giovedì 16 dicembre 2010

Fini contro la prassi per fare la storia. - di Marco Travaglio e Peter Gomez.




Domani probabilmente Silvio Berlusconi otterrà la fiducia, per uno o due voti, grazie a una quindicina di deputati comprati a prezzo modico e a tre deputate partorienti. Fiducia a termine, destinata a durare solo finché il governo non lascerà le Camere per tornare ad asserragliarsi nel Palazzo. Poi provvederà Umberto Bossi a staccare la spina, mandandoci alle elezioni anticipate.

L’esecutivo del “miglior premier degli ultimi 150 anni” è infatti morto da un pezzo. E sarebbe già sepolto se Fini non si fosse fatto convincere, per un eccesso di responsabilità istituzionale, dal capo dello Stato che un mese fa gli chiese di rinviare il voto sulla mozione di sfiducia alla Camera al 14 dicembre, dando così il tempo al Presidente del Consiglio di indire l’asta per gli onorevoli mancanti.

Ma forse è meglio così: la tragicomica e corrotta sfiducia di domani è una buona occasione, forse l’ultima, per indurre mezza Italia a riflettere su se stessa.

Come hanno potuto milioni di cittadini votare per uno come Berlusconi, quand’era chiaro fin dall’inizio che lui era sceso in campo solo per farsi gli affari suoi? Come hanno potuto interi plotoni di giornalisti e intellettuali spacciarlo per il campione della “rivoluzione liberale”, mentre lui brigava notte e giorno, nelle ore lasciate libere dalle ragazze a pagamento, per scampare ai suoi processi e arraffare milioni? Come ha potuto l’opposizione, salvo rare eccezioni, glissare sul conflitto d’interessi che, proprio in questi giorni, ha esplicato la sua geometrica potenza con l’intero gruppo Mediaset impegnato a offrire carote ai consenzienti e a minacciare bastoni ai dissenzienti?

Sabato, durante la manifestazione del Pd, nessuno ha osato ricordare la verità: e cioè che il premier è abbarbicato disperatamente non al governo, ma all’annesso legittimo impedimento per sfuggire ai tribunali e alla giustizia. Così, sia pure con sedici anni di ritardo, l’ha dovuto fare Fini.

Domani Fini, da presidente della Camera, sarà costretto ad astenersi come vuole la prassi. Ma, se il pannello luminoso di Montecitorio segnasse il pareggio, Fini deve pensare una cosa. Una possibilità ancora ce l’ha. Quella di dimettersi e votare contro il premier. Perderebbe la poltrona, certo. Ma con la sua sfiducia farebbe davvero la storia.

Peter Gomez e Marco Travaglio



Di Pietro parla alla Camera e Berlusconi lascia l'aula

mercoledì 15 dicembre 2010

PD, il partito che non c'è.


Saranno contenti i delatori di Di Pietro e Grillo, gli unici che non gliele mandano a dire, ma gliele dicono proprio, o che ci informano.

Questi delatori, spregevoli sostenitori del PD, il partito che non sa dove e come collocarsi, che ha perso la sua identità, che si è dissociato da tutti e tutto, che ha permesso che un "conflitto di interessi" approdasse sullo scranno più alto in parlamento, hanno regalato la vittoria ad un piduista.

Che differenza c'è tra loro e i mercenari della politica?

Entrambi contribuiscono a mantenere una situazione incerta, destabilizzante.

Io non so dove il PD voglia approdare, di una cosa sono certa, debbono ritrovare se stessi, si sono persi in un oceano di forse, ma, se.

Vi sono troppi comandanti, e nessuno di questi vuole sacrificarsi per designare, finalmente, un capo carismatico con un carattere forte, un condottiero che riporti la sinistra a riguadagnare la credibilità ed il rispetto che merita un partito di sinistra, quella che protegge i lavoratori che sono, poi, l'unico e vero sostegno di una nazione.

Che vadano a fare in cu...o i vari Fassino, D'Alema, Franceschini e Bersani stesso: gli manca il carisma perchè abbarbicati al loro potere o perchè senza carattere.

Io sento di appartenere alla ideologia di sinistra, ma non mi sento più rappresentata da questa sinistra composta da padroni assoluti e sempiterni, mi manca il terreno sotto i piedi e, conscia del fatto che il mio voto può fare la differenza, voto il meno marcio o chi, almeno, dice pubblicamente ciò che anch'io direi.

Meglio Di Pietro, Grillo, Vendola che, con tutti i difetti possibili riscontrabili in comuni esseri umani, sono ancora gli unici che mi ispirano fiducia.


Un giorno buio. - Antonio Padellaro.




Questo martedì 14 dicembre, che in tanti aspettavano come l’inizio di una fine, sarà ricordato come una giornata buia, disperante, dove il peggio ha dato il peggio di sé. Due immagini.

Tre membri del Parlamento, transfughi dal centrosinistra, che attendono l’ultimo momento dell’ultima conta nell’aula di Montecitorio per far valere il peso decisivo del loro sì al governo. Così che il presidente del Consiglio possa misurarne il cospicuo valore (in tutti sensi), e generosamente ricambiare.

Intanto, non lontano dal Palazzo sordi boati annunciano battaglia. Dalla gigantesca e pacifica manifestazione degli studenti si staccano le nutrite milizie della guerriglia urbana e si scontrano con la polizia in tenuta antisommossa (che, quasi impreparata a sostenere l’urto, reagisce con altrettanta violenza). Per ore, nel centro della Capitale, scene come non si vedevano dalla fine degli anni Settanta, dagli anni di piombo appunto.

Chiariamo subito. Nessuna indulgenza con chi fracassa, devasta e appicca incendi. Ma qualcosa deve farci riflettere. C’è una rabbia generazionale che sta attraversando l’Europa: Atene, Londra e adesso Roma. Una reazione alle politiche restrittive dei governi che viene da lontano, ma che diventa furiosa davanti alla ottusa indifferenza delle cosiddette classi dirigenti, concentrate solo sull’autoconservazione del potere. La rivolta era probabilmente premeditata, ma la scintilla scocca quando dalla Camera giunge notizia della fiducia strappata per un pugno di voti e con un pugno alla decenza.

Lo schifo per una politica che si prostituisce a chi offre di più non può essere un alibi per i teppisti, ma spiega una realtà. L’Italia è attraversata da fortissime tensioni (sociali, umane) che le masse studentesche interpretano con la mutevolezza dei vent’anni. E se la finta allegria dei cortei si trasfigura nell’odio e se il sorriso nel grido, le ferme condanne servono a poco. Qualcuno pensa davvero di rispondere all’emergenza di un paese che ha sempre meno soldi e tanto meno futuro con un governo incapace, con una maggioranza raccattata, con un premier impresentabile? La prossima volta chi manderanno incontro alle masse sempre più incazzate? Scilipoti?


La lobby di Dio - Ferruccio Pinotti


Diario della Crisi con Luca Telese e Arianna Ciccone: manifestazione del 14 Dicembre 2010 a Roma



Passerà alla storia come il giorno della sconfitta e della vergogna.
Il giorno in cui abbiamo perso dignità e onore per mano di pochi mercenari della politica.

Trattativa Stato-mafia, i pm interrogheranno Gianni De Gennaro



PALERMO – Una conversazione tra due funzionari della Dia sul progetto di ‘’dissociazione’’ captata nel ’92 dalle orecchie attente di Gaspare Mutolo e riferita pochi mesi fa ai pm nisseni. I misteri dell’estate dei veleni dell’89, con il ritorno di Contorno in Sicilia e le misteriose lettere del Corvo che alimentarono polemiche violentissime sul fronte antimafia. E persino i buchi neri del fallito attentato dell’Addaura, che Falcone attribui’ a ‘’menti raffinatissime’’.

L’indagine sulla strage di via D’Amelio, oltre al livello militare mafioso, ha imboccato con decisione la pista del contesto politico-istituzionale con gli interrogatori dei vertici dello Stato, investigativi e de servizi segreti dell’epoca. E ora la procura di Caltanissetta ha deciso di mettere in calendario l’audiziome, nelle vesti di testimone, del capo degli 007 italiani Gianni De Gennaro.

Non sarà il signor Franco, e neppure il suo diretto superiore, come insinua Massimo Ciancimino. Ma l’ex capo della polizia, ex collaboratore e amico di Giovanni Falcone, e oggi al vertice del Dis, il dipartimento informazioni per la sicurezza, è l’asso dell’antimafia che, secondo i pm nisseni, meglio di chiunque altro può raccontare tutte le strategie di contrasto adottate in Italia contro Cosa nostra dal pentimento di Masino Buscetta in poi, cercando di illuminare i numerosi punti oscuri. E per questo motivo i pm di Caltanissetta che indagano sulla strage di via D’Amelio sentiranno proprio lui, De Gennaro, l’amico dell’Fbi, il bureau americano che dopo le accuse di Ciancimino jr – per bocca del direttore Robert S. Mueller – non ha perso tempo a intessere pubblicamente i suoi elogi. ‘’Per quasi trent’anni De Gennaro è stato un amico fidato e un partner dell’ Fbi e delle forze dell’ordine Usa – ha detto Mueller – . E’ un leader che ha dato un contributo significativo alla lotta contro il crimine organizzato e il terrorismo’’.

L’obiettivo dei magistrati nisseni Sergio Lari, Nico Gozzo, Nicolo’ Marino e Amedeo Bertone, che hanno appena indagato per calunnia il figlio di don Vito, è quello di farsi raccontare per filo e per segno dal capo del Dis la storia della lotta al crimine organizzato nel nostro paese e le sue alterne vicende, fatte di luci e ombre, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. E se i pm hanno chiaramente mostrato di non credere alle parole di Massimo Ciancimino che – tra fughe in avanti e retromarce – ha avvicinato De Gennaro al misterioso signor Franco, lo 007 che avrebbe monitorato, passo dopo passo, il negoziato tra Stato e mafia, i magistrati sono curiosi di sapere se il capo del Dis, in quel periodo a cavallo tra le stragi di Capaci e via D’Amelio, ha avuto rapporti con don Vito Ciancimino, con i carabinieri del Ros di Mario Mori, ma anche – e soprattutto – se e cosa sapeva della trattativa in corso in quei mesi.

Una domanda legata ad una circostanza, appresa solo recentemente: il pentito Gaspare Mutolo, infatti, ha raccontato due mesi fa ai pm di Caltanissetta di aver saputo – in quell’estate del ’92 – di manovre in corso per la dissociazione, ascoltando casualmente una conversazione tra due esponenti della Dia, e ne ha indicato i nomi. Uno dei due, oggi in pensione, sentito dagli inquirenti, ha confermato tutto: all’interno della struttura investigativa antimafia, in quel periodo di confusione istituzionale, nel pieno dell’allarme stragista, si discuteva già della dissociazione dei boss detenuti come di una possibile soluzione all’emergenza mafiosa. Anche De Gennaro sapeva? E’ quello che i pm gli chiederanno, nell’interrogatorio che dovrebbe essere calendarizzato prima dell’anno nuovo.

E non solo. A De Gennaro, che era il diretto superiore di Arnaldo La Barbera, il capo della squadra Mobile di Palermo che fece arrestare Vincenzo Scarantino, trasformatosi poi nel falso pentito che per diciotto anni ha consegnato alla giustizia e all’opinione pubblica una falsa verita’ su via D’Amelio, i pm chiederanno di ricostruire la storia della lotta a Cosa nostra fin dall’annus horribilis dell’antimafia: il 1989. In quella primavera di veleni, La Barbera che proprio in quei mesi era a libro paga del Sisde con il nome in codice di ‘’Rutilius’’, arrestò il 26 maggio in una villetta di San Nicola l’Arena, località balneare vicino Palermo, il pentito Totuccio Contorno, ex fedelissimo di Stefano Bontade (il capofila dei clan avversi ai corleonesi) ufficialmente superprotetto negli Usa, ma in realtà sbarcato in Sicilia e ospite dei cugini Grado. In quei mesi 17 mafiosi alleati diTotò Riina restarono sull’asfalto, crivellati di colpi. Il Corvo attribuì quella mattanza nel “triangolo della morte’’ (Bagheria, Altavilla, Casteldaccia), alla caccia spietata di Contorno, e la responsabilità di aver fatto rientrare il pentito in Sicilia ‘’con licenza di uccidere’’ proprio a De Gennaro, accusato di avere ideato con Falcone ‘’l’utilizzazione dinamica del collaboratore sul territorio’’. Accuse poi dissolte nel nulla; in quell’occasione il superpoliziotto si difese con grande fair play ed efficacia, e uscì incolume da quei veleni, ma la Commissione Antimafia dovette secretare centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche che documentavano anche i contatti tra il De Gennaro e il pentito, presunto giustiziere, poi prosciolto da ogni accusa.

Contemporaneamente, nel giugno dell’89, una borsa con 58 candelotti di esplosivo veniva rinvenuta sulla scogliera dell’Addaura, a pochi metri dalla villa dove risiedeva Giovanni Falcone che, scampato alla morte per un soffio, attribuì quel fallito attentato a “menti raffinatissime’’. Anche stavolta, il capo del Dis ha reagito con la solita compostezza alle accuse di Ciancimino junior che lo vogliono ‘’vicino al signor Franco’’. E dopo aver incaricato i suoi legali di denunciare il teste per calunnia, si e’ limitato a dichiarare: “Le affermazioni del signor Ciancimino – ha detto – mi lasciano del tutto indifferente, tanto evidente e’ la loro falsita’. Non mi lascero’ intimidire da quest’ennesimo attacco mafioso, cosi’ come non mi hanno mai fermato e intimidito i ripetuti attentati alla mia vita’’.