggioranza relativa (40%) diAlbatros Entertainment di Maurizio Momi e Alessandro Jacchia, entrambi italianissimi, entrambi riferimenti costanti per i palinsesti di viale Mazzini. Albatros ha un’estrazione di centro più destra, molte volte si è speso (a parole, sia chiaro) l’ex ministro Maurizio Gasparri. L’esterofilia può farci sbarcare persino in Olanda. Paypermoon Italia fu un’invenzione di Claudio Velardi, all’epoca reduce dagli anni di Palazzo Chigi con Massimo D’Alema. Il referente italiano di Paypermoon, che realizza serie televisive con i vari Neri Marcorè e Anna Valle, si chiama Mauro Mari. Le quote italiane sono divise in tre pezzi: il 3% sta a Londra, il 37% fa capo ad Aislin Italia e il restante a un’omonima olandese.
La parte italiana, però, è di proprietà olandese: leggendo l’ultimo bilancio disponibile, dichiara 714 euro di utile. Sarà che le buone idee premiano e così, nonostante una finanzia non certo multinazionale, la Paypermoon ha tante serate da girare e occupare per circa 8 milioni di euro. Ci sono produttori che non beccano una voce di spesa da anni e colleghi che non mancano mai. I direttori apprezzano la fantasia (e il successo) di Lorenzo Mieli, che non va legato soltanto a Fremantle ItaliaWildside, uffici in viale Mazzini, raccoglie giovani di talento e cognomi, il bravo regista figlio di Maurizio Costanzo, Saverio; l’esegeta diNotte prima degli esamiFausto Brizzi e Mario Gianani, da poco marito di Marianna Madia, deputata Pd.
I grandi affari dei soliti noti
Il calabrese Dino Vitola si è ritrovato in mezzo a una polemica sterminata perché durante il suo Canzoni e Sfide, al teatro Politeama di Catanzaro, in sala c’era il camorrista Gaetano Marino (poi ammazzato) che ascoltava la figlia cantare. Il nome di Vitola figura ancora fra i fornitori di viale Mazzini, quelli che, esaminati e vagliati, possono partecipare a una gara. Per vicinanza territoriale, di origine, s’intende, il consigliere d’amministrazione Guglielmo Rositani l’ha sempre difeso in Cda. In ascesa, va segnalata la Tunnel Produzioni di Ferdinando Mormone che, per Rai2, ha confezionato il contenitore di satira Made in Sudcon Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore. Il fallimento di soldi pubblici per Barbarossa,Umberto Bossi protagonista di un cameo, non ha stroncato il rapporto fra il regista Renzo Martinelli e viale Mazzini. Roberto Sessa ha cambiato tanto, ma non ha smarrito la sintonia con la Rai e ritorna operativo con Picomedia.
Di Benedetto & C. passato di ritorno
L’ex direttore generale Agostinò Saccà ha preso il largo, non senza qualche imbarazzo interno (ha i suoi amici e i suoi nemici) e, da ex capo di tutto in viale Mazzini, fa lievitare la Pepito. C’è un gruppo storico, plasmato nelle ultime stagioni, che conferma la presenza. C’è sempre la Goodtime di Gabriella Buontempo, ex moglie di Italo Bocchino. Come la Titania di Ida Di Benedetto, consorte di Giuliano Urbani. La Itc di Beppe Caschetto va bene anche con la cinepresa. E l’agente Lucio PrestaArcobaleno 3, presidia sempre il territorio. Questa settimana, i parlamentari in Vigilanza Rai avranno le venti pagine che il dg Gubitosi – dopo aver iniziato a ripulire l’albo – ha consegnato al presidente Roberto Fico: può annoiare e ricordare un elenco telefonico, ma ci sono notizie e incroci che possono aiutare la televisione pubblica a sconfiggere brutti sprechi e cattive abitudini.

venerdì 24 maggio 2013

Ezio Greggio, un tapiro per il conduttore: lo stipendio pagato all’estero. - Luigi Franco

Ezio Greggio, un tapiro per il conduttore: lo stipendio pagato all’estero

Mediaset in quattro anni ha sborsato 23 milioni di euro per il volto di Striscia: vanno tutti in Irlanda e a Montecarlo. Quasi 15 milioni sono stati versati a lui, residente nel Principato. Altri 8 milioni sono finiti a una società con sede a Dublino.

Di ramanzine a personaggi più o meno noti, Ezio Greggio ne ha fatte un bel po’. Maghi truffaldini, terapeuti imbroglioni, politici beccati in fuori onda imbarazzanti. Il prossimo Tapiro d’oro, però, potrebbe meritarselo proprio lui, dopo 25 anni passati alla conduzione di Striscia la notizia. Perché il suo caso è tra quelli che stanno suscitando l’interesse dell’Agenzia delle entrate. Per aggiudicarsi le sue battute e le sue frecciate irriverenti, Mediaset ha speso negli ultimi quattro anni più di 23 milioni di euro, parte dei quali sono finiti a una società con base in Irlanda. E da valutare, per l’agenzia, c’è soprattutto la residenza dello showman, che non si trova a Milano o nelle vicinanze di Cologno Monzese, ma in uno dei paradisi fiscali più prossimi a casa nostra, il principato di Monaco.
Vicino sì, ma da Montecarlo agli studi tv della famiglia Berlusconi – ragionano gli ispettori del Fisco – sono sempre più di 300 chilometri ad andare e altrettanti a tornare. Un bel viaggio da fare per ognuna delle oltre 160 puntate all’anno che Greggio conduce a Striscia. Insomma, di tempo nei dintorni di Milano, deve passarne parecchio, soprattutto nei mesi in cui il tg satirico è affidato a lui. Ci sono poi da fare i promo, le riunioni con gli autori e con la produzione, ogni tanto pure qualche prova. Il contratto con Mediaset, poi, oltre a Striscia comprende anche le ospitate a Paperissima, una fiction e trasmissioni serali come Veline, andata in onda l’estate scorsa.
Per ogni partecipazione di Greggio a Striscia, la società Rti del gruppo Mediaset spende intorno ai 24mila euro. La cifra va moltiplicata per tutte le puntate di un anno e poi vanno aggiunte le altre presenze sullo schermo. Così nelle quattro stagioni che vanno dal 2009 al 2013 Greggio è costato a Rti oltre 23 milioni di euro. Di questi, più di 12 milioni sono stati versati direttamente a lui per le trasmissioni e quasi 2,5 per l’esclusiva. Mentre altri 8 milioni sono finiti alla Wolf Pictures Ltd, una società con sede a Dublino, in Irlanda, in cui in passato ha lavorato anche Leonardo Recalcati, una vecchia conoscenza con cui Greggio ha collaborato nel 2011 per produrre ‘Box Office 3D – Il film dei film’, la sua ultima fatica cinematografica da regista.
Alla Wolf Pictures Ltd Greggio ha ceduto tutti i diritti di sfruttamento economico della sua immagine, che poi sono stati venduti a Mediaset. Un triangolo su cui l’Agenzia delle entrate vuole vederci più chiaro. Come sulla residenza a Monaco, grazie a cui Greggio può cavarsela con una ritenuta alla fonte del 30 per cento su quanto ricevuto da Mediaset, invece di versare nel nostro Paese imposte con aliquote che per importi così elevati superano il 40 per cento. La residenza monegasca, tra l’altro, non vale a Greggio solo vantaggi fiscali. È capitato infatti che per partecipare a una puntata di Paperissima, ai 60mila euro di cachet ne siano stati aggiunti 25mila per le spese di viaggio da Monaco, 600 chilometri davvero ben pagati.
Greggio non è il primo vip che attira l’attenzione del Fisco. Tra gli altri, nel 2008 Valentino Rossi ha dovuto firmare un accordo da 35 milioni di euro per chiudere il contenzioso con l’Agenzia delle entrate che gli contestava la residenza londinese. Luciano Pavarotti invece ha sostenuto di essere residente a Montecarlo, finché nel 2000 ha dovuto rimborsare all’Erario 24 miliardi delle vecchie lire. Da Greggio, per ora, nessun commento: il suo cellulare ieri ha suonato a vuoto per tutto il giorno, né gli sms hanno avuto risposta. È all’estero, fanno sapere dalla Greggio Comunicazione di Milano, l’agenzia della sorella Paola. In ogni caso, nulla dovrebbe accadere a Mediaset, che nel contratto si è fatta garantire dall’artista una manleva nel caso di sanzioni fiscali per sue dichiarazioni false. Ma il Gabibbo, di certo, una bella predica non la risparmierebbe. Quella, del resto, è pur sempre l’azienda di chi per anni ha governato il Paese.

martedì 27 novembre 2012

Mediaset vuole mettere il bavaglio al blogger: #siamotuttipablo. - Stefano Corradino


Pablo Herreros
Una tv (gruppo Mediaset) sfrutta una disgrazia. Un blogger invita gli sponsor a boicottarla e si becca una sonora denuncia.
Accade in Spagna: nel novembre 2011 un programma di Telecinco, emittente del gruppo Mediaset fondata da Silvio Berlusconi nel 1989, e non nuova a pesanti cadute di stile tanto da meritarsi l’appellativo di “telebasura” (tv spazzatura) decide di pagare 10mila euro per intervistare la madre di uno degli imputati dell’assassinio di Marta Del Castillo, 17enne sivigliana uccisa da un ex fidanzato e un amico, e il cui corpo non è mai stato ritrovato.
L’opinione pubblica è molto sensibile su questo tema, e la decisione di pagare la madre di uno degli assassini della giovane per presentarsi davanti ai teleschermi proprio non va giù agli spagnoli. Il blogger Pablo Herreros disgustato dalla trasmissione lancia un appello su www.change.org affinché gli inserzionisti del programma si ritirino, per non essere confusi con un programma “che paga gli assassini per intervistarli”. All’appello aderiscono decine di migliaia di persone in poche ore tanto da convincere alcuni dei più grandi marchi presenti in Spagna, a ritirare i propri spot dal programma. Poche settimane dopo il programma, La Noria, venne definitamente chiuso.
Mediaset non si scusa con i propri telespettatori per l’ennesima figuraccia ma, questa settimana ha denunciato per “minacce e coercizione nei confronti degli inserzionisti” il blogger Pablo Herreros e chiede 3,7 milioni di euro e 3 anni di carcere. E così la tentazione per i bavagli alle voci sgradite travalica i nostri confini: dall’Italia alla Spagna (ma sempre per mano italiana, o meglio berlusconiana) chi si ribella allo sfruttamento di una tragedia per qualche punto di share viene denunciato e intimidito.
La petizione che vi invito a firmare a sostegno del blogger Herreros e del suo diritto alla critica e alla libertà di espressione è per chiedere che i vertici di Mediaset ritirino subito la denuncia.
Se in Italia il servizio d’ordine mediatico di Berlusconi chiede che Sallusti non vada in carcere quantomeno per coerenza dovrebbe rifiutare la galera anche per il collega spagnolo.
Leggi anche:

venerdì 26 ottobre 2012

Mediaset, Berlusconi condannato a 4 anni ma 3 sono “indultati”.


Assolto Fedele Confalonieri "per non aver commesso il fatto". Per i giudici di Milano è stata una "evasione notevolissima". L'ex premier, interdetto dai pubblici uffici per 3 anni, dovrà versare, insieme agli altri imputati, tra cui il suo "socio occulto" Frank Agrama, un risarcimento di 10 milioni all'Agenzia delle entrate.




I giudici di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni nell’ambito del processo sui diritti Mediaset. Tre anni al produttore cinematografico Frank Agrama, considerato dalla Procura di Milano il “socio occulto” del Cavaliere.  Il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, è stato assolto per “non aver commesso il fatto”, mentre al manager Daniele Lorenzano è stata inflitta una condanna a 3 anni e 8 mesi. Un’altra manager Gabriella Galetto è stata condannata a un anno e due mesi. Le pene, come ha letto in dispositivo il presidente Edoardo D’Avossa, sono condonate nella misura di tre anni grazie all’indulto (articolo 1 della legge 241 del 2006, ndr). Per l’ex presidente del Consiglio i giudici hanno stabilito come pena accessoria l'’interdizione dai pubblici uffici per tre anni (che diventerà esecutiva se e quando la sentenza passerà in giudicato e dopo il terzo grado, ndr) e l’interdizione a contrattare con la pubblica amministrazione. Agli imputati, in totale undici, veniva contestata la frode fiscale. I giudici hanno disposto un versamento a titolo di provvisionale di 10 milioni di euro da parte degli imputati condannati all’Agenzia delle Entrate. Per Paolo Del Bue (Arner Bank) è stata dichiarato il non luogo procedere per intervenuta prescrizione. Gli altri imputati sono stati assolti o si sono visti riconoscere la prescrizione del reato. La sentenza dovrà essere pubblicata nella sua interezza sul Sole24ore. I giudici hanno letto contestualmente le motivazioni della loro decisione; con il sistema dei costi gonfiati nella compravendita di diritti tv, è stata realizzata “una evasione notevolissima” quantificata  in 17,5 miliardi di lire nel 2000; in 6,6 milioni di euro nel 2001, in circa 4 milioni nel 2002, e in circa 2 milioni nel 2003. I giudici richiamano anche una testimonianza, nella quale si parla di un sistema “per evidenti fini di evasione fiscale”. Sistema che, secondo i giudici, anche altri testi hanno confermato.

I magistrati giudicanti hanno superato di quattro mesi la richiesta dell’accusa nei confronti del leader del Pdl. Il pm Fabio De Pasquale aveva chiesto 3 anni e 8 mesi e in requisitoria aveva detto che Silvio Berlusconi “aveva lasciato le sue impronte digitali“ sul sistema ”truffaldino” di ”maggiorazione dei costi” dei diritti tv acquistati da Mediaset, tra il 1994 e il 1998. C’era lui secondo la pubblica accusa “all’apice della catena di comando del settore’‘ ed era lui ad avere ”il controllo su Fininvest, che ha organizzato la frode”. E sempre all’ex presidente del Consiglio poi ”sono riconducibili i conti bancari dove sono stati versati i fondi neri”, che sarebbero stati realizzati con le compravendite ‘gonfiate’.
Quello sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset, davanti ai giudici della prima sezione penale è uno dei tre processi milanesi in corso a carico dell’ex premier, oltre a quello sul caso Ruby e all’altro con al centro la fuga di notizie sull’intercettazione Fassino-Consorte ai tempi della scalata alla Bnl. Per la vicenda ‘Mills’, invece, a febbraio era stata decretata la prescrizione (le parti hanno tempo fino ai primi di luglio per ricorrere in appello), mentre per il caso Mediatrade la Cassazione ha confermato nei giorni scorsi il proscioglimento di Berlusconi. Un’assoluzione questa, in un procedimento ‘parallelo’ sempre sui diritti tv, di cui i giudici della prima sezione, secondo gli avvocati Ghedini e Longo, avrebbero dovuto tenere conto. 
Nello schema delineato dall’accusa, i dirigenti Fininvest/Mediaset, avvalendosi di intermediari e società compiacenti, avrebbero, infatti, gonfiato i costi d’acquisto dei diritti dei film da trasmettere in tv (”3 mila titoli in 4 anni, comprati con 12 mila passaggi contrattuali”) per creare fondi neri. E così, stando all’imputazione, nei bilanci Mediaset degli anni 2001-2002-2003 sarebbero finiti ”circa 40 milioni di euro di costi gonfiati”. E i soldi ottenuti dalla presunta frode? Secondo il pm, “circa 250 milioni di dollari sono rimasti nel ‘comparto riservato (il cosiddetto ‘gruppo B’, ndr) di Fininvest”. E queste ”società nascoste”’ – alcune delle quali, ”quelle maltesi” in particolare, avrebbero avuto un ruolo nelle ”vendite fittizie e ‘spezzettate”’ – erano, ha affermato De Pasquale, ”proprio di Berlusconi come persona fisica”. Allo stesso ex premier poi, ”che era anche, da tempo immemorabile, in stretti rapporti col produttore americano Frank Agrama (per lui chiesti 3 anni e 8 mesi di condanna, ndr)”, sarebbero riconducibili anche ”i conti bancari” da cui sarebbe transitata ”la cresta”: quei presunti fondi neri passati per ”conti svizzeri e delle Bahamas o in quelli del fiduciario Del Bue di Arner Bank” e poi ”usciti con prelievi in contanti”. Una ricostruzione che oggi i giudici sembrano aver accolto. Un anno fa circa i giudici, su richiesta della Procura, aveva riconosciuto la prescrizione del reato a un imputato eccellente: l’avvocato David Mills, già condannato per essere stato corrotto da Berlusconi per mentire in due processi. La Cassazione, confermando il quadro accusatorio, aveva dichiarato la prescrizione. Stesso destino per il Cavaliere, la cui posizione era stata stralciata per l’incostituzionale Lodo Alfano.
Una sentenza assolutamente incredibile che va contro le risultanze processuali. Addirittura non si è tenuto conto delle decisioni della Corte di Cassazione e del giudice di Roma, che per gli stessi fatti hanno ampiamente assolto il Presidente Berlusconi” affermano in una nota congiunta i legali di Silvio Berlusconi, Niccolo’ Ghedini e Piero Longo. Uno dei legali di Confalonieri, l’avvocato Alessio Lanzi, ha invece dichiarato: ”Giustizia è fatta. Tecnicamente non ha mai commesso nessun reato. Nessuno dei testi lo ha mai indicato come partecipante all’acquisto dei diritti. Bisogna capire perché per altre persone non c’è stata l’assoluzione”. 

martedì 18 settembre 2012

E’ ufficiale, Mediaset non corre più per La7 e imbarazza Mediobanca.


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Un comunicato di Cologno conferma il ritiro, ma ricorda che a invitarla a partecipare era stata Piazzetta Cuccia, che nell'operazione gioca su tutti i tavoli. Da azionista di Telecom dirà la sua, da consulente della vendita ha stoppato il Biscione, da analista finanziario ha bocciato l'acquisizione del "terzo polo" da parte dei Berlusconi.

E’ ufficiale, Mediaset si è ritirata dalla gara per l’acquisto di La7. Lo ha deciso il comitato esecutivo del Biscione dopo che al gruppo televisivo guidato da Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi era stato negato l’accesso ai dati sensibili dell’emittente in vendita. A stoppare Cologno, era stata la stessa Mediobanca che  in veste di consulente sta gestendo l’operazione per conto di Telecom Italia (società partecipata da Piazzetta Cuccia).  Quello che emerge dalla nota con cui Mediaset, il cui azionista di controllo è anche socio forte di Mediobanca, è però che era stata la stessa banca d’affari guidata da Alberto Nagel a invitare il gruppo della famiglia Berlusconi a partecipare alla gara.
“Al fine di evitare ulteriori strumentalizzazioni e voci interessate prive di qualsiasi fondamento – si legge infatti in una nota del gruppo televisivo – Mediaset si vede costretta a intervenire sul caso Ti Media comunicando di aver ricevuto il 15 giugno 2012 un formale invito da Mediobanca a manifestare eventuale interesse per ottenere l’information memorandum relativo alla cessione, interesse che è stato confermato da Mediaset il 22 giugno”. Tuttavia, continua la nota, “già a luglio l’esame dei dati in nostro possesso ha ribadito l’orientamento che ha sempre sconsigliato alla nostra società qualsiasi impegno relativo agli asset in vendita del gruppo Telecom, orientamento che non si è mai modificato e che confermiamo a tutt’oggi”.
“Chiarita pubblicamente la nostra estraneità all’operazione fin da prima della pausa estiva, auspichiamo che il processo di cessione prosegua con successo – e con nuove brillanti performance borsistiche – senza più utilizzare il nome della nostra società per creare visibilità e interesse intorno alla dismissione di un’attività in cerca di acquirenti che vanta risultati di bilancio da sempre negativi”, conclude la nota di di Cologno monzese.
Proprio in Piazza Affari oggi è proseguita la corsa del titolo Telecom Italia Media  la società di Telecom Italia  cui fa capo La7: verso fine seduta il guadagno è del 17,11%, ancora in calo, invece, Mediaset che cede il 3,13 per cento. Gia ieri le pressioni e le indiscrezioni del finesettimana sul processo di vendita di La7 avevano fatto buon gioco al titolo del gruppo di telecomunicazioni che, tra una sospensione al rialzo e l’altra, aveva registrato un balzo del 13,51% a 0,18 euro.  A stuzzicare il mercato il fatto che dopo anni di abboccamenti all’italiana risolti in un nulla di fatto, la cessione del cosiddetto terzo polo sembra davvero in dirittura d’arrivo. Con tanto di lista di almeno sette potenziali pretendenti che per ogni pezzo che perde (Mediaset) ne guadagna uno (Sky). E a poco erano valse (ieri come oggi) le osservazioni degli operatori più razionali che invitano ad aspettare almeno fino al 24 settembre, quando i candidati che hanno bussato alla porta di Mediobanca per visionare il dossier dovranno dimostrare se fanno sul serio o meno presentando un’offerta.
Quanto al titolo Mediaset, ieri aveva perso il 2,2% a 1,82 euro, proprio mentre diventava quasi ufficiale l’esclusione dalla gara da parte di Mediobanca. Piazzetta Cuccia, che tra i suoi azionisti conta anche la Fininvest, aveva infatti deciso di non inviare a Cologno Monzese la documentazione necessaria per valutare La7 escludendo di fatto il gruppo televisivo dalla gara. Le fonti che ne hanno parlato all’Adn Kronos dopo le indiscrezioni di ieri Repubblica, hanno motivato la decisione in primo luogo con l’arrivo fuori tempo massimo della manifestazione di interesse di Mediaset, in secondo luogo con il fatto che si tratta di una gara privata non soggetta agli stessi obblighi di una gara pubblica. Questioni, quindi, di opportunità, dal punto di vista degli affari legate ai potenziali problemi di Antitrust se l’offerta di Cologno si fosse concretizzata. 
Sull’andamento del titolo ieri avevano pesato le ipotesi di chi temeva che il boccone La7 potesse risultare indigesto per le finanze del gruppo televisivo della famiglia Berlusconi. “Non ci sorprenderemmo se la società decidesse di dare il via a un aumento di capitale per finanziarie un’eventuale operazione. In alternativa il gruppo potrebbe decidere di non pagare alcun dividendo per i prossimi tre anni”, recitava per esempio uno studio di analisti che però porta la firma della stessa Mediobanca. “In teoria Mediaset sarebbe in grado di supportare il deal – continuava lo studio citando la valutazione base di La7 di 500 milioni di euro debiti inclusi riportata dalla stampa – Il problema è che in questo modo il debito del gruppo potrebbe superare quest’anno i 2,3 miliardi di euro”. E l’operazione metterebbe troppo sotto pressione il livello di debito del gruppo nel breve periodo. 
Quello che Mediobanca non diceva è che a mettere altrettanto sotto pressione il Biscione era il rischio che La7 finisca nell’orbita di un gruppo in grado di farle raddoppiare se non triplicare lo share dall’attuale  (3,5%) trasformando l’emittente di Telecom in un temibile concorrente, come dimostra l’andamento di Borsa di oggi. Non è un caso, notano gli operatori del settore, che la vendita, per quanto nell’aria da anni, sia passata dallo status di affare mormorato all’orecchio a quello di asta ufficiale proprio in un momento in cui Silvio Berlusconi non è al governo.
Ed è anche per questo che la fila per guardare le carte è lunga. Ieri sera, infatti, è emerso che si è aggiunta anche la News Corporation di  Rupert Murdoch  all’elenco che comprendeva  il gruppo americano Liberty Media, con la sua controllata Discovery Channel fino all’arrivo dello “squalo” ritenuto in pole position, ma anche i tedeschi di Rtl; il concessionario di pubblicità di La7, la Cairo Communications del presidente del Torino, Urbano Cairo;  la 3 Italia controllata dal magnate cinese Li Ka Shing e una serie di fondi d’investimento tra cui Clessidra di Claudio Sposito, ex amministratore delegato di Fininvest. E ancora Abertis ed  Ei Towers (gruppo Mediaset) interessati alle frequenze e alle torri di trasmissione del segnale.
L’operazione di vendita però non appare così semplice. Nonostante il gruppo Telecom Italia Media abbia investito negli ultimi mesi per rafforzare La7, registrando nel 2011 un aumento dello share del 24%, il gruppo ha chiuso il primo semestre con un rosso di 35 milioni di euro. Ma soprattutto, con un indebitamento netto salito da 138,7 a 201 milioni di euro. Numeri che fanno riflettere i potenziali compratori sia sul fronte dei costi che di un eventuale piano industriale per rendere per la prima volta profittevole l’emittente.  La partita, in ogni caso, è ancora lunga e non si concluderà con le offerte non vincolanti della settimana prossima. Che potrebbero arrivare anche da chi non ha fatto richiesta di vedere il dossier.